racconti

Tanga, diamanti, Andromeda

“Caught in your eyes, stacks of lights
Come streaming back, make it for the best times
Growing pains, good times”.

“Andromeda”, Gorillaz.

Dicono che Andromeda sia una costellazione a forma di “A”, allungata, debole, deforme. Una lettera che racchiude miliardi di stelle esauste, un monogramma luccicante, i loro gemiti a bocca dischiusa quando esalano – An-dro-me-da! –, prolungando pateticamente l’ultima sillaba. Anche i loro orgasmi sono allungati, deboli, deformi. 

Io nemmeno mi chiamo Andromeda.

Non gli dirò il mio vero nome, che si fottano. Qualcuno è tanto stupido da crederci, altri ci provano, – dai bella, come ti chiami davvero? – , e io rispondo sempre – guarda in cielo, mi vedi a occhio nudo, attaccata al culo di Pegaso. – 

Il mio, di culo, è tormentato da pruriginosi tanga di poliestere, messi insieme da cuciture che pungono come fil di ferro, segnato da autoreggenti che s’incastrano nelle pieghe della carne o da nasi che si insinuano per tirare piste di coca. Non deve stare tanto bene uno che si eccita pippando sulle natiche di una prostituta.

Li vedo arrivare, camminano con le gambe larghe nemmeno lì in mezzo ci fosse appeso un mappamondo, persone per bene tutto sommato, ma che quando si spogliano dei      vestiti, si sfilano anche la decenza, l’umanità, la ragionevolezza. Però chi sono io per parlare di queste virtù? Io sono solo Andromeda, i polsi legati a catene che si infrangono contro testiere di letti d’hotel, tintinnando baci umidicci, fiati d’alcol e fumo e tartare di bestie morte.  

Sento sempre freddo. Che città è questa? Che nazione? Potrebbe essere qualsiasi, non me lo ricordo. Di giorno mi alzo, mi trascino per scostare il tendaggio, lasciando sul letto i loro corpi ancora tiepidi di sonno e oscenità, e guardo ogni alba montare dietro tetti color terracotta. A occhio e croce,  pare una merdosa città del Nord Europa, i colori sono slavati, persino il sole sembra nascosto dietro una lente di vetro. Non farebbe così freddo se fosse una città del Sud, di un qualsiasi Sud. 

Di notte invece vorrei cercarla quella costellazione, ma sono occupata a farmi sbattere. A volte mi sbattono così forte che dal mio naso cadono diamanti. Sono rossi – allora dovrei dire rubini? – ma penso sempre alle stelle, quelle stelle che compongono il mio nome, algide e ghiacciate. Troppo lontane. Serro gli occhi, stringo il cuscino, i diamanti sgocciolano a uno a uno brillando sulla seta; allora provo a catturarli, nella mente dico all’uomo dietro di me – piano, fa più piano, cazzo, che mi scappano via – e muovo a tentoni la mano.

Ne acchiappo uno, lo ingoio, mando giù le mie stesse lacrime. Quando finisce la notte? Quando arriva l’alba? Questo è uno di quei clienti che non si stancano mai, i peggiori. Non mi devi dimostrare niente, tesoro, non sono tua moglie. Eppure s’intestardisce, mi rivolta, mi rigira, mi fa volteggiare neanche fossi una fottuta racchetta da tennis. Dice che sono bella, la più bella tra le belle, e io vorrei rispondergli – ma sta’ zitto e spicciati a venire, attirerai una maledizione o una malattia. – Mi sento un po’ allungata, debole, deforme anch’io, forse è colpa dei diamanti che ho mangiato. 

– An-dro-me-da. An-dro-me-daa. An-dro-me-daaa. –

Ci siamo quasi, tra poco si addormenterà e io potrò staccarmi da questo talamo mortale e attardarmi a guardare l’ennesima alba. Mi arriva una manata sul culo, faccio uno starnuto, un paio di solitari rotolano sul cuscino, mangio anche quelli, li sento scendere giù per la trachea, mi graffiano, ma sono miei, gli unici brandelli del mio corpo a essere solo miei e di nessun altro. 

Che città è questa? Che stagione? Inverno, sicuro, perché fa sempre tanto freddo. Mi volto verso la finestra, capisco che il giorno è vicino. Davvero questo tizio è stato qui tutta la notte? Dio, sono esausta. Non ricordo nemmeno il suo nome, ma non me ne frega un cazzo.

– An-dro-me-da: a-a-a-a-a-a. –

La lettera si allunga, si dilata, si gonfia d’aria e piacere e scintille di cristallo, e io riesco solo a pensare – presto, presto, non voglio perdermi l’alba! – e allora mi muovo per lui, contro di lui – l’avrà messo il goldone? Ma che m’importa, tanto morirò giovane e in catene – fin quando, finalmente!, sento un rivolo bollente colarmi lungo la gamba per poi raccogliersi nella piega del ginocchio.

– Tesoro bello, è stato fantastico –, ansima. – Sì, bravo, adesso levati dal cazzo –, penso.

Metto i piedi a terra, il pavimento è congelato, pulisco la gamba con il lenzuolo di seta, poi corro verso la finestra. – Cosa fai? – mi chiede l’uomo. Non rispondo, ma perché non si mette a dormire? Alcuni non ti lasciano in pace nemmeno dopo. Spalanco la tenda, è quasi giorno, un bellissimo giorno, il sole si solleva ammiccando dietro una distesa di alberi frondosi.     

Alberi. Alberi? Non c’erano dei tetti color terracotta in questa città?  Forse i diamanti erano avvelenati, forse sto sognando. Deve essere sempre quella merdosa città del Nord Europa perché riconosco degli alberi puntuti – forse delle betulle? – di un verde così profondo e saturo che fa male. 

Sento qualcosa rivoltarsi nello stomaco, all’improvviso una nausea densa mi si annoda dentro. L’uomo si alza dal letto, viene vicino, mi posa una mano sulla vita.

– Ti lascio i soldi sul comodino, come sempre –, dice. Sì, sì, basta che te ne vai. Quando ti rivedrò? Spero mai più.

Il sole si alza, un doblone d’oro nel cielo, incendia gli alberi e il mio viso. Arriva un conato, mi piego per vomitare a terra. Vomito nastri di brillanti, smeraldi, topazi, si infrangono sul marmo insieme a tutte le cose che vorrei dire, alla rabbia e al livore per questa vita di merda che sono costretta a fare. Nel pallore dell’alba si vedono ancora due o tre stelle di Andromeda: non è più una “A” sformata, ma la testa di una Medusa formicolante, viene a prendermi, penso, magnetizza le mie gemme, le assorbe, cosicché la costellazione diventa ricca di lettere. 

Adesso recita “Anna”. An-na. Il mio vero nome, quello che nessuno conosce. Non più esausto, ma vivo. Il calore del sole mi pietrifica, ho ancora addosso quel tanga schifoso ma non sento più niente, né prurito né fretta né odio. 

Chiudo la tenda di scatto, l’uomo è andato via. Dio, grazie. Noto un paio di banconote sul comodino, saranno cento euro, duecento, non lo so, non m’interessa più. Vorrei solo tornare a casa. Riapro la tenda, niente tetti color terracotta e nemmeno betulle, stavolta c’è un lago dalle sponde irraggiungibili; non sarà mica un mare? 

Brillano diamanti anche laggiù, sulla sua superficie dolcemente ondulata, allora ricordo che provengo da un posto che ce l’ha un mare così, ricordo un’infanzia davanti a un mare così, un tempo in cui non ero di nessuno, solo di mia madre e di mio padre, una bambina che non ha mai eccelso in niente se non nell’essere assolutamente banale.

Come ci sono arrivata in questa camera d’hotel? Chi ha scelto il nome Andromeda? Io volevo chiamarmi solo Anna e restare banale.

Piango, le mie lacrime sono dure e appuntite, cadono a terra facendo bling bling. La nausea è passata, ma d’improvviso ho sonno, forse è perché non capisco, perché il mio cervello vuole finalmente spegnersi. Guardo ancora una volta fuori: niente tetti, niente alberi, niente mare, solo un grande buio, il sole è tramontato di già? 

Nel cielo ci sono nuove costellazioni, le ho fatte nascere io, vengono dal mio naso, dal mio vomito, dalle mie lacrime, c’è inciso «An-na» sulla superficie incrostata di ogni loro stella. Le lenzuola sono fredde, forse ho passato ore, giorni, davanti alla finestra. Sto sognando di essere in un carillon che cambia fondale ogni volta che viene aperto? Forse sono una bambolina minuscola e qualcun altro decide per me il panorama olografico dentro il cofanetto. La testa cade sul cuscino, tiro via un diamante da sotto la guancia, lo lancio lontano da me.  

Dicono che Andromeda sia una costellazione a forma di “A”, allungata, debole, deforme. Io invece dico che è un sogno costruito sulle fantasie drogate di una donna che un tempo aveva un altro nome, che era compatta, forte, sana.

Deborah d’Addetta

In copertina un’illustrazione di Riccardo Massagli

Editing di Piergiorgio Andreani