racconti

Come una pecora

Il tessuto si appiccica alla pelle, insisto, sale ma di poco. Inizio a respirare forte, mi sento un ippopotamo in mezzo allo spogliatoio, i vestiti flosci di sconosciute appesi tutt’intorno. Mi fanno venire in mente i conigli che mio zio scuoiava prima di cucinarli. 

Io in una piscina non ci sono mai entrata, e sì che spesso toccava a me sorvegliare gli alunni nell’ora di nuoto. Li portavamo alla piscina comunale con il pulmino della scuola, una scatola di latta che si gonfiava di urla. C’era sempre qualcuno che piangeva. Sono quasi tutti secchi i ragazzini a quell’età, dei mucchietti di ossa tenuti insieme male. Li guardavo che si tuffavano, seduta sulle gradinate. L’odore di cloro mi rimaneva nel naso per giorni. A mio padre, quando ero piccola io, non sarebbe mai venuto in mente di spendere soldi per farmi imparare a nuotare: i piedi per lui si dovevano tenere per terra, sempre, sennò si finiva male. 

I miei piedi adesso se ne stanno immobili sulla gomma nera del pavimento, gli alluci storti, le unghie che con l’età si sono ingiallite. Tiro e tiro la bretella sinistra, infilo la mano, il braccio, la spalla. Veloce, che sennò perdo la presa. La commessa ha detto che era uno dei costumi più comodi che aveva. Il tessuto affonda nella spalla, mi sega la carne. Alla faccia del comodo. Mi guardo nello specchio, col seno così compresso sembro un pallone pronto a scoppiare. Pesco dalla sacca la cuffia. La plastica mi si attacca alla punta delle dita. 

All’epoca non c’era questa cosa di mettere la cuffia e tenere le ciabatte che sennò ci sono i funghi e compagnia bella. Non c’erano tutte ’ste mamme che corrono appresso ai figli con gli accappatoi pronti, sia mai che prendono freddo. Gli alunni lasciavano gli asciugamani sulla prima fila di panche e lì venivano a prenderseli dopo la lezione. Le loro spalle al freddo si curvavano in avanti, le vertebre come spuntoni sotto la pelle della schiena. C’era una ragazzetta in una delle mie classi che invece era cicciottella, il costume le si tendeva tutto sulla pancia, di seno ancora non ne aveva. Anna si chiamava. Come quella che nella bibbia non poteva avere figli e pregava e pregava e alla fine dio l’ha esaudita. 

Carlo mi diceva di pregare, ma io mi sedevo in chiesa e rimanevo a fissare il crocifisso, la testa vuota, il naso che mi pizzicava per l’incenso.

L’istruttrice mi ha detto di andare alle vasche, peccato che non so dove siano. Mi avventuro oltre il giro di panche che mi circonda, nel corridoio una porta si apre sui bagni e l’altra sul vano doccia. C’è un’umidità densa che inizia a darmi la nausea, mi appiglio al vocio che arriva da qualche parte più in là, c’è anche della musica, una roba che mi fa tump tump tump nelle orecchie. L’accappatoio mi si intreccia in mezzo alle gambe, è di questi tessuti nuovi che assomigliano più alla plastica che altro. Pure questo me l’ha consigliato la commessa, una tipina, una cosina snella e alta in scarpe da ginnastica. L’umidità si allenta e lo spazio si apre in una grande sala, strizzo gli occhi nella luce. Un’intera parete è occupata da una vetrata, non me lo aspettavo. Tento di ripararmi la faccia con la cuffia, floscia così mi fa venire in mente un avanzo di macellaio. Una donna si sbraccia nella mia direzione, da qui non riesco a distinguerla bene ma immagino sia Clara o Chiara o come diamine si chiama l’istruttrice. 

A fare lezione agli alunni era sempre lo stesso istruttore, un uomo moro, giovane, avrà avuto più o meno la mia età. Li chiamava tutti per nome, non se ne scordava uno. Piaceva molto sia ai ragazzi che alle ragazze. Anna si attardava spesso dietro alle altre, l’asciugamano appeso addosso, tutto storto. Le passavo dietro e le tiravo i capelli, forte, una volta sola. Lei mi seguiva veloce, i suoi piedi che schiaffeggiavano il pavimento mi ricordavano il ticchettio delle zampe della cagna che aveva mia nonna, la Cia, una bestia infernale che però l’amava alla follia.

Chiara o Clara mi accompagna in fondo alla sala, oltre la piscina in cui nuota un po’ di tutto, dagli esperti ai vecchi come me che fanno ginnastica in acqua. Tirano su le braccia flaccide, le allargano, scalciano. Io mi stringo nell’accappatoio e proseguo oltre. 

Forse la compagna di Carlo fa questa roba qui, so che sono tutti e due ancora vivi e vegeti, con i loro bei figli. Non si sono sposati, però. Chissà, forse a lui ha fatto paura. Non lo ho mai rivisto dopo, ma riesco a immaginarmi bene come è invecchiato, ce l’aveva già scritto in faccia, sottopelle. Mica come Anna che per me ha sempre avuto addosso la faccia dei quattordici anni, di quel giorno di giugno che passava nel corridoio dietro a sua madre dopo l’esame di terza media.

Più che una piscina è una pozza lunga e stretta, in un angolo, vicino alla scaletta che scende in acqua, c’è una ragazza chiusa in una specie di imbracatura. Guarda il soffitto ed emette dei suoni che assomigliano al belato delle pecore. Indossa un costume rosso a pois bianchi. La madre le tiene la mano, seduta anche lei in acqua, il suo costume è nero, però. Non mi guarda, fissa un punto da qualche parte intorno ai miei piedi, mi viene da accartocciare le dita sulla plastica delle ciabatte. Anche queste le ho comprate apposta, non ho mai posseduto delle infradito. Finalmente Chiara o Clara si ferma. Mi dice di togliermi l’accappatoio e di lasciarlo sulla panca lì accanto. 

Mi guardo intorno. La piscina principale è distante anni luce, qui ci siamo solo io e le due in acqua. Siamo proprio a ridosso della vetrata, da fuori, dei cespugli di non so che pianta ci schermano, si vedono solo le teste delle persone che passano per il vialetto. Sfilo prima un braccio e poi l’altro, l’accappatoio arancione sembra uno sbaglio sul bianco della panchina. Faccio fatica a muovermi inguainata nel costume, ma almeno questa sensazione di gabbia, di armatura, non mi fa sentire troppo esposta. Nessuno mi ha mai visto completamente nuda. Sempre a pezzi. All’inizio mi è stato imposto, immagino perché non mi volesse vedere in faccia, mi teneva girata, la gonna alzata. Poi l’ho scelto io, come se in qualche modo servisse a contenere le cose, a contenere me. Chiudevo la porta della classe a chiave, le persiane accostate. Succedeva e non succedeva. Lei era lì e non era lì. Così era più facile. Lei non la facevo svestire mai. Se la toccavo lo facevo attraverso le calze e le mutandine, i golf sformati in cui la infilava sua madre. 

L’acqua è tiepida, forse perché è bassa o forse la tengono calda visto che dentro ci stanno relitti come la ragazza col costume a pois e come me. L’istruttrice cammina fino al centro della vasca. “Venga pure, si tocca, non deve aver paura”, dice, e la sua voce ha preso l’odore del cloro e questo colore biancastro che avvolge ogni cosa. L’acqua fa resistenza contro le mie gambe, ho la sensazione che i piedi mi scivolino contro il fondo. Mi volto, la ragazza bela, muove piano le mani davanti a sé. Anche Anna a volte allungava le mani a quel modo. Si fidava di me come un cane, come una pecora. 

“Adesso si avvicini, ecco, le tengo io le braccia sotto la schiena, si lasci andare.”

Guardo in faccia Chiara o Clara, ha stampato sulla bocca un sorriso standard, chissà a quanti altri lo ha rivolto prima di me. Ma io non mi ci metto a pancia all’aria come un pesce morto, no signore.

“Mi dia retta, è il modo migliore.”

Alle mie spalle la madre della ragazza si schiarisce la gola. Mi volto, lei guarda fuori dalla vetrata. 

L’acqua mi entra nelle orecchie, trattengo il fiato. La voce dell’istruttrice mi arriva mescolata ai gorgoglìi del mio corpo. Mi dice di allargare le braccia, le allargo. Sento le sue mani al centro della schiena. Sopra di me c’è il tetto della piscina, così in alto che non sembra nemmeno vero. Ogni tanto il suo mento entra nella mia visuale. Sorride ancora, “bene così” dice. Io però non mi sento più i piedi, da qualche parte là in fondo inzuppati in questo brodo carico di disinfettante e forse della pipì della ragazza-pecora. 

Gli opuscoli in sala d’attesa dal medico dicevano che nuotare fa bene anche a noi vecchi, che fa sentire liberi. Ma io tutto mi sento tranne che libera. Il costume mi si è fatto più stretto addosso, schiaccia senza pietà la carne e le ossa. L’acqua mi sta rosicchiando ai margini. 

È così che si è sentita? mi chiedo.  È così che l’ho fatta sentire io? L’aria che mi entra in petto è sottile, troppo. Non sento più quello che Clara o Chiara ha da dire, sopra di me non ci sono più le luci al neon, c’è il foglio sottile attaccato alla bacheca, la colla fresca che si era raggrumata in una bolla in basso a sinistra. Il suo nome in nero e due date e vicino la sua faccia. Non è cambiata da quando me la portavo dietro nelle aule vuote anche se di anni ne sono passati eccome.

La gola mi fa una cosa strana, un annodarsi sempre più stretto. Il mento, gli occhi di Chiara o Clara, ma non capisco, muovo le braccia, le sue mani scompaiono per un attimo. L’acqua tiepida mi entra in bocca, nel naso. Non ricordo più dove sono, penso solo che forse avrei dovuto farmi vedere intera e non a pezzi, almeno da lei, da lei che non pretendeva niente, che mi dava quello che volevo con quelle sue mani piccole. 

L’aria mi fa male giù per la gola. Chiara o Clara scuote la testa. “Ma si tocca, non capisco proprio come abbia fatto”. Non so con chi parli, il bordo della piscina è duro al centro della mia schiena, sposto lo sguardo a sinistra. La ragazza-pecora mi sorride. Una ferita storta sul viso, gli occhi che le si stringono. 

Bela, vorrei chiederle, bela per me. 

E invece me ne resto qui, il cloro che mi ha invaso la bocca e non riesce a bruciare via il ricordo del suo odore, del suo fiato dolciastro. Della sua vita che mi son mangiata. 

Caterina Villa

Editing di Elena Chiattelli