
Argilla
Ai bambini che raggiungono il sesto mese di vita si ha l’abitudine, fra la mia gente, di tagliare le gambe, all’incirca a metà coscia. È il capo delle guardie che si occupa di amputarci. Non è un grande dramma, siamo tutti senza gambe e nessuno qui – giovani, donne, vecchi – percepisce questa tradizione come una cruenta mutilazione.
Solo le guardie hanno gli arti integri. Non sono come noi: altra specie, altri attributi, altro ruolo. Loro camminano, noi ci trasciniamo. Loro possono vedere oltre il muro, eppure non ne sembrano affatto felici. Scorrazzano nel villaggio, sui torrioni, fra le passatoie della muraglia. Sono taciturni.
La nostra unica occupazione da mattino a sera è costruire il muro, rinforzarlo e ristrutturarlo quando dà segni di cedimento e di usura. Il muro è abbastanza alto, ma soprattutto è lungo: a est si intrufola in una stretta valle, a ovest si dispiega verso una pianura nera, dove la terra è grassa e piena di carbone. Se potessi osservarlo da lontano, immagino assomiglierebbe a una linea retta, ma da vicino il muro traccia ricami regolari che ricordano meandri o fregi o kilim o svastiche inverse, o niente di tutto ciò. Alcuni vi leggono i quattro segni delle carte da gioco, altri un alfabeto sconosciuto; gli uomini saggi, i profili dei nove archetipi. Nella parte centrale i mattoni hanno assunto una colorazione bianca, quasi lattiginosa, che sfuma in alto, nell’argilla fresca. Ho imparato col tempo a fare una stima, dalle differenti gradazioni di colore, dell’età del muro. Ognuno di noi si vanta di antenati che lavorarono ai primi strati, ma sono in pochi a conoscere qualcosa che valga la pena di raccontare. Tancredi è uno di questi. Porta sempre gli occhiali da sole e sostiene di sapere cosa ci sia oltre il muro.
Ci sono mari luminosi, dice, in cui puoi fare il bagno e asciugarti velocemente una volta uscito e questo perché ci sono ben due soli, dalla forma ovoidale.
– Ma se ci fossero due soli li vedremmo anche da questa parte –, osserva un ragazzo nuovo che si occupa di confezionare i mattoni al forno e di consegnarli a noi che lavoriamo sull’impalcatura. Mi sembra un’obiezione sensata. Tancredi risponde che il territorio al di là è sotto l’influsso di altri sistemi solari. – Ne va delle leggi astronomiche e meteorologiche –, precisa. Forse si riferisce alla nebbia leggera che proviene, al tramonto, dall’altra parte del muro. È impalpabile e per nulla rassicurante, e mentre di giorno adombra il cielo sopra il territorio negato, di notte ci raggiunge precipitandoci in un’oscurità fuligginosa. Quando riceve obiezioni, Tancredi cerca di ingolosirci assicurandoci la presenza, lì, di birra, rhum e cibo di ogni tipo. E poi di ragazze mutilate come noi che aspettano solo di divertirsi. Si balla poco però, perché guardare gli storpi ballare è ridicolo come vedere un gruppo di talpe prendere il volo. Insomma, c’è un po’ di libertà, che poi è il sapersi godere tutto questo, dice, ma anche accettare il fatto che prima o poi debba finire.
La cosa più straordinaria è l’assenza di pietra. Alberi, prati, sabbia, acqua – nessuna argilla né fango. Il fondo marino è un terriccio ricco di alghe e piante. – La pietra esiste solo di qua –, afferma, – qua è tutto granitico, di là più fluido –. Il ragazzo nuovo chiede se esistono animali oltre il muro. Tancredi rimane in silenzio. Non capisco se stia rovistando fra le sue memorie o fra le sue fantasie. – Forse di notte –, dice, e devono essere enormi, magari dinosauri ubriachi, altrimenti non si spiegano gli squarci e i cedimenti, come lasciati da una frusta o da una coda smisurata. Infatti di notte il muro crolla, è sempre stato così, come il tramontare dei soli e lo scendere della pioggia. – Magari lo bombardano –, dice il ragazzo. Tancredi lo ignora.
Se lavoriamo sodo, in una settimana riusciamo a guadagnare un vantaggio di una, massimo tre linee di mattoni, ma in generale l’altezza media è la stessa da decenni. Nelle notti invernali il muro è così basso che qualcuno s’illude di poter vedere oltre. È in questo periodo che si eseguono più condanne a morte: fra la mia gente vige infatti la legge marziale.
Tre sono i crimini per cui è prevista l’impiccagione: arrampicarsi sul muro fuori dal lavoro, possedere una corda e l’insonnia. Non dormire è un delitto, anche se di fatto nessuno può essere accusato, perché i guardiani di notte dormono.
Fino a stamattina ho creduto che il reato d’insonnia fosse solo il rimasuglio di una vecchia legge. Poi ho visto il ragazzo nuovo appeso per il collo alla torretta nord. Con lo sguardo ho cercato immediatamente Tancredi, ma lui mi ha evitato e ha preso a picconare come non l’avevo mai visto fare. Il ragazzo soffriva di sonnambulismo ma non lo aveva detto a nessuno. All’alba è stato trovato vicino al muro a vagare semicosciente sui monconi e le guardie hanno concluso che non aveva dormito.
Erano mesi che non s’impiccava qualcuno. L’ultima volta si è trattato di una donna trovata con in tasca un ciondolo legato a uno spago. Per le guardie era una corda. Le guardie sono cavillose.
Il cappio del ragazzo è tenuto lungo, a monito per tutti.
Se solo riuscissi a restare sveglio… Questo pensiero mi accompagna da giorni senza lasciarmi, anche perché il corpo è ancora lì appeso e sono certo che se alzassi le mani riuscirei a sfiorare i suoi monconi. Le guardie non se ne occupano, un po’ per pigrizia e un po’, credo, per tenere vivi in noi il terrore e la tristezza. Lo guardo ogni ora assottigliarsi e diventare duro come una colonna di pietra.
Tancredi non fa che osservarmi con aria inquisitoria. Penso che voglia dirmi qualcosa. Ogni tanto gli passo vicino e lo sfioro per spronarlo a parlare. Funziona: un pomeriggio durante il lavoro mi fa segno di accompagnarlo a bere dell’acqua. Ha l’alito di chi mastica erbe e non ha lo stomaco a posto. Mi confessa che non crede alle storie che racconta, che lo fa solo per passare il tempo e perché gli piace essere al centro dell’attenzione. Non lo biasimo. – Se solo riuscissi a stare sveglio un’ora –, gli dico. – Prova a non respirare –, mi suggerisce. Se non respiro mi sveglio? O muoio? – In ogni caso per me c’è la stessa gente che c’è qua –, dice, – magari più sfrenata e meno nauseata –.
Il giorno dopo mi riempio le tasche di argilla e chiedo a un collega del nastro adesivo. La sera, chiuso nella mia stanza, sciolgo l’argilla in un secchio d’acqua e vi inzuppo tutte le lenzuola che possiedo. Poi le stendo sul tavolo della cucina e mi addormento. Al risveglio la crosta di argilla è pronta: è un sepolcro, mi proteggerà dalla nebbia.
Credo che le guardie abbiano fiutato qualcosa, forse perché non riesco a staccare gli occhi dal cadavere del ragazzo: ormai sembra un lungo pezzo di carne di pollo masticato. Ma le guardie sono titubanti e, quando arriva il tramonto, mi lasciano andare senza dire nulla. Prima di entrare in casa mi volto e le vedo come ogni sera chiudere gli accessi ai torrioni, e sistemare nel magazzino corde, utensili e impalcature.
All’ultimo raggio di luce sulla pianura nera sono nel mio bozzolo sigillato dal nastro, con alcuni stracci bagnati in bocca come filtro. Trascorre quasi un’ora prima che decida di muovermi. Sfondo il mio sepolcro e arranco nella nebbia verso il giovane impiccato. Lo trovo a fatica. Col solo aiuto di pezzo di legno su cui salgo sono abbastanza in alto da saltare – il salto di un grillo a cui un bambino ha mozzato le gambe – fino ai monconi mummificati del ragazzo. La forza nelle braccia non mi manca. Manca però il respiro perché sto strisciando sul ragazzo, o su quel che ne rimane.
Sono quasi alla torretta quando i muscoli sembrano afflosciarsi. Lo straccio bagnato ha terminato il suo effetto e, nonostante i miei gomiti poggino ormai sull’acciottolato della passatoia, desidero solo chiudere gli occhi e dormire. Riesco a stare dritto per qualche secondo, quindi barcollo e cado sulle pietre, riuscendo comunque a rivolgere lo sguardo oltre. Non ci sono né mare, né birra, né ragazze dissolute. Lo sapevo già.
Un rumore di battaglia o di cantiere arriva di là dal muro. Guardo di sotto: c’è Tancredi, c’è il ragazzo nuovo e ci sono anch’io e tutta la mia gente, intenti a distruggere il muro, con mazze, picconi e martelli. Il quadro è disordinato, instabile, pronto a sciogliersi come cera da un momento all’altro. Siamo identici a noi stessi tranne che negli occhi, limpidi e di una vitalità assoluta che assicura ogni declinazione, anche quella più criminosa. Ne ho immediatamente la prova: il ragazzo che da noi pende dal cappio ormai da giorni urta per sbaglio col piccone il fianco di una donna, che si volta e lo ingiuria. Lui le fracassa la testa senza esitazione. Tra le risate generali Tancredi si avvicina cantando con aria lasciva al cadavere della donna.
Il mio sosia ride eccitato e fa roteare una mazza di ferro sfiorando le facce rugose di due vecchie. Più è imprudente, più lo guardano con tenerezza. Fisso il suo (mio) sorriso innocente, poi noto l’orizzonte: ci sono due lune che fanno il paio con i soli descritti da Tancredi, leggermente schiacciate, ellittiche e del colore dell’argilla. Distrutto dalla fatica e da quel che ho visto, mi addormento.
Ora che è mattina – e le guardie mi hanno scoperto sulle mura – ho il cappio al collo. Vedo la nebbia spostarsi dall’altra parte del muro e calare sui nostri sosia come un gas soporifero. Scorgo in cielo due soli, e penso che Tancredi non sia del tutto un cialtrone. Poiché sto per essere impiccato, poco m’importa della salute dei miei occhi: fisso come un santo la luce accecante, e nella profondità di quella luce vedo ancora il colore dell’argilla.
Marco Canneva
Editing di Piergiorgio Andreani e Francesca Gentile
