
Camille
Luce. Ombra. Luce. Ombra. I globi sul soffitto si alternano ritmici, come i tasti avorio ed ebano che si avvicendavano sul pianoforte di Claude Debussy. Se i miei polmoni non sibilassero a ogni respiro e l’eco dei lamenti convulsi smettesse per un attimo di propagarsi nell’aria stantia del manicomio, potrei ancora sentire le prime note di quel brano dall’andamento trasognato. Inumidisco le labbra e provo a intonarlo, ma dalla bocca non fuoriesce che un rantolo. Ansimo per lo sforzo, e il lezzo di ammoniaca mi raggiunge prima che la pelle si inzuppi di urine e le piaghe tornino a mordermi la carne.
Luce. Strizzo le palpebre sottili e vedo me stessa rannicchiata accanto a quell’uomo dai capelli crespi. Quanto mi era mancato il suo sorriso bonario, che compariva per consolidare lo sguardo attento e il tono indulgente nelle notti di intime confidenze. Io e Claude eravamo sul tetto del mio studio, al numero 117 di rue Notre-Dame-des-Champs, e la gatta che aveva infilato la finestra dell’abbaino insieme a noi, vagava in cerca dell’amato. Lanciava lamenti straziati alla luna che, cinta da una pallida aureola, pareva irriderla. Strinsi le ginocchia al petto e provai una specie di invidia per quella creatura che, pure infervorata dal più primitivo degli impulsi, incedeva lungo il margine della lastra di zinco con la disinvoltura del funambolo Blondin.
– Mademoiselle Claudel vuole degnarmi della sua pregevole considerazione?
– Ehm? – mi riscossi, ancora meditabonda.
– Ascolta cosa mi perseguita da giorni, Camille. Fra qualche anno nessuno ricorderà il fallimento di Fantaisie e finalmente la mia musica verrà compresa.
Claude mosse le dita su una tastiera immaginaria, e intonò una melodia che sull’istante non mi impressionò. Schiusi le labbra per canzonarlo, ma nei suoi occhi da pettirosso riconobbi un misto di eccitazione e fierezza, così sorrisi, e mi limitai a sfilare un anemone dai capelli. A lui, compositore visionario, donai il fiore dell’abbandono e un bacio stampato sulla guancia.
Qualche tempo dopo, complice il grammofono di un vicino, quelle stesse note s’insinuarono fra le tende svolazzanti dell’atelier, spremendomi il cuore. Agli arpeggi finali dovetti sedere sullo sgabello, le gambe molli di struggimento e rimpianto.
Ombra. Provo ad allungare le dita per imitare Claude, ma qualcosa le trattiene. Tento di nuovo, invano. Per un attimo sono Clotho, i capelli lunghi e avviluppati mi oscurano il viso, strusciano contro i seni emaciati e mi annodano i polsi. Poi rammento che sono stata io a plasmare la figura della moira scarna e decadente, mentre ora sono ricoverata, non riesco a dire da quanto, però so che sono legata come una bestia da macello. Ripetono che devo smetterla di agitarmi, mi stanno trasportando in fondo al corridoio, verso un posto sicuro.
Luce. Non esiste luogo più rassicurante della casa a Villeneuve-sur La Fère, nel Tardenois. Forse è lì che vogliono condurmi. Dalla facciata, ricamata da tralci di edera, avevano inizio tutte le storie che mio fratello intesseva durante le nostre passeggiate avventurose, in direzione del Géyn o della Hottée du Diable. La brughiera da novembre a maggio era puntinata di erica porpora, poi veniva il tempo della ginestra selvatica che a ogni passo ci avvolgeva come polvere di stelle. Avevamo piedi minuti e volti tondi, caracollavamo lasciando ondeggiare le braccia, e qualcuno, a uno sguardo frettoloso, avrebbe potuto scambiarci per folletti. I racconti terminavano rigorosamente all’ombra di gigantesche rocce d’arenaria, dove mio fratello Paul sedeva con solennità, quasi fossero il suo scranno reale. Nel lembo di terra che intercorreva fra la vegetazione e il trono su cui lui tirava fuori uno scrittoio da viaggio, si estendeva il mio regno. Lì, poco più che dodicenne, mi confrontavo con la plasticità della materia. Affondavo le mani nell’argilla, l’accarezzavo per ingraziarmela, poi la ammassavo e iniziavo a manipolarla. Lasciavo che si infilasse sotto le unghie o si rapprendesse fra le ciocche che ricadevano sulle guance arrossate da una smania arcana e profonda. Palpavo, poi graffiavo, lisciavo, scalfivo di nuovo, ammorbidivo con l’acqua che mi portavo appresso. Usavo la creta per osservare ogni mia sensazione.
– Adesso mi obbligherai a posare per te?
Era una domanda ricorrente, Paul la poneva con un broncio che avrei imparato a evitare.
Ombra. Mi concentro perché non riesco a ricordare bene i tratti del suo viso. Gli unici che mi tornano alla memoria risalgono a tanti anni addietro. Mi pare di poter ripercorrerli con i polpastrelli, ma la pelle è fredda come bronzo. Il piglio pensoso del filosofo e la postura di un rigoroso legionario romano convivono con la mente immaginifica di un novello Seneca. Paul non è che un ragazzetto, eppure il temperamento ben definito emerge da ogni angolazione. Lo evoco con un’ammirazione che a poco a poco viene eclissata da un alone minaccioso. Sento l’inflessione burbera che usava da adulto per intimidirmi, le parole sprezzanti che sillabava per piantarmele dritte in petto. Nella testa riecheggia il biasimo per la vita che ho condotto: un’amante al posto di un marito, gatti invece di figli, la polvere del marmo anziché quella della cipria. Guaisco come il cane del lattaio di Villeneuve, quando veniva scacciato con una pedata alle costole. Sono burro, e la vergogna mi maneggia senza riguardo. Ma del sole che era Paul, rimane un anello sottilissimo.
Luce. Detesto quell’immagine. Scuoto la testa e la trasformo nell’archetto metallico che usavo per tagliare l’argilla. Poi sgrano gli occhi. Mio fratello sta venendo a prendermi, suppongo con un guizzo di gioia. È da lui che mi stanno trasportando. La bocca si riempie di un sapore metallico, così passo la lingua sulle gengive sporgenti e persino quella vaga sapidità mi offre sollievo. Sorrido. Si è pentito di aver assecondato nostra madre, ne sono certa. Una donna che non riesce a baciare i propri figli, non può sapere cosa sia giusto per loro. Paul ha capito il valore della mia arte e forse mi sta già aspettando all’ingresso. Vuole implorare perdono per aver accettato di abbandonarmi qui, e io sono pronta a concederglielo con una mano sul suo capo chino. Sono disposta a tutto pur di riprendere il lavoro in atelier, persino recarmi con lui alla Salpêtrière, dove gli confermeranno che non sono affetta da nessuna malattia nervosa. E Paul sarà fiero di me, proprio come quando fui convocata da nostro padre che, senza troppi preamboli, passò il testimone al maestro Alfred Boucher.
– Camille, ormai ti seguo da un po’ e non ho mai dissimulato il mio entusiasmo per le tue abilità compositive. Padroneggi il concetto di spazio ed equilibrio, e trovo affascinanti le tue capacità di interpretazione. Ma hai compiuto quindici anni e finché rimarrai confinata qui, non potrò insegnarti niente di più rispetto a quanto già conosci. Per tale motivo ho proposto ai tuoi genitori di iscriverti all’Académie Colarossi, a Parigi. E loro che sono persone illuminate, hanno appena acconsentito a trasferirsi.
Ombra. Mi agito sulla barella che a ogni giuntura del pavimento mi percuote le ossa. Vorrei urlare, però temo di perdere il ricordo, e mi ci aggrappo per sopportare il dolore.
In seguito alla comunicazione del mio mentore, lo sguardo non scivolò su mio padre, bensì su maman. Detestava la mia propensione per le arti plastiche, la riteneva sconveniente. E non fui sorpresa quando vidi che dava le spalle ai due uomini, ma non a me. Voleva che guardassi l’espressione contrariata che le deformava il viso. Era un’inequivocabile dichiarazione di guerra e, di fatto, fu in quella circostanza che si formarono due distinte fazioni. Mia madre sapeva di poter contare su nostra sorella Louise, una spia abile e fedele, mentre io su papa che usò fino all’ultimo dei suoi respiri per tenermi lontana dalla prigione in cui ora mi trovo. Paul, il più piccolo componente della famiglia, si ritrovò a fungere da ago della bilancia. E così fra le mura di casa, a ogni ora del giorno e della notte, rimbombavano le urla, si contrattaccava con le minacce, ci si avvaleva dei ricatti per fidelizzare le alleanze, si adoperavano i risentimenti come fili spinati.
La situazione a Parigi divenne talmente asfissiante che un incubo prese a farmi visita quasi ogni notte. Iniziava con un solletico alle gambe e proseguiva con me che, incantata dal luccichio intermittente in cima alle creste delle onde, abbassavo gli occhi su una conchiglia spinosa che mi rotolava fra i piedi. Mi chinavo per afferrarla e, ogni volta, rimanevo colpita dal colore dei flutti che sbatacchiavano contro le caviglie. Erano torbidi come assenzio. Non appena sentivo un uomo chiamare il mio nome, sussultavo e portavo entrambe le mani alla fronte, senza riuscire a individuarlo. Ero sempre sul punto di chiedere chi fosse, ma il mancato sciabordio dell’acqua mi distraeva, e rimanevo in attesa di un’onda che non tornava. I capelli mi si rizzavano sulla nuca. La luce si affievoliva, schermata da una parete limacciosa e pronta a schiantarsi sulla spiaggia. Non avevo scampo. Era allora che comparivano mia madre e Louise. Le tiravo a me prendendole per mano e mentre loro si accovacciavano, io sollevavo il viso per accogliere l’ondata verde onice.
Luce. Stringo le palpebre e dalla bocca prorompe una risata grottesca. Mi beo per aver tratto da quell’orrore un’opera che qualcuno ha definito un capolavoro. Il respiro mi rimane intrappolato in gola. All’improvviso ricordo chi l’ha detto. Era un uomo che nelle iridi custodiva nuvole di grafite.
– Auguste. – Scandisco fievole.
Ho l’impressione che lo stomaco e il cuore possano liquefarsi da un momento all’altro. Rodin è comparso nella mia vita il giorno in cui Boucher ne è uscito con un coup de théâtre. Gli aveva ceduto l’incarico al Colarossi per trasferirsi a Firenze. Per un intrico di destini, filato abilmente dalle mani della moira Lachesi, l’opportunità offerta al maestro decretò l’inizio del periodo più dolce e feroce della mia intera esistenza.
Auguste Rodin fu il canto suadente di una sirena. Subii subito il fascino del suo piglio acuto, capace di estrarre la sostanza dalle persone così come cavava l’anima dal gesso. Io, cresciuta senza orpelli addosso, non ero intimidita dalla sua presenza, e la schiettezza con cui rimestavo nei suoi occhi, lo attraeva. Ci studiammo a lungo. Talvolta capitava di lanciarci sguardi fra le braccia piegate ad arco di una Psiche, talaltra ci sfioravamo le vesti fino a riconoscere i nostri odori fra le polveri del marmo.
In un pomeriggio afoso, mentre lavoravo a una figura femminile, si avvicinò e rimase per un tempo interminabile alle mie spalle, il respiro regolare fra i capelli arruffati. All’inizio ero irrigidita, poi il calore del suo fiato divenne una carezza che sciolse ogni resistenza. Dicevano che ero un’impertinente, perciò non mi sentii colpevole quando lasciai scivolare le dita sul seno in terracotta. Presi a modellarlo, ma non dovetti attendere molto prima che una grossa mano si posasse sulla mia per guidarla attorno al capezzolo. Strozzai un gemito solo perché accanto stava lavorando Jessie Lipscomb, una delle amiche con cui dividevo l’affitto dell’atelier. Quella danza di corteggiamento proseguì nello studio di Auguste, dove mi sfilò un capo e poi l’altro. S’inginocchiò per guardarmi, e dopo mi attirò a sé per esplorare in punta di dita ogni curva del mio corpo, che infine s’inarcò per accoglierlo.
Ombra. – Ti amo con furore. – Bisbiglio per paura che le parole possano sciuparsi come la mia pelle, pezzata da funesti lividi scuri.
Me le aveva sussurrate all’orecchio monsieur Rodin quando ormai ero musa e confidente, artista riconosciuta e sua collaboratrice. In una notte illune i nostri corpi nudi si spostavano per la stanza a passo di valzer. C’era qualcosa di tragico nel modo in cui ci stringevamo, un ardore che evocava il volo turbolento dei lussuriosi narrati da Dante. Eravamo vicini, ma percepivo l’assenza. Quella di cui non mi liberavo mai e che talvolta, addirittura, bramavo. I nostri litigi si erano fatti sempre più aspri, detestavo la sua presenza ingombrante. Le persone dicevano che la mia non era bravura, ma dipendenza. Era Rodin a scolpire per me, era lui che mi ispirava, era il suo denaro a mantenermi. Lui ripeteva che mi aveva mostrato dove trovare l’oro, ma l’oro che trovavo era mio. Io rispondevo alle calunnie rifugiandomi nell’atelier. In preda a un’ossessione febbrile scarnificavo la materia, la pestavo e poi la penetravo per trovarvi la pace. Il giorno seguente distruggevo tutto. Non volevo che Auguste la vedesse, era lui il ladro che mi razziava l’arte e l’amore.
Mugolo in preda alla frustrazione.
– Venite a prendermi, per favore. Si sono impossessati dell’opera di tutta la mia vita. Farò la brava, non darò scandalo. Paul, ti prego. Mi farò piccola piccola, non vi accorgerete di me.
Ombra. Camille Claudel, in completa solitudine, muore il 19 ottobre 1943 nel manicomio di Montdevergues per malnutrizione. Nessuno si presenta al funerale, nessuno reclama le sue spoglie, che vengono buttate in una fossa comune.
Valentina Falcioni
In copertina “Sui tetti come i gatti”, un’illustrazione di Simona Stassi
Editing di Alessandra Sola

