
di guerra, carne e amore
“E così lasciava delle tracce verbali che indicavano […] la strada”
Europeana, Patrik Ourednik
Era dove il cielo scendeva. Un punto prima, una linea mossa poi. Hanno questa abitudine di confondersi i punti e le linee. Per non parlare delle nuvole, buone a diventare forme bislacche, come le tavole con le quali gli psicologi ti dicono se vuoi andare per davvero a letto con tua madre, oppure se lo dici solo per ridere in classe, per riempire il tempo.
Quel giovedì, mio padre decise di rivelarmi la ragione dei micro-movimenti delle sue labbra. Deve aver pensato che mi mancavano 73 giorni al diciottesimo compleanno ed ero grande abbastanza per capire.
Rincasò dal lavoro e non entrò per fare pipì né per riposarsi sul divano, mi disse di sbrigarmi: lui era pronto e aveva lasciato l’auto accesa. Sembrava dovessimo andare a un chissà che grande evento.
Guidò canticchiando quella canzone che piaceva a mia madre, quella in cui la cantante minaccia il suo uomo, dicendo che se adesso te ne vai, da domani capirà nel dolore del ricordo, in un solo momento, quanto lei era importante per lui.
Odiavo quella canzone. Quando mio padre iniziò i tornanti per arrivare alla chiesetta degli alpini e abbassò la musica, ringraziai nei pensieri lui e il cielo.
− Hai mai avuto una ragazza, Marco?
Alzai gli occhi e vidi lontano dal Sole il punto che sarebbe diventato una linea mossa. Come quella domanda che, capii subito, non sarebbe rimasta una domanda, ma sarebbe diventata una storia.
− Beh, tua madre è la prima ragazza con cui sono stato.
Un altro punto, i tornanti, il mio silenzio.
− Oddio, non proprio la prima. Prima di lei avevo baciato una compagna di classe delle scuole medie, ma insomma, mi capisci. È stata la prima in quel senso lì.
Non dissi Fammi scendere. Non dissi Hai bevuto?
Agitavo le dita dei piedi perché erano nascoste nelle scarpe e lui non poteva vederle.
Curiose anche le dita dei piedi, se ci si pensa; ancora più curioso chi ne ha sei invece di cinque. Ma quel giorno mio padre aveva tutt’altro in mente, anche se non ho mai verificato quante dita dei piedi abbia. Avrei potuto interromperlo e chiederglielo. Mettere un punto e a capo in quella storia, invece mi limitai a muovere le falangi degli arti inferiori, tranne il dito piccolino, che ancora oggi non so come si muova.
− Stiamo insieme da trent’anni, capisci? Solo lei e io.
Frenò per lasciarsi superare da una motocicletta e poi mandarla a quel paese.
− E insomma… Lo sai quanti giorni sono trent’anni?
Era il nostro gioco di quando ero bambino e andavamo al mare: la mamma sonnecchiava sul sedile posteriore, io mi pulivo nei pantaloncini le mani sudate e costellate di briciole dei Ringo, o dei Baiocchi: Lo sai quanti giorni è durata la guerra dei cent’anni? E se la prima Barbie fu costruita nel 1959, quanti anni, mesi, giorni compirà il 9 marzo di quest’anno?
− Diecimila?
− Bravo. Diecimilanovecentocinquanta. Io sono stato solo con tua madre per diecimilanovecentocinquanta giorni. E questo, Marco, è splendido. Questo è l’amore.
Mise la freccia ed entrò nel parcheggio di ghiaia della piccola cappella. Era vuoto. D’altro canto, di giovedì, a febbraio, alle 18.33 non c’erano funzioni. Lì non c’erano mai funzioni, a parte qualche commemorazione dei caduti in guerra. Chissà, mi dissi, per quanti anni, mesi o giorni dopo la fine di un conflitto bisogna continuare a fare eventi commemorativi. Quando è che si può dire Ok, a posto, li abbiamo ricordati tutti a sufficienza?
Conti alla mano, se metti uno dietro l’altro i morti militari e civili della Seconda guerra mondiale, ipotizzando un’altezza media di un metro e sessanta, si ottiene quasi la distanza della Terra dal Sole.
− Bello qui, no?
− Certo. Secondo te…
− E quindi ti dicevo di me e di tua madre. Tu figurati quante cose succedono in trent’anni. Pensa solo che dentro quei trent’anni sei nato tu. No, dico, − mi prese per le spalle e mi si mise davanti, gli occhi dritti sull’attaccatura dei capelli − proprio tu, tutto quanto − mi tastava i bicipiti, gli avambracci, i polsi, poi di nuovo le spalle − sei nato da me e da tua madre e dal nostro tempo insieme.
Annuii. Annuii sapendo che non si ottiene quasi la distanza della Terra dal Sole, perché mancano una quarantina di milioni di chilometri e quaranta milioni di chilometri sono più di un quasi, è una distanza così grande che non si colmerebbe nemmeno se si aggiungessero tutti i caduti della Prima guerra mondiale, che sono tanti, tantissimi, (voglio dire, una guerra in cui una battaglia è stata soprannominata tritacarne). Eppure, nemmeno loro sarebbero sufficienti a costruire una linea di morti che unisca la Terra con il Sole, anche se ci si andrebbe vicini.
− Trent’anni, diecimilanovecentocinquanta giorni, sono un’enormità di tempo, se ci pensi.
− Non in rapporto ai morti delle due guerre mondiali, che sono ottanta milio…
− E io e tua madre li abbiamo vissuti con una passione moltiplicatrice. Ogni anno pensalo per tre, che è il minimo per poter dire di aver vissuto a pieno. Ma la vita, ormai sei grande e lo avrai capito, non è una riga dritta o comunque ben disegnata, è più… più… come quei cosi della Settimana enigmistica, solo che i puntini sono nascosti e la penna scrive a sbavature. Mi segui?
Che roba la memoria, i suoi collegamenti. Avrò avuto una decina di anni, succedeva ogni volta che mi veniva a prendere al minibasket. Salivo in auto dietro, allacciavo la cintura e lo osservavo guidare e mi chiedevo che parole formasse con quei micro-movimenti silenziosi delle labbra. Sembrava provasse sottovoce un discorso che era sempre sul punto di fare, anche se non si realizzava mai. Avrei voluto dirgli Dai, dimmi, cosa c’è, vuoi abbandonarci, davvero puoi buttarci via così? Ma era sempre lui a precedermi, quando si accorgeva dallo specchietto del mio sguardo indagatore, così io facevo spallucce, cercavo qualcosa di interessante da dire e gli spiegavo che Giove è un gigante gassoso perché ha una specie di corazza di gas che protegge il nucleo, oppure che il microscopio più potente al mondo non permette di vedere le cose, ma di riconoscere le posizioni e le forme degli atomi lanciando fasci di elettroni. Lui non capiva, mi rispondeva che pensavo troppo per la mia età e mi chiedeva come era andato l’allenamento, ma quantomeno le micro-parole scomparivano e con loro l’intenzione di pronunciarle.
Arrivammo fino alla roccia su cui era posizionato il cannone cimelio della Grande Guerra, scavalcammo la catena da non scavalcare e ci sedemmo sotto la bocca di fuoco.
− Insomma, Marco, io mi accorgevo che ti preoccupavi. Credi che non vedessi come mi guardavi quando venivo a prenderti agli allenamenti? Che infilavi argomenti a caso tanto per parlare di qualcosa? E oggi mi sento di dirti che avevi ragione.
Sono uno scemo. Che stupido! Altro che quasi! Ho confuso i metri con i chilometri, i milioni con i mila milioni, i morti umani con i giganti di fantasia. Per coprire la distanza della Terra dal Sole non bastano due guerre, ci vogliono tutti i morti di tutte le guerre del mondo e della storia.
Ma allora bisogna ripensare ogni cosa: l’altezza media, l’attendibilità delle stime.
Come fai a sapere quanto erano alte le persone ai tempi delle prime città-stato della Mesopotamia? E come fai a sapere con certezza quante guerre ci sono state nella storia dell’intera umanità? Cosa ne so io di quello che è successo quattromila anni fa in quella che oggi chiamiamo Nuova Zelanda? E in Alaska?
Mio padre appoggiò i gomiti alle ginocchia, si soffiò nelle mani e, fissando un punto che forse era lo stesso mio, raccontò di quando andava a letto con la mamma di Arrigoni. Era stata solo una cosa di carne, disse, e grazie a quel periodo aveva riscoperto l’amore per mia madre, la loro passione era cresciuta e, se non avessero avuto problemi economici, mi avrebbero dato un fratellino, ma alla fine era stato meglio così, rimanere noi tre, un bel numero per fare una figura stabile.
Mi strinse per le spalle e mentre lo faceva io cercavo con la testa altre guerre che mi avvicinassero al Sole. Invece niente, era tutto da ripensare, era un calcolo senza basi, una storia che si sfalda come quella della canzone; era la deriva dei cadaveri nell’Universo. Li vedevo tutti, uno per uno: morti ammazzati, maciullati, polvere di cenere di carne di essere umano, sospesa nel nulla della distanza di Urano da Nettuno.
− Ti faccio questa confessione perché ho parlato con lo psicologo. Dice che racconti delle storie in classe e poi hai visto delle macchie, che pensi certe cose sulla mamma. È vero?
Una nuvola stagnava in quel cielo senza vento, aveva la forma di una coccarda commemorativa. Raddrizzai la schiena in segno di rispetto.
− Io lo capisco, la mamma è bellissima e sexy, ma, se ho guardato fuori io, lo devi fare anche tu. È normale che fai certi pensieri, ma è strano se li pensi di lei, mi segui?
Strinsi gli addominali ancora un istante e poi lasciai andare la schiena.
Nel cielo le nuvole dei morti, dei cannoni, dei corpi nudi di mia madre, di mia nonna, di mio padre, di Arrigoni e della sua di madre. Erano tutti avvinghiati.
Tornai nella comodità della gobba.
− Papà.
− Dimmi, Marco. − Mi stringeva il ginocchio destro, mi fissava con le pupille puntate.
− Per quanti anni bisogna ricordare, secondo te?
Lasciò la presa e inspirò. Si mise anche lui a osservare l’orgia celeste di guerra, carne e amore. Capii la sua delusione, ero un esperto di delusione.
− Tanti, ma non troppi.
− Quantifica.
− Quello che ti ho detto, lo puoi anche dimenticare subito. Non so nemmeno perché…
Alzai le spalle e gli sorrisi. Avrei potuto promettere di mantenere il nostro segreto, ma non mi piaceva tenere i segreti, nonostante mi piacesse fare quel gesto di chiudere la bocca con una chiave che poi butti dietro le spalle.
− Papà?
I suoi occhi, per quanto direzionati verso di me, sembravano calibrati per la messa a fuoco di Alfa Centauri. − Sono qui.
− Quel punto lì, lo vedi?
− Venere.
− Non ti sembra una linea che si muove, se lo fissi?
Alessandro Busi
Editing di Alessandra Sola
