
Grande nave che affonda
“L’estate venne caldissima e improvvisa: da un giorno all’altro tutti presero a spogliarsi e l’asfalto cominciò a squagliare”. È con la canicola estiva che ha inizio Grande nave che affonda, il romanzo d’esordio di Andrea Cappuccini. Siamo a Torricella, estrema periferia romana, e immersi nel bollore soffocante e arido si muovono i componenti della famiglia Romano e gli amici del figlio Taddeo, il quale da qualche giorno è stato condotto al carcere di Rebibbia.
Il perno del libro, il luogo da cui a raggiera parte ogni storia e si muove ogni personaggio, è la casa della famiglia Romano; come se questa abitazione, o meglio questa torre costruita dal nonno Settimo, fosse una calamita che richiama a sé amici e conoscenti, i quali si allontanano per poi tornare spostando i loro corpi quasi senza volontà, immersi in un tempo percepito immobile, sospeso come la calura estiva, gravante sugli agenti come un masso. In questo andirivieni il romanzo segue varie storie, o meglio, attraverso le persone narra le modalità che ciascuno trova per reagire alla realtà circostante: l’incarcerazione del ventenne Taddeo, ma anche il quartiere in progressivo cambiamento, inghiottito pian piano dall’espansione della città grande, con i suoi conformismi, le burocrazie, i grandi palazzi costruiti sopra le piccole realtà, come il bar del Giaguaro. Così, il padre Camillo inizia a parlare col fantasma del suo migliore amico, morto in una sparatoria anni prima, la moglie Viviana diventa una figura eterea, distratta, incapace di porre l’attenzione sulla figlia adolescente, sempre chiusa in camera sua davanti al televisore. E poi Diego, l’amico fraterno di Taddeo, che più di tutti tenta di ribellarsi alla ‘grande nave che affonda’, al declino e all’immobilità; si segna all’università, insegue l’amore. La casa, personaggio anch’essa, è il luogo della sicurezza e per questo è sempre piena: “Era cominciata con Taddeo: c’erano voluti i domiciliari per farlo tornare a casa, era ricomparso con Diego e si era portato appresso una baraonda di gente. Orde di persone venivano a fargli visita e si fermavano lì giorno e notte e anche di più, come se fosse un pellegrinaggio”. Anche Torricella ha la funzione di centro, di nesso, è il legame che tiene tutti uniti con le sue storie amarcord di periferia, la nostalgia per un tempo finito, divorato dalla modernità e dal cemento, quel tempo appartenuto alla gente semplice della borgata e ai personaggi storici del quartiere, divenuti miti per i posteri. Eppure, come dice Andrea nell’intervista, La grande nave che affonda è innanzi tutto Torricella, l’immaginario quartiere della periferia romana che raccoglie tutte le storie dei personaggi. Tra racconti che narrano gesta grandiose – e in fondo, alla luce di come sono andate a finire le cose, quasi ridicole – e scritte sui muri che celebrano amori sgrammaticati o amici scomparsi, ogni persona e ogni cosa del quartiere si ritrova coinvolta in un naufragio. Ognuno di loro, mentre il quartiere sembra venire fagocitato dall’espansione della città, fa infatti in qualche modo i conti con le proprie speranze disattese, con i sogni mancati, e tutti si sentono truffati. Soprattutto la famiglia di Taddeo, il ragazzo incarcerato: per loro lo strappo è ancora più grande e provano a tirare avanti come possono, a ignorare questo naufragio loro e del quartiere e si perdono in una ricerca disperata di qualcosa che dia un senso al precipitare delle cose, cercano insomma un appiglio. A tirare fuori l’immagine della nave nel romanzo è Diego, l’amico di Taddeo venuto a vivere nel caos di casa sua dopo l’arresto. Diego più di tutti, se all’inizio cerca di tenere insieme i pezzi di quel mondo in sfacelo, si renderà presto conto dell’inevitabile affondare della nave. Ha a che fare con la natura del quartiere, con lo scorrere del tempo o col semplice finire della gioventù, non gli è chiaro, ma lui più di tutti cerca una rivalsa o almeno una salvezza da quel naufragio. È un tentativo disperato di restituire dignità e significato a tutti questi sogni sbiaditi, suoi e di tutti gli altri.
Con un linguaggio che si mantiene vicino al parlato e al dialetto senza sfociare nel gergo becero, Andrea costruisce dei personaggi coerenti, aderenti al reale. Figure quasi tragiche nella loro genuinità, nell’aderenza a un mondo in decomposizione che è quello della periferia condannata all’ibridismo dall’arrivo aggressivo della città, decostruita nei suoi sistemi relazionali e famigliari, nel suo aneddotico universo di personaggi di pasoliniana memoria che ne hanno fatto la storia attraverso la propria leggenda. Gli vogliamo bene a questi eroi del quotidiano, che sgomitano per non morire, forse per l’esemplare ingenuità di alcuni, per la rabbia soffocata, perché pur ribellandosi annaspano loro malgrado nel fango, scontrandosi con le cose sbagliate, con il menefreghismo della politica verso i sobborghi, con le logiche robotiche del lavoro, con la brutalità usata contro il pianeta che muore e affonda pure quello come la nave del romanzo trascinandoci dentro tutti come una piena.
In Grande nave che affonda ai personaggi sembra non accadere mai nulla, si ha l’impressione che girino in tondo “intrappolati in una sequela di gesti monchi e azioni mancate e movimenti brevi, in quella casa e forse ovunque lì fuori, pure nei bar, nelle sale scommesse e dal Giaguaro. Chi era rimasto era fregato” e anche Diego “sentiva sempre quella smania, quel senso come di essere rimasto impantanato”. I protagonisti forse sperano che succeda qualcosa all’infuori di loro e li liberi da un malessere, una noia e aporia che pare essersi impossessata di tutti sin dall’inizio; in particolare dopo lo svolgersi della festa di quartiere e in seguito all’assassinio che lì si consuma, questo stato di apparente immobilità e di turbamento è accresciuto a dismisura.
Persino gli elementi atmosferici concorrono al disagio degli abitanti di Torricella, i fulmini, poi la nebbia, cooperano nel determinare una sorta di follia che attanaglia le menti, la staticità elettrica dell’aria trattiene i personaggi, legati e imbavagliati dentro un’inerzia che li comprime paralizzandoli. Quando chiedo all’autore cosa aspettano i suoi personaggi e cosa a un certo punto in crescendo li divora, lui dice: Ne parlavo con un libraio ad una presentazione, lui mi diceva che uno degli aspetti che più lo aveva toccato del romanzo era proprio questo agire vuoto e questa attesa quasi messianica da una parte e delle speranze disattese da un’altra. Il tema gli pareva molto attuale sia per il nostro tempo storico che in particolare per la mia generazione. La mia è una generazione cresciuta tra gli ultimi scampoli del mito del boom economico e al tempo stesso si ritrova a fare conti con un’inevitabile decrescita, sappiamo cioè che il nostro futuro sarà, in media, economicamente più faticoso rispetto a quello dei nostri genitori o che molte delle risorse sui cui facevamo affidamento per gli anni a venire scarseggiano. Credo che questa condizione delle cose abbia influenzato il romanzo, ma penso pure che posti come Torricella siano sempre stati ai bordi di una promessa non mantenuta. Come dicevo prima i personaggi si ritrovano a fare i conti con un mondo in declino, con ciò che resta dei loro tentativi infruttuosi di cambiare le cose. Ognuno di loro è donchisciottescamente perso nella propria battaglia al punto da isolarsi, da perdersi in un monologo solitario contro il tempo e il mondo che avanza. Nessuno si è mai davvero occupato di Torricella e dei suoi abitanti se non per assoggettarli, e in questa attesa logorante tutto ciò diventa più evidente. Naturalmente cosa fare non si sa e forse si lotta solo per non sparire, non venire fagocitati insieme al quartiere, per una quasi rivalsa. Sembra un agire tanto disperato quanto inutile, ma credo che queste gesta minori siano importantissime, che qualcosa al di là del risultato resti sempre e che in fondo come diceva Tabucchi all’inizio di un libro che ho amato molto bisogna insistere a cercare i buchi nella rete.
E in effetti qualcosa accade, i personaggi pian piano riprendono le loro vite, sebbene gli spostamenti paiano sempre minimi, forse perché gli stessi sembrano avanzare dentro un’atmosfera rarefatta, onirica, vittime di quella nebbia che da reale, attanagliando Torricella, grava anche sui loro cuori. Come in Godot, sembrano tutti aspettare qualcosa che non arriva mai. L’apparenza è che aspettino Taddeo ma forse stanno attendendo, invece, qualcosa che ha a che fare con la vita, col desiderio disatteso, con la periferia che annichilisce, con il degrado, con il lavoro che non si trova e quando si trova avvilisce e non permette comunque una vita dignitosa, la stupidità di certe regole, l’insoddisfazione, la monotonia. Taddeo, del resto, è un personaggio simbolo, è un luogo più che un’anima, di lui non sappiamo nulla, è solo il punto b, chiuso in una cella sovraffollata, a cui arrivano i personaggi partendo dal punto a: la casa. È una voce al telefono che non parla mai, un destinatario di lettere che a sua volta non scrive.
Nel romanzo, accanto ad alcuni elementi fantastici, si ravvisa radicato nella storia e nelle persone che quella storia la fanno o la subiscono agendo tra le pagine del libro, un profondo realismo, soprattutto per come è descritta la vita di quartiere. Mi chiedo quindi dove nasca l’idea di Grande nave che affonda, quanto ci sia dell’autore dentro il suo romanzo, ha davvero conosciuto la periferia sulla sua pelle? Non sono mai stato bravo a inventare storie dal nulla, mi sento molto più a mio agio a metterle insieme e a ricostruirle, proprio come un poliziotto da romanzo. Mi piacciono molto le narrazioni, mi piace come nascono e si sviluppano all’interno della propria tradizione orale e le possibilità che racchiudono. C’è un certo modo di raccontare della tradizione popolare un po’ farsesco un po’ iperbolico che mi affascina molto, le storie di questi eroi svaniti sono sempre gloriose e ridicole e io ci trovavo pure un che di molto malinconico, come se la loro disfatta fosse la disfatta di tutti quanti: il gusto della storia è sempre nel fatto che questi personaggi al loro massimo, animati da speranze impossibili, cadono rovinosamente proprio credendo di raggiungerle e il più delle volte fa sorridere, in fondo sono poco più che personaggi da barzelletta, ma io credo che vengano toccate anche altre corde, c’è qualcosa di profondamente tragico in ballo. Nello scrivere questo romanzo e nel mettere insieme e sistemare le storie che lo compongono ho cercato di tenere questa tonalità narrativa, le loro storie sono le storie di tutti e mi piacerebbe dire che quello che ho fatto io è solo questo, cercare un dispositivo che contenesse le storie possibili di una cultura, un po’ una storia delle storie, ma penso di non riuscire a essere nemmeno così freddo. Alla fine finisco sempre a parlare dei fatti miei o di chi conosco, cose che in modo più o meno diretto mi toccano. Magari poi mischio un po’ le carte, faccio convergere più cose in un personaggio o in una situazione, ma credo non riuscirei mai a parlare di un qualcosa che mi è del tutto estraneo.
La scelta di usare Torricella mi è sembrata la più onesta di tutte, se avessi ricalcato l’esatta storia di un quartiere e dei suoi personaggi probabilmente mi sarei perso in un resocontare vuoto, basato poi su cosa? Quanto del vivere in un luogo marginale è registrato, è ricostruibile? I racconti delle persone mi sono sembrati molto più interessanti e la verità che io cercavo era tra quelle storie, nella loro natura e nell’esigenza di raccontarle. Torricella è un luogo linguistico ed è questo a renderla vera. Lo stesso vale per i personaggi che la abitano, per i miei rapporti con loro e per la mia esperienza: niente è andato esattamente così, ma come vanno a finire le cose ha poca importanza. E poi ricordare è narrare, riscrivere, e le nostre storie negli anni cambiano anche per questo. E per questo se mi devo rimettere ad un Io, mio o altrui, preferisco affidarlo ad una comunità, ad una cultura; pensiamo, ricordiamo e narriamo in una lingua che filtra per noi la realtà e io mi fido più di quella lingua e della cultura che la usa che della mia esperienza. Perciò per rispondere alla domanda direi: tutto, però io sono un bugiardo quindi non fidatevi.
E invece noi di Andrea ci fidiamo, e sicuramente del suo libro, e di Leonardo Ducros che, come l’autore ci ricorda, lo ha presentato ad Atlantide edizioni ed editato, e insieme a Eleonora Daniel ne ha indovinato il titolo, consegnandoci, perfetta, l’immagine metaforica di una nave, che idealmente potrebbe essere qualsiasi realtà, che affonda, scompare, declina.
“Era come assistere da lontano a un naufragio, al naufragio di qualcosa che per te rappresenta la più grande speranza di cui sei capace. È una grande nave e dentro ci sono tutti, tutti diretti verso il continente di quello che gli pare a loro, con i loro sogni, le loro aspettative, quel qualcosa a cui forse sono predestinati o forse solo predisposti, ma che tutti si aspettano dalla vita. Quel qualcosa però non si raggiunge mai, la nave comincia ad affondare e tutti sono troppo presi da altro per accorgersene e non ci si può fare nulla, solo stare lì ad aspettare che le cose peggiorino. Forse anche tu, pure se sei lì solo a guardare e ti senti lontano, sei sulla Grande Nave. Così quel qualcosa che ti aspettavi lentamente sfuma tra le serate inutili, i soldi spesi, le amicizie scordate, le persone perse di vista, le droghe e le situazioni tossiche che ti fanno perdere tempo e forza di volontà, le promesse da ubriaco, le fughe, i rifugi e il nulla.
[…] Certe cose fanno il loro tempo e poi finiscono, nonostante le speranze e i sogni e tutto il resto. Così si andava avanti ma sembrava come ci si dovesse aspettare qualcosa, un crollo, una fine, un’epidemia, quel tipo di cose che lo sai già da prima che stanno per succedere. Si andava avanti con quel caldo e ci si aspettava qualcosa, e saliva una flemma a aspettare così e a non veder succedere nulla”.
Silvia Penso
