
Suicidio di D.
Nel febbraio scorso, D. rimase chiuso nel suo vecchio appartamento per cinque giorni senza né mobili né gas né corrente, in uno stato d’isolamento totale. Sei mesi dopo, appena compiuti i quarant’anni, si tolse la vita. Non ci fu nessun evento tale da giustificare una simile decisione, anzi: stando al parere della compagna Michela sembrava uno dei periodi “più felici dell’intera relazione”; e difatti fu lei, non capacitandosi del suicidio, a richiedere un’indagine poliziesca, la quale acclarò che “senza ombra di dubbio” (così l’ispettore) D. s’era ammazzato: era stato lui a comprare la corda – lo documentano le telecamere del negozio di bricolage del quale era cliente da anni –, lui a spendere un capitale – la versione per Michelina fu: Volevano abbatterlo: me l’hanno addirittura regalato – per acquistare e far piantare nel giardino della villetta della compagna, dove aveva vissuto gli ultimi anni, l’enorme quercia alla quale si sarebbe impiccato.
Tutt’oggi non riesco a smettere di lambiccarmi sulle possibili cause. Di una sola cosa sono abbastanza convinto: il suo eremitaggio fu in qualche misura determinante.
Per giustificare questa pausa dalla socialità, D. aveva detto alla madre che sarebbe andato a Monaco di Baviera a un convegno di lavoro per la Mercari, la famosa azienda di energie rinnovabili; mentre alla fidanzata Michela – per me da sempre Michelina – aveva raccontato che la villetta dei suoi a Porto Cesareo necessitava di una ristrutturazione, e che si sarebbe occupato lui stesso di verificare che gli operai facessero tutto come concordato. In realtà D. non lavorava più con la Mercari: ma chiaramente sua madre, pretenziosa in società e denigrante nel privato, non lo sapeva e mai avrebbe osato immaginarlo; e lo stesso pretesto della villetta di Porto Cesareo era falso: il padre l’aveva venduta al termine della stagione estiva dell’anno precedente. Perché avesse accampato scuse diverse alla madre e a Michelina non potrei neppure ipotizzarlo; tuttavia era evidente che stava in parte mentendo anche a me, tanta fu la vaghezza delle sue affermazioni: – Starò lì dal 4 al 9 per valutare delle cose sull’appartamento –. In ragione della sua natura ambigua, della sua paranoica diffidenza, ritengo che mi mise al corrente dell’isolamento e delle balle raccontate per un fine preciso: qualora insospettite dalla condotta di D., la madre e la fidanzata avrebbero chiamato me.
Fin quando Michelina non lo trovò appeso, il depositario del segreto fui io, l’unico amico stabilmente in contatto con lui per più di trent’anni – e quindi, deduco, anche l’unico a tollerare le sue menzogne. Se mi si chiedesse il motivo di un legame tanto lungo con una persona così strana e subdola, non saprei rispondere con esattezza: il solo tratto che lo umanizzava e grazie al (o per colpa del) quale fummo affini era la sua profondissima, sotterranea tristezza. Quando eravamo giovani mi deludeva spesso: se per esempio decidevamo di incontrarci l’indomani, a ridosso dell’appuntamento scompariva, smetteva di rispondere a telefonate e messaggi e riappariva il giorno seguente con delle imbarazzanti giustificazioni via SMS, come la tipica – Scusa ma poi ho avuto delle faccende da sbrigare –. Le faccende erano imprevisti frequentissimi e ignoti; inoltre non si capiva perché di queste faccende non potesse far menzione prima di lasciarmi solo e senza modo di impegnare il tempo libero in una differente attività. Di rado venivo a scoprire cos’aveva fatto: magari uscire con un altro amico o con una ragazza. Tra le omissioni più clamorose va citata quella circa la storia con Michelina, mia amica alle superiori, di cui venni a conoscenza dopo ben tre anni dall’inizio della “frequentazione” (definizione di D.). Seppur innamorata, stava pensando di lasciarlo: D. non voleva dormire con lei, non parlava mai di un futuro, non le presentava i genitori o gli amici: insomma non riusciva a entrare in una sincera intimità di coppia. Fui io stesso a persuaderlo a investire di più per mettersi alla prova e verificare l’opportunità di un’evoluzione individuale e relazionale: lui mi dette retta e il rapporto si trasformò in modo apparentemente funzionale. A riprova che non si fosse mai davvero convinto di stare con Michelina – teoria mia, dunque potenzialmente fallibile – fu la sua rinuncia a mettere in affitto, anche dopo anni di convivenza nella villetta di lei, il proprio vecchio appartamento: necessitava di un approdo per un’eventuale rottura qualora non fosse riuscito a sostenere il senso d’oppressione che la vita di coppia – o meglio la sua incapacità affettiva – gli faceva provare.
Confesso di aver dubitato dell’isolamento: ho pensato che la sua potesse essere una sorta di luna di miele clandestina perché, pur non essendo un impavido e attraente seduttore, certamente fu capace di ogni sorta d’infedeltà; ma la mia supposizione è stata smentita dalle forze dell’ordine. La signora dell’appartamento di fianco – la classica megera, per giunta vedova, che passa le giornate a spiare da ogni feritoia delle serrande e a origliare attraverso le pareti la vita altrui: quindi una delle principali fonti di informazioni – ha dichiarato di averlo visto arrivare e andar via da solo, e che nessuno – a parte, una sola volta, un fattorino con tre pizze – gli aveva fatto visita. Tali informazioni sono state confermate dal più distratto, ma sempre presente poiché anziano, insonne e in cattiva salute, inquilino del piano inferiore. Ad avallare la tesi dell’isolamento c’è un altro dato: i vicini hanno testimoniato di non aver udito né voci né suoni che facessero pensare alla presenza di qualche ospite – di questo la vedova, rivelando ingenuamente di vivere con i padiglioni auricolari attaccati alla parete, era “sicurissima”. (L’esasperata curiosità della donna era causata – questa la sua giustificazione alla polizia – dal fatto che D. non aveva messo piede nel condominio per circa tre anni.) A ulteriore supporto ci sono le comunicazioni tramite cellulare: soltanto sua madre, Michelina, la pizzeria Cor’e Napule e io eravamo entrati in contatto con lui in quei giorni; com’è ovvio, nessuno può garantire in maniera indiscutibile l’assenza di visite.
La povera Michelina, già sconvolta dal suicidio, è rimasta quantomeno sbigottita alla scoperta dell’isolamento: – Pensavo di saper tutto di lui –, mi ha riferito scioccamente; poi si è corretta: – Delle cose che faceva, perlomeno –. Alla fine ha taciuto, pietrificata in una smorfia di dolore, e il suo sguardo, fattosi orrendo, non sembrava più comunicare la tristezza disperata della perdita, bensì il terrore dello smarrimento, di un mondo intimo che di colpo era diventato estraneo, di un tradimento assoluto. – A me aveva detto –, ha ripreso evitando di guardarmi, come se si vergognasse, – che aveva affittato l’appartamento a una giovane coppia –.
Ho provato spesso a immaginare come D. avesse trascorso il tempo nella sua vecchia casa. Di sicuro ebbe freddo: non poteva accendere né i termosifoni né una stufa elettrica, e fu un febbraio particolarmente rigido. C’era acqua potabile – gelata – quindi poteva dissetarsi, defecare e, con gran pena, lavarsi. A questo disagio si aggiunga l’angoscia del buio, forse la paura: secondo i vicini aveva lasciato le serrande delle finestre abbassate così com’erano al suo arrivo. Usò lo smartphone solo per l’indispensabile: farsi luce – a meno che non avesse una piccola torcia a pile – e mantenere i contatti con la madre (una volta al dì, ore 8.00) e Michelina (tre volte al dì: 7.55 / 14.30 / 21.00) – credo che disponesse di vari power bank e forse di due-tre cellulari con le batterie cariche nei quali trasferire la SIM. La pattumiera, a eccezione dei tre cartoni della pizza, era vuota: si ipotizza che per cinque giorni non mangiò altro, e che bevve solo acqua del rubinetto – la vedova ha dichiarato che l’unico bagaglio di D., lo stesso all’entrata e all’uscita di casa, era una singola borsetta non più capiente di un astuccio per la scuola.
Cosa avesse pensato in quella topaia abbandonata potrei immaginarlo men che meno: ma sono da escludere pensieri alti o esercizi spirituali: D. non aveva alcuna preparazione umanistica, non era religioso (se non per la frequentazione occasionale della chiesa del suo quartiere d’origine, credo per un retaggio ossessivo della famiglia ultraconservatrice), non aveva alcuna conoscenza del misticismo e di pratiche meditative – forse non avrebbe neanche saputo spiegare il significato di ‘mistico’. Sarebbe troppo avventato supporre che una persona dai contenuti del tutto ordinari, benché particolarissima nel garbuglio delle sue molteplici nevrosi – di cui si percepivano i sintomi: sconforto, sfiducia, ansia sociale, senso di colpa, anaffettività, paranoia –, sarebbe troppo avventato, dicevo, supporre che una simile persona si sia suicidata come estremo atto di consapevolezza, magari maturata proprio tra quelle mura, della sua povertà umana? Probabilmente sì: le sporadiche confessioni sui suoi stati depressivi, avvenute in circostanze pressoché disperate, palesavano una assoluta confusione: era sprovvisto di teorie, ancor prima che di certezze. Le sue capacità di autoanalisi erano nulle: dava la colpa al destino, agli altri; e mai s’era interrogato sullo sfacelo che i genitori potevano aver prodotto sulla sua mente. Tuttavia ritengo che le turbe psicologiche occuparono uno spazio rilevante: la mia convinzione è che, con il fallimento del pensiero razionale, peraltro scarsamente supportato dall’intelligenza emotiva, abbia ceduto a una vertigine ossessiva, a una sorta di delirio. Ciò detto, credo che i problemi d’ordine materiale siano stati gli unici sui quali possa aver seriamente riflettuto. La preoccupazione preminente era forse il lavoro: un paio di mesi prima della volontaria reclusione era stato licenziato – malgrado lui sostenesse di aver rassegnato le dimissioni perché si era “stufato” e aveva “altro per la mente”; ho scoperto per giunta che non era laureato come diceva a tutti, inclusi i suoi datori di lavoro. Non si sa cosa stesse facendo o intendesse fare per mantenersi: a Michelina aveva detto che era diventato un agente di commercio – suppongo per giustificare la sua assenza durante il giorno –; a me parlò di un progetto, senza specificare altro. All’atto pratico, non aveva le risorse economiche per aprire un’attività, come dimostrato da un recente estratto conto della banca rinvenuto da Michelina; e mai le avrebbe ottenute dai genitori, benché benestanti e benché fosse figlio unico. Non era nemmeno in procinto di riscuotere un’eredità, essendo i suoi in perfetta salute a quasi ottant’anni: il padre, che picchiò D. fino alla tarda adolescenza, è ancora capace di correre per un’ora al giorno – lo vedo dalla finestra dello studio che va su e giù per il quartiere –; la madre, affetta da DOC e furiosa moralista, forse non più buona e allegra di Magda Goebbels, è, o almeno era fino a pochi mesi fa, magra e sanissima nonostante l’abuso di sigarette: – le sue analisi del sangue –, parole di D. pochi giorni prima di impiccarsi, – sono perfette. – Nell’ultimo periodo di vita incassò solo il sussidio di disoccupazione: si potrebbe supporre che lavorasse in nero ma, se così fosse, doveva percepire guadagni esigui: il che si intende sia dalle sue finanze stabilmente in calo, sia perché non sono stati trovati contanti.
L’ipotesi di un’attività illecita è stata scartata dall’indagine e non posso che appoggiare questo assunto: non ho mai conosciuto un uomo più codardo di lui: era sempre in grado di nascondere i suoi pensieri, di evitare qualunque contraddittorio – per paura del conflitto? per non apparire sconveniente? –; e se era solito correre il rischio di possibili discussioni – al verificarsi delle quali reagiva con vittimismo, tirando in ballo una generica inadeguatezza – per le panzane che raccontava è perché, a mio avviso, aveva la tracotante e irrazionale sicurezza di non essere scoperto pur avendo fatto esperienza del contrario. Inoltre, quando colto in fallo, dimostrò di soffrire superficialmente per le perdite e di poter sostituire con facilità le donne e gli amici di passaggio.
Il suo insuccesso materiale può essere la causa del suicidio? A giudicare dalla scarsa levatura morale di D. – per quanto fosse convinto dell’opposto, e di portare su di sé il peso di un’inestimabile sensibilità – è molto probabile. Eppure non pronunciò mai una sola parola d’invidia per chi era riuscito a realizzarsi, mai apparve – né a me né a Michelina – palesemente abbattuto o di cattivo umore – per quanto, personalmente, ritrovassi sempre nel suo animo quella indefettibile, sottesa depressione…
La sua ultima stagione rappresenta l’acme di una biografia fumosa, lacunosa. All’alba o poco oltre, mi ha detto Michelina, sbrigava qualche commissione: così definiva, sin dall’infanzia, l’acquisto del pane e del latte per Magda; azione che, pur avendo lasciato da lustri la casa natia, continuava a ripetere ossessivamente – stessa ora, stesso negozio – sia per Magda medesima, sia per sé e Michelina (la quale, a dire il vero, non mangiava quasi mai né latticini né alimenti glutinosi). Il giro in banca (la banca, ricordo io stesso, rientrava nei giri), altra routine del mattino, ma a cadenza bisettimanale, era praticamente sparito dalle sue abitudini: si limitava a prelevare piccole somme dagli sportelli bancomat – forse ciò testimonia la vergogna per il suo declino finanziario. Dopodiché svaniva fino al pomeriggio o alla sera: rincasava tra le 16 e le 20.
C’è un’ulteriore pista sulla quale congetturare: Michelina voleva un figlio da D. e gli aveva chiesto cosa ne pensasse; lui aveva vagamente accondisceso come faceva ogni volta: – Si potrebbe fare –, le aveva detto; ma da allora, visto che lei non voleva usare il preservativo, aveva evitato il sesso tranne quando era quasi certo che non avrebbe portato a una gravidanza – Michelina ritiene che D. consultasse a sua insaputa l’app con il calendario mestruale. Credo che Michelina abbia capito che un soggetto tanto disturbato non avrebbe mai accettato un impegno del genere. Negando a Michelina la gravidanza, alla lunga la relazione sarebbe andata in frantumi; ma escludo che sia stata questa la causa primaria del suicidio: D. non era in grado di amare, o almeno non lo era abbastanza da impiccarsi per ragioni sentimentali. Tuttavia una rottura con Michelina avrebbe rappresentato per lui l’ultimo atto di un fallimento assoluto.
La mattina delle esequie, nel cortile della chiesa preferita da D., eravamo in pochi ad aspettare l’autofunebre: mancava persino Magda – forse per la vergogna o per il timore di una qualche contaminazione. Michelina piangeva sommessamente, ma la tristezza non le sottraeva l’energia per guardare e riguardare, con sospettoso stupore, una nostra coetanea in lacrime che se ne stava in disparte. L’attesa si è prolungata, il capannello ha cominciato a rumoreggiare.
All’arrivo dell’autofunebre, gli uomini dell’impresa sono scesi confabulando fittamente, incalzati dal parroco: – Adesso vi presentate? –
Un omone dai capelli rossi, con una manciata di parole, ha messo a tacere il sacerdote, che ha reagito stringendo in una mano il crocifisso. Quattro giovani delle onoranze funebri hanno estratto il feretro e con un sollevamento agevole, che non tradiva alcuno sforzo, l’hanno caricato in spalla; con la stessa facilità sono giunti sotto l’altare e l’hanno posizionato sui reggibara.
La cerimonia è iniziata secondo la retorica tradizionale, eccezion fatta per la tirata del parroco, che conosceva D. da quando era un bambino, al fine di “smentire categoricamente l’ipotesi del suicidio”. La liturgia piena di menzogne consolatorie, anziché placarmi, ha esacerbato i dubbi: l’assurda convinzione che ci fosse qualcosa di strano nella levità del feretro, nel ritardo delle pompe funebri, faceva montare in me un’angoscia insostenibile: come se stessimo assistendo all’ennesima bugia di D. e le sue esequie non avessero altro scopo che ingannarci.Al momento dell’eucaristia, mi sono accodato ai presunti fedeli per poi uscire dalla fila e, con la massima discrezione, piegandomi in una finta preghiera, mi sono avvicinato al cofano per salutare D. Ricevuta l’ostia sono tornato a sedere sulla panca e, commosso, l’ho sputata in un fazzoletto.
Paolo Ceccarini
Editing di Antonio Russo De Vivo

