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Argilla
Ai bambini che raggiungono il sesto mese di vita si ha l’abitudine, fra la mia gente, di tagliare le gambe, all’incirca a metà coscia. È il capo delle guardie che si occupa di amputarci. Non è un grande dramma, siamo tutti senza gambe e nessuno qui – giovani, donne, vecchi – percepisce questa tradizione come una cruenta mutilazione. Solo le guardie hanno gli arti integri. Non sono come noi: altra specie, altri attributi, altro ruolo. Loro camminano, noi ci trasciniamo. Loro possono vedere oltre il muro, eppure non ne sembrano affatto felici. Scorrazzano nel villaggio, sui torrioni, fra le passatoie della muraglia. Sono taciturni. La nostra unica occupazione da mattino…
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Come una pecora
Il tessuto si appiccica alla pelle, insisto, sale ma di poco. Inizio a respirare forte, mi sento un ippopotamo in mezzo allo spogliatoio, i vestiti flosci di sconosciute appesi tutt’intorno. Mi fanno venire in mente i conigli che mio zio scuoiava prima di cucinarli. Io in una piscina non ci sono mai entrata, e sì che spesso toccava a me sorvegliare gli alunni nell’ora di nuoto. Li portavamo alla piscina comunale con il pulmino della scuola, una scatola di latta che si gonfiava di urla. C’era sempre qualcuno che piangeva. Sono quasi tutti secchi i ragazzini a quell’età, dei mucchietti di ossa tenuti insieme male. Li guardavo che si tuffavano,…
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Suicidio di D.
Nel febbraio scorso, D. rimase chiuso nel suo vecchio appartamento per cinque giorni senza né mobili né gas né corrente, in uno stato d’isolamento totale. Sei mesi dopo, appena compiuti i quarant’anni, si tolse la vita. Non ci fu nessun evento tale da giustificare una simile decisione, anzi: stando al parere della compagna Michela sembrava uno dei periodi “più felici dell’intera relazione”; e difatti fu lei, non capacitandosi del suicidio, a richiedere un’indagine poliziesca, la quale acclarò che “senza ombra di dubbio” (così l’ispettore) D. s’era ammazzato: era stato lui a comprare la corda – lo documentano le telecamere del negozio di bricolage del quale era cliente da anni –,…
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di guerra, carne e amore
“E così lasciava delle tracce verbali che indicavano […] la strada”Europeana, Patrik Ourednik Era dove il cielo scendeva. Un punto prima, una linea mossa poi. Hanno questa abitudine di confondersi i punti e le linee. Per non parlare delle nuvole, buone a diventare forme bislacche, come le tavole con le quali gli psicologi ti dicono se vuoi andare per davvero a letto con tua madre, oppure se lo dici solo per ridere in classe, per riempire il tempo.Quel giovedì, mio padre decise di rivelarmi la ragione dei micro-movimenti delle sue labbra. Deve aver pensato che mi mancavano 73 giorni al diciottesimo compleanno ed ero grande abbastanza per capire. Rincasò dal…
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Camille
Luce. Ombra. Luce. Ombra. I globi sul soffitto si alternano ritmici, come i tasti avorio ed ebano che si avvicendavano sul pianoforte di Claude Debussy. Se i miei polmoni non sibilassero a ogni respiro e l’eco dei lamenti convulsi smettesse per un attimo di propagarsi nell’aria stantia del manicomio, potrei ancora sentire le prime note di quel brano dall’andamento trasognato. Inumidisco le labbra e provo a intonarlo, ma dalla bocca non fuoriesce che un rantolo. Ansimo per lo sforzo, e il lezzo di ammoniaca mi raggiunge prima che la pelle si inzuppi di urine e le piaghe tornino a mordermi la carne. Luce. Strizzo le palpebre sottili e vedo me…
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Tanga, diamanti, Andromeda
“Caught in your eyes, stacks of lights Come streaming back, make it for the best times Growing pains, good times”. “Andromeda”, Gorillaz. Dicono che Andromeda sia una costellazione a forma di “A”, allungata, debole, deforme. Una lettera che racchiude miliardi di stelle esauste, un monogramma luccicante, i loro gemiti a bocca dischiusa quando esalano – An-dro-me-da! –, prolungando pateticamente l’ultima sillaba. Anche i loro orgasmi sono allungati, deboli, deformi. Io nemmeno mi chiamo Andromeda. Non gli dirò il mio vero nome, che si fottano. Qualcuno è tanto stupido da crederci, altri ci provano, – dai bella, come ti chiami davvero? – , e io rispondo sempre – guarda in cielo,…
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Cloe
Corro a ripararmi sotto al portone di un palazzo. Mentre qualche passante viene a farmi compagnia, tiro fuori le sigarette dalla tasca dell’impermeabile e ne porto una alle labbra. La accendo, soffio, ripongo l’accendino in tasca: tutti i piccoli atti del mio suicidio petroniano si compiono alla maniera di sempre. Guardo la scaglia lavica che brilla in fondo alla sigaretta. Amo le combustioni; potrei contemplare per ore un pezzo di legno che si consuma in un camino. Invece detesto poche cose quanto la sensazione di bagnato. Non sopporto il fatto che la gente si ostini ad associarlo al pulito. Soltanto quando ci si libera di tutte le gocce e l’umidità,…
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Tranne un piccolo particolare
Non ho tempo da perdere, le cose cambiano alla velocità della luce e devo stare sempre sul pezzo. Sono talmente occupata a generare idee che quando mi imbatto in discussioni scomode e noiose taglio corto inventando balle gigantesche. La fortuna ha il suo peso: nascere in Africa, in Asia o in Sud America avrebbe pregiudicato ogni velleità, a meno di non chiamarsi Luna come mia sorella. Pure con altri genitori poteva finire in modo diverso. Alfredo e Silvia sono due persone senza grilli per la testa. Quando sono nata, mio padre aveva quarantatré anni; il lavoro di impiegato alla municipalizzata lo impegnava sei ore e mezzo dal lunedì al sabato,…
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Azù
Se qualcuno potesse domandarmi da quanti anni esisto, non saprei cosa rispondere. Probabilmente da sempre o, meglio, da quando tutto intorno a me vive. La casa dove ho abitato era spaziosa: un salone, una camera da letto luminosa con l’affaccio sul cortile, la cucina con il tavolo di marmo, il lavabo e la finestrella sopra i fornelli. Un lungo corridoio con le mattonelle di graniglia; in fondo lo studio e la grande libreria con lo scrittoio, il leggio e, sopra al soffitto, la botola per salire nel lucernaio a guardare i tetti delle case. Lassù in silenzio ho osservato le forme della luce. Non conoscevo ancora il tempo degli umani…
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Assunta e Zeffira
Come molti bambini italiani ho avuto due nonne di cui, per fortuna, non porto i nomi: Zeffira e Assunta. Per quanto provi a ricordare, mi tornano alla mente solo le differenze fra di loro. Le stesse che, ai miei occhi di bambina, le caratterizzavano come dee mitologiche oppure inarrivabili esseri ibridi. Zeffira era sempre la più elegante quando mi aspettava all’uscita di scuola. Piccola e magra, profumava come una signora. Non mi sorrideva mai davanti a tutti e non mi dava baci, in compenso mi sistemava i capelli e i vestiti. A denti stretti, mi diceva – Dritta con la schiena! Quando camminavamo in paese, salutava pure le signore che…