
Carta e forbice
Ciò che amo, delle illustrazioni, è l’immediatezza. Saper dire senza dire, narrare con un solo gesto a matita, una macchia di colore o un insolito incastro di frizzanti ritagli.
Penso a questo mentre scendo le scale e attraverso gli spazi bianchi della nostra redazione. Lo studio grafico è al piano di sotto, ormai manca poco.
E manca poco anche al nostro secondo numero.
È già passato quasi un anno.
Questa è una mattinata di pensieri ad alta voce e, inevitabilmente, di ricordi.
Con la memoria torno a settembre, a quella mattina troppo calda per essere autunnale, piena di sorprese e piccole meraviglie. Arrivata al piano terra mi fermo, provando a sentire di nuovo la stessa adrenalina e la vivace curiosità che mi avevano pervaso quel giorno.
Lo rivivo come se fosse oggi. Come se non fossimo già in primavera, con il prossimo A4 in cantiere, immergendomi nel ricordo di quello che è stato. Immagino che sia ancora quel giorno decisivo di settembre: il momento della consegna e degli ultimi saluti.
Eccomi: in quella che è come una visione, mi sento respirare con un po’ di fiatone, dopo queste stesse scale. Aspetto che passi, rallentando il passo, mentre sento salire dentro di me un’ansietta buona. Quella dei progetti e dei balzi conclusivi.
Mi vedo passare davanti a tutte le porte chiuse. Sento uscire, da quelle ante, i soffi aromatici del caffè dei miei colleghi. Ricordo che la mia carica della giornata, invece, proviene da chi sto andando a incontrare: i tre illustratori scelti per il nostro A4.
Guardo le pareti vuote del nostro corridoio e mi trovo a pensare che dovremmo proprio farcele sporcare da loro. L’ho pensato anche quella volta. Ma mi dico che devo smettere di tornare al presente e abbandonarmi alle sensazioni di quel recente passato. Chiudo gli occhi, per non farmi distrarre di nuovo da ciò che di vero c’è intorno a me.
Mi rivedo davanti a questa stessa porta. Ora, oltre l’anta, non c’è che silenzio. Ma basta che mi concentri un istante per sentire il brusio appassionato di qualcuno che è già dentro. A quanto pare sono stata l’ultima ad arrivare.
La maledizione degli anni più recenti: arrivo sempre tardi, sempre oltre il limite.
Premo la maniglia senza spingere troppo, per evitare di fare il minimo rumore.
Mi accolgono tre figure di spalle in fondo allo studio. Il loro vociare è eccitato e si interrompe soltanto al suono sussurrato di fogli e ritagli che passano di mano in mano. Non mi hanno sentita e, a dire il vero, non intendo ancora farmi sentire. La curiosità è troppa.
Non è la prima volta che ci incrociamo: diverse sessioni di lavoro nello studio ci hanno visti ammattirci per le prove di colore e di impaginazione. Ma questa è la fase conclusiva del nostro splendido percorso.
Dopo di noi c’è soltanto la stampa.
Sono tutti e tre curvi sul grande tavolo in fondo, ancora in piedi. A qualcuno traballa un po’ la gamba dalla tensione. Lo capisco, anche io non riesco a pensare ad altro che alla stampa e, anche adesso, sento formicolare la nuca.
Si stanno mostrando i disegni a vicenda, mi dico.
Avvicinandomi, sento una voce femminile fare una domanda.
– Quand’è che hai iniziato?
Non so chi ha parlato, non vedo i loro volti: sono in controluce, davanti alla finestra aperta. Forse c’era odore di chiuso, o forse volevano regalarsi tutta la luce possibile per l’ultima giornata di lavoro. Sento una risposta maschile, il cui tono, senza dubbio, mi annuncia Bepy Daniele.
– Da piccolino, quando nella mia vecchia casa, armato del rossetto di mamma, ho iniziato a disegnare cavalli a otto zampe lungo tutte le pareti.
Immaginare la scena mi strappa un sorriso, mentre continuo a mantenere il silenzio. Ora riconosco i loro volti, di sbieco. Vedo il profilo di Alessia Iuliano che, trascinata dall’entusiasmo, esclama:
– Anche io ho iniziato intorno ai diciotto mesi. Erano sì scarabocchi, ma sono stata sempre molto orgogliosa dei miei lavori!
C’è uno sguardo d’intesa tra i due, prima che Bepy riprenda a spiegarsi, guardando stavolta la terza persona. Si tratta di Ottavia Marchiori, che ascolta con la schiena ben dritta e percorre la stanza con sguardo attento. Vedo che durante la mia attesa il tavolo è stato riempito di rotoli da disegno, portatili ancora spenti e prove di plotter.
– Ecco, da lì è stato un susseguirsi di quaderni di scuola costellati da riproduzioni di Topolino, Paperino e supereroi. Mi faceva stare bene e, mentre iniziavo a sognare di fare il fumettista, mi sono avvicinato senza nemmeno accorgermene a tanti altri mondi affini, come la grafica pubblicitaria, l’architettura e l’illustrazione editoriale.
Pronunciando queste parole, Bepy muove un passo indietro e rischia di venirmi addosso.
Poi lo sento aggiungere, quasi sottovoce – il più folgorante di tutti.
A quel punto si volta, mi vede, ci salutiamo e do loro la grande notizia: siamo a un passo dalla stampa. Non ci manca che dare un’occhiata ai disegni definitivi e portarli di sopra, where the magic happens. Mi accorgo di essermi appoggiata al ripiano bianco spostandoci sopra tutto il peso e, così facendo, noto quello che stavano sfogliando prima che io entrassi: i bozzetti iniziali, i primissimi, quelli che non ho mai visto.
La curiosità mi acceca per un attimo. Sotto i tavoli da lavoro ci sono gli sgabelli e, tastando oltre il bordo, ne tiro fuori uno, attenta a non strisciare, mentre gli artisti parlano tra loro di matite spuntate e temperini scomparsi. Mi metto comoda e li invito a fare lo stesso, attirando la loro attenzione con un lento gesto della destra.
Adesso anche loro si siedono su sgabelli identici al mio. Sorrido. Erano così assorti, immersi nella contemplazione, da non accorgersi del tempo passato in piedi.
Mentre iniziano ad accendere i computer, lascio lo sguardo vagare in quell’esplosione di colore che è sparsa sul tavolo.

– Posso? – chiedo.
Si passano l’un l’altro, fino a farla arrivare davanti a me, la figura di un uomo tratteggiata con segni a matita. Non grigi, ma rossi, viola e blu. Sul monitor del suo pc, Bepy mi mostra con un lampo di fierezza negli occhi la versione finale di quello stesso soggetto, decisamente più piena e carnosa.
Questa è la nostra copertina, penso con un brivido leggero.
Mi accorgo di quanto il colore l’abbia resa più intensa e accattivante e ho qualcosa da chiedere.
– I tuoi lavori, Bepy, sono davvero carichi di colore. Questo dà loro una vivacità speciale.
– Il colore è stato il mio tallone d’Achille per molto tempo. Quasi “un’entità suprema” che veneravo, ma che non riuscivo a incamerare nei miei disegni – ammette, continuando a sorridere.
– Disegnavo in bianco e nero per paura di generare pasticci irreversibili.
– Come hai fatto a superare questa paura? – chiede Ottavia, alzando gli occhi dal suo schermo.
– Sai, ho iniziato a studiare l’arte classica, le avanguardie del Novecento, le teorie del colore del Bauhaus, poi sono passato agli esperimenti da piccolo chimico dell’illustrazione – ride, – testando tecniche su tecniche, sia tradizionali che digitali. Ho capito così che il colore è tutto: forma, umore, spazio. La scelta delle tonalità ora è per me una sorta di rituale all’interno della cerimonia compositiva dell’illustrazione stessa.
Noto che nel frattempo Alessia sta allungando una mano per avvicinarmi una delle sue bozze. Uso entrambe le mani per prendere e tenere teso quel foglio tanto grande. È di certo l’illustrazione che ha accompagnato il racconto di Silvia Penso, Giovedì ore 16. Passo così dalla visione di un viso d’uomo a quella di un corpo di donna inquadrato da capo a piedi, che si svela ai miei occhi battito dopo battito. Come se camminasse sulla carta, si compone di più schizzi, una sequenza appena tracciata.
Le sue parole, però, sono per Bepy:
– Il mio è molto diverso. Eppure abbiamo, senza volerlo, scelto colori molto simili.
Mi trovo a darle ragione. Grazie a questa loro affinità, la palette del primo numero di Biró si è scelta quasi da sé. È probabile che il tema Ritratto porti a pensare a un volto, due guance, un collo, una fronte, e di riflesso a quei toni di rosa che ce li rendono familiari.
– Tuttavia, tu hai scelto di rappresentare un corpo per intero. In entrambe le tue illustrazioni, ora che ci penso, hai ritratto figure senza veli, integre, nude nella loro intimità e complessità. – mi intrometto.

– Amo disegnare i corpi, i volti, gli snodi delle articolazioni, la flessuosità di certe posture o gli spigoli di altre. Non perché mi sembri in qualche modo un atteggiamento irriverente, – si affretta a dire, – non credo ci sia nulla di scandaloso nella nudità. I miei corpi vestono le sensazioni che nel momento in cui illustro provo, desidero vedere, o che sento di voler mostrare.
Mi piace che abbia detto i miei corpi. Come se possedesse anche quelli che ha creato con le sue matite, come se uno solo non fosse abbastanza. C’è una leggera frescura che viene a darci sollievo, in una tanto calda mattinata. Io, Bepy e Ottavia stiamo ancora guardando Alessia. Nessuno sta badando agli schermi accesi che ora ci illuminano, perché lei sembra rapita da un pensiero che, poco dopo, tira fuori dalle labbra.
– In realtà non sono mai davvero nudi. Questo mi interessa, il mistero. La profondità dell’animo umano. Ma è un’ esigenza che ha toccato tutti, in un modo o nell’altro. Il mio problema non è trovare il coraggio di affrontare un tema simile. Ma trovare uno sguardo inedito per farlo. Il mio. E per questo occorre tempo, ricerca, e un’infinità di tentativi fallimentari.
Una folata di vento più forte scivola dentro, insinuandosi dalla finestra di fondo. Nello scompiglio generale balziamo in piedi, a braccia tese, cercando di fermare tutti i fruscii che ci circondano mentre piccoli ritagli abbandonano il tavolo come croccanti foglie d’autunno. Le prime a volare sono altre facce, in bianco e nero. Fotografie, scatti rubati a riviste e giornali, sicuramente da Ottavia.
Alessia e Bepy sono in ginocchio sotto al tavolo, a racimolare le immagini scappate. Ottavia si è alzata a raccoglierne una manciata e a grandi falcate ha raggiunto la finestra, chiudendola forse con un po’ troppa decisione. Vibra tutto. I rumori della strada, che prima erano un sottofondo leggero di ruote e di cinguettii, scompaiono all’improvviso. Scelgo quel momento di slancio, mostrandole il mio palmo destro pieno di ritagli in toni di grigio, per chiederle una cosa.
– Come mai hai usato proprio il collage?
Lei torna a sedersi senza perdermi d’occhio ma, questa volta, non lo fa sullo sgabello. Prende posto direttamente sul tavolo, sovrappensiero, dato lo sguardo che vaga tutt’attorno.
– Amo la natura fisica del collage: si tocca la carta, se ne assapora il profumo, il rumore che produce sotto le lame delle forbici. Si usa il tatto, la vista: è un’esperienza sensoriale. In un mondo che volge sempre più al digitale, – e scocca un’occhiata severa al suo stesso computer – il fare con le mani è qualcosa che ci restituisce nell’immediato una dimensione stimolante, soddisfacente nello stesso momento in cui compiamo un’azione sul materiale.

Seguo i suoi occhi lungo le pareti, cercando di figurarmi l’aspetto che avrà il nostro primo numero. Come sarà al tatto. Il nostro A4.
Intorno a noi sono appesi scaffali e poster, e dalla superficie di vari ripiani ci osservano piccoli monticelli di colori e stralci di giornale. Devono essere proprio i residui sopravvissuti alle forbici di Ottavia: stropicciati, bucati, in parte scarabocchiati.
Nel frattempo, Bepy ha finito di raccogliere pezzi di carta e ha ritrovato il suo posto sullo sgabello, che ha rumorosamente avvicinato a noi due, perché ha una domanda per lei.
– Da quanto tempo te ne occupi, Ottavia?
– Mi occupo di collage a tecnica analogica da un paio di anni. L’ho scoperta, come molti, durante l’infanzia e all’epoca ne feci un’esperienza estremamente positiva, tanto che mi è rimasta impressa ancora dopo decenni. Quindi c’è una componente nostalgica, la volontà di ricercare qualcosa di bello e di genuino, legato alle esperienze fatte nell’età della formazione, durante la quale ci si pone in maniera curiosa e fiduciosa al mondo.
– I tuoi lavori sono molto diversi dagli altri, e proprio per questo ci si abbinano alla perfezione. A fare da contrappunto al colore, abbiamo i tuoi bianco-nero e il tuo fascino retrò – . Dico io.
Raduno tra le mani tutti i frammenti raccolti da lui e da Alessia, sistemando accanto al computer di Ottavia le foto originali che ha scelto di studiare, tagliare, comporre e risignificare.
Questa volta è proprio lei a voler chiedere qualcosa ad Alessia.
– Anche tu dicevi di aver iniziato da molto piccola, non è vero?
Alessia, per contro, risponde con quel suo tipico guizzo allegro che sto imparando a conoscere.
– Era la mia maniera di conquistare il mondo.
Ridono, ridiamo tutti, per la voce grossa e al tempo stesso infantile che ha cercato d’imitare.
– Intorno ai 5 anni, come la maggior parte dei bambini – sospira Alessia – guardavo per tantissimo tempo i cartoni animati in tv, e se non c’erano in tv accendevo il videoregistratore e mettevo play su una qualche videocassetta. Un giorno mia madre ha preso in mano la situazione e, per educarmi ad un uso del tempo un po’ più sano, ha deciso che basta cartoni animati: ero in punizione. Io, che non avrei mai e poi mai dimostrato segni di obbedienza, ho pensato, e me lo ricordo come fosse adesso: ah, la mettiamo così? Niente cartoni? E allora se non posso guardarli in tv li disegnerò io! Sono passata dai tentativi più realistici, come ritratti di persone, animali, casette, paesaggi, alla finzione del mondo della fantasia. Da quel momento non ho quasi più ritratto ciò che mi passava davanti agli occhi, ma sempre più spesso quello che ancora non c’era stato. E questa cosa mi piace.
– Ci credo! – sfugge a Bepy.
– E a chi non piacerebbe? – domando io.
Lo sguardo di Alessia è rapito di nuovo dai suoi disegni, come se stesse andando indietro usando, come macchina del tempo, quella carta che accarezza con le dita della mano sinistra.
– Ci sono stati anni, però, nei quali ho dovuto ridurre il tempo da dedicare al disegno. Mentre studiavo all’università, per esempio. Dopo la laurea, però, ho sentito necessario riprendere l’illustrazione e farlo bene. Ho frequentato anche la Scuola Internazionale di Comics a Torino. Mi ha dato molto, durante il triennio ho perso tutto il superfluo e sono tornata a cercare visioni, come quando avevo 5 anni.
– Se posso dire la mia, ora lo stai facendo bene. Hai preso una via spigolosa, ma dobbiamo tutti scegliere quella che più ci rende felici. Ciò che ci regala visioni. – Dico, più a me stessa che a lei.
– Devo dire che infatti, quando l’illustrazione nasce per accompagnare un testo, generalmente parto proprio dalle parole che mi hanno suscitato delle visioni. Anche quando l’illustrazione è mia, quando ho solo delle suggestioni, mi concentro su quelle. È probabile che i primi segni consistano nella diretta rappresentazione di quelle parole lì. – A quel punto Alessia decora l’aria con alcuni gesti della mano.
– Poi divago, immagino la composizione, i soggetti. Nel momento in cui decido che è tempo di fare la bozza, se c’è una figura umana parto da quella, dai gesti che farà, da quello che dovranno significare… E tu, Ottavia? Da cosa parti?
Ottavia, sentendosi chiamare, gira il suo computer per mostrarci a schermo la versione digitalizzata dei suoi collage.
Ammiro il modo in cui ha saputo esplorare il tema dell’identità, ponendo un punto di domanda su uno dei volti, usando l’enigmatico mistero di un cruciverba, e scomponendone altri in elementi giocosi e allo stesso tempo inquietanti. Entrambi i suoi ritratti hanno la figura umana coperta, spezzata, interrogativa. Vedere accanto le fotografie originali, con quell’uomo e quelle donne ancora riconoscibili, mi fa girare di scatto gli occhi verso Ottavia, tanto sono affamata di una risposta alla domanda di Alessia.
– La maggior parte delle volte mi è necessaria solo la prima lettura del testo. Anche io presto molta attenzione alle parole in questa fase, individuo le immagini create dall’autore che più mi colpiscono, le raccolgo e lascio che si sedimentino nella mia mente, che creino autonomamente una narrazione visiva.
– A quel punto, come cerchi le immagini da comporre? – Domando.
– Cerco il materiale che meglio si presta a rappresentare questa narrazione, trovo ispirazione dallo stesso, instauro connessioni tra i vari elementi. Il mio obiettivo è quello di creare una cassa di risonanza per il testo, contribuendo a massimizzarne la potenzialità.
Le dico che tutto il suo impegno si vede da questi splendidi risultati che ci ha regalato.
Ha uno sguardo serio, ma affascinato.
– Trovo prezioso il momento in cui gli autori dei racconti di cui ho curato l’illustrazione vogliono condividere con me la loro opinione sul mio lavoro: è un’occasione di dialogo importante.
Bepy, seduto qui accanto, ora tende il collo per vedere meglio i collages che ci scorrono davanti uno dopo l’altro. Sento che sottovoce legge, quasi sovrappensiero, i titoli che Ottavia gli ha attribuito: I have no clue, Perché sei tu. Quest’ultimo riprende il racconto di Piergiorgio, al quale andrà abbinata l’immagine. Del primo mi rendo conto invece di non sapere nulla.
– Qual è la storia dietro questo ritratto? Com’è nata l’idea? – Chiedo.
– Lavoro spesso sulle cosiddette photo trouvées, le foto d’epoca. Lo scatto che ho utilizzato come base ritrae una giovane donna di un’eleganza composta, serena e luminosa. Annullandone il volto a favore di uno schema di cruciverba, si viene a determinare una rottura nell’atmosfera di compostezza e pacatezza del ritratto vintage. L’approccio surrealista scombina le carte in tavola e crea volutamente un’incrinatura, una dissonanza rispetto alla narrazione visiva di partenza. La nuova persona che nasce da questa frattura non ha più un volto umano.
– Per questo si chiama I have no clue… – Considera Bepy, a bassa voce.
– Sì. Si sta chiedendo chi sia, si fa domande sulla propria identità. Se lo chiede anche chi la osserva. Il cruciverba è vuoto. Non ci sono indizi, non ci sono parole che possano aiutarla a svelare il mistero sul proprio essere. I have no clue è la risposta laconica che riesce a trovare: “non ho idea di chi io sia”. Ma il termine clue è anche traducibile con “definizione”.
– Quindi il titolo ha un’ulteriore interpretazione. – Deduce Alessia.
– Esatto. Non più legata alla condizione di smarrimento, di qualcosa che manca all’appello. Non ci sono definizioni, ovvero l’identità della persona non è definita in alcun modo: esiste in virtù del suo diritto ad esistere. Esiste al di là di ogni definizione, di ogni schema, delle parole aggiunte dalla mano di qualcun’altro. Ecco allora che tutti i suoi dubbi sono infine dissipati: lei non ha definizioni e non ne ha bisogno.
– Del resto non è questo il narrare per immagini? Non limitarsi a dare definizioni, ma trovare interpretazioni? – Mi viene da dire.
– Io penso che l’illustrazione sia come una matita perfetta: un peso giusto, una grana morbida, ma non troppo, e una punta sempre ben appuntita con cui semplificare il mondo. Narrare per immagini per me… oh, scusate, ho parlato troppo.
– Ma no, Bepy, continua pure. Siamo qui per ascoltarci a vicenda.
– Ecco, per me significa condurre il lettore dal mondo delle parole a quello illustrato e, parallelamente, utilizzare le stesse illustrazioni per convogliare più persone possibili verso le parole, la lettura e l’apprendimento. L’illustrazione diventa così un succo concentrato che gratta la superficie di tematiche e concetti con il compito di sensibilizzare e consentire un più ampio accesso ai contenuti.
Vuole darci subito una dimostrazione, e passiamo al suo portatile per analizzare i suoi definitivi. Anche il suo lavoro è stato eccellente, sin dal primo incontro. Non poteva che migliorare.
Per primo osserviamo un uomo con la testa a cubo: un gioco di tessere che introdurrà la poesia di Elena Chiattelli, Cinque identikit di (una) donna. Alessia mi dice, a mezza voce:
– Dovresti vedere come era il primo bozzetto di quello. Ce lo ha mostrato prima. È molto cambiato!
E ride piano, mentre curiosa mi sporgo per recuperare dal mucchietto di schizzi smossi dal vento il disegno preparatorio in questione. Lo guardo e non ci trovo un volto, né un cubo, ma tante parti di entrambi. Uno scomposto gioco di nasi, di bocche e di occhi mi fissa ironico e anche un po’ inquietante. Anche Ottavia sta guardando, qui accanto a me, scendendo dal tavolo per tornare sullo sgabello e farsi più vicina, per quanto, devo ammetterlo, non sia comodissimo.
Sono curiosa di saperne di più, ma Bepy precede le domande di entrambe.

– In questo Rompicapo, – esordisce, raddrizzando la schiena — il cubo di Rubik, con la moltitudine di colori e combinazioni che lo contraddistingue, disegna un riconoscibile punto di contatto con la realtà, palesando il messaggio in maniera inequivocabile. Altre volte invece, il più delle volte, – specifica, quasi sottovoce – mi piace impregnare di sensibile soggettività il rituale del colore. Come nel caso di RitrAct, il disegno che vi mostravo prima. Ecco la versione finale.
Ci accalchiamo, letteralmente, per guardare il suo schermo e lasciarci incantare dal suo trionfo di colore.
– Visto? Con quel volto statuario di scuola plastica ellenistica mi ha ispirato nel riproporre in chiave più astratta alcune delle cromie intense, per lo più andate perse, che hanno contraddistinto la scultura e l’architettura Greca antica.
Sentiamo un certo tramestio fuori dalla porta e ci ritroviamo tutti a fissarla, interrompendoci. Chissà cosa è accaduto. Forse qualcuno corre a correggere i refusi dell’ultimo momento. Segue un forte odore di caffè, con quel suo sentore di mattina, arriva fino a noi: qualcuno può aver finalmente concluso il suo lavoro e premiarsi, oppure cercare la spinta giusta per terminarlo in tempo. Estasiati e un po’ svegliati da quell’aroma pungente ci rimettiamo in piedi per sgranchirci.
Sappiamo di essere giunti alla fine e che questa è l’ultima giornata che passiamo insieme. Si alzano molti sospiri quando Alessia, Bepy e Ottavia iniziano a salvare i file di stampa nelle loro pennette USB, pronti a spegnere il computer di lì a pochi istanti.
Dato che non esiste nulla di più stimolante di una tavolata creativa, mi viene in mente un piccolo gioco.
– Ho una domanda sfiziosa da farvi, per salutarci. Se doveste essere chiamati a fare un ritratto a un personaggio letterario, chi scegliereste?
– Decisamente Italo Calvino! – Esclama Bepy Daniele, per primo.
– Il mio autore di riferimento, nonché quello più presente nella mia libreria. È iniziato tutto con Le città invisibili, all’università. La sua arte letteraria è stata ed è tuttora fondamentale per il mio modo di “interpretare” usando immagini e metafore visive. Visualizzo già la mia interpretazione del suo ritratto come un accurato collage: i personaggi delle sue opere, minuscoli e grandi pezzetti della sua anima letteraria, incastonati con precisione ebanista all’interno dei suoi tratti fisionomici.
– Mi fai venire in mente i ritratti di Arcimboldo. – Mi sfugge. Lui ride.
Ottavia, invece, da quando ha sentito la parola collage si agita un poco sul posto, spostando il peso da una gamba all’altra. Deduco che le sia venuta una qualche idea che non ci dice, perché dopo qualche istante corre ad appuntarsi qualche cosa sul retro di uno dei ritagli, agguantando il primo pennarello che trova. Bepy sta ancora commentando, tra sé quasi quasi lo disegno, quando Alessia, che è rimasta più a lungo a riflettere con l’aria assorta di chi sta ripercorrendo un sogno, sospira qualcosa.
– Un personaggio letterario che magari avrà avuto già tanti volti, illustrati, dipinti o interpretati sul grande schermo.
Si accorge di avere parlato ad alta voce, perché tutti la stiamo guardando.
Ci sorride, con gentilezza, mettendoci rendendoci partecipi dei suoi pensieri.
– Se dovessi scegliere oggi, asseconderei la mia attuale attrazione per l’irragionevolezza, probabilmente per quella miccia che si fa follia e pure furia. Sarebbe quindi sicuramente eccitante, per me, dare un volto e un corpo nuovo alla Regina di Cuori di Lewis Carrol.

– Chissà quale corpo le disegneresti, Alessia. Sarei davvero curiosa di vederti all’opera su di lei.
Questo lo dico io, e ci spero davvero. Un appunto dovrei prendermelo anche io: tornata a casa, dovrò trovare il tempo di leggere, è il momento, Alice nel paese delle meraviglie. Soppeso la mia lacuna gravissima senza aggiungere altro e lancio un’occhiata all’orologio grande, appeso sopra la porta. Vorrei chiedere loro molto di più, ma il tempo scorre veloce.
Un toc toc alla porta ci avvisa che ci stiamo dilungando troppo. È ora di correre al piano di sopra dal resto della redazione, che si sarà riunita da qualche parte per la nostra ultima riunione.
Mostrerò loro meraviglie, penso, mentre mi stendo sul tavolo per arrivare alle chiavette USB dentro alle quali Alessia Iuliano, Bepy Daniele e Ottavia Marchiori hanno lasciato le loro piccole grandi opere.
Il mio momento sospeso in un tempo che è parso infinito, ma anche brevissimo, deve chiudersi qui. Prima di salutarli, mi cade l’occhio sui lavori che ci siamo passati per tutta la mattina, fantasticando sul narrare e sull’illustrare.
Chiedo loro di poter tenere queste bozze. Ne sono nate così tante parole che mi sembra un peccato che i nostri lettori non le abbiano sentite. Vorrei che scoprissero, proprio come l’abbiamo scoperto noi, chi e che cosa si nasconde dietro la superficie di un’immagine perfetta.
Un secondo toc toc mi fa sussultare, e torno al presente. Non è più settembre, non lo è mai stato. Un grigio maggio mi saluta con le sue nuvole scure fuori dalla finestra, in fondo al corridoio. Chissà
per quanto tempo sono rimasta qui, ferma, di fronte alla porta dello studio, senza averla aperta. Immaginando soltanto di farlo, sentendo ogni sospiro e ogni brivido addosso come se stessi vivendo quella conversazione per la prima volta.
Il mio momento sospeso in un tempo che è parso infinito, ma anche brevissimo, deve chiudersi ora. La realtà mi richiede vigile, attiva, pronta a partire.
Lascio la presa sulla maniglia, lanciandole un’occhiata che vuol dire una cosa soltanto: torno subito, aspettami. È tempo di lavorare a qualcosa di nuovo.
Sento ancora bussare. A passi veloci mi ritrovo davanti all’ingresso, pronta ad aprire.
– Chi è? – chiedo, forse con voce troppo squillante.
Ma, prima ancora che risponda, mi rendo conto che so già la risposta. È il prossimo numero.
Valentina Gili
Editing di Alessandra Sola

