racconti

Cloe

Corro a ripararmi sotto al portone di un palazzo. Mentre qualche passante viene a farmi compagnia, tiro fuori le sigarette dalla tasca dell’impermeabile e ne porto una alle labbra. La accendo, soffio, ripongo l’accendino in tasca: tutti i piccoli atti del mio suicidio petroniano si compiono alla maniera di sempre. Guardo la scaglia lavica che brilla in fondo alla sigaretta. Amo le combustioni; potrei contemplare per ore un pezzo di legno che si consuma in un camino. Invece detesto poche cose quanto la sensazione di bagnato. 

Non sopporto il fatto che la gente si ostini ad associarlo al pulito. Soltanto quando ci si libera di tutte le gocce e l’umidità, ci si può sentire davvero usciti da una condizione di sporcizia. Finché si è bagnati, si è prigionieri di tutto lo schifo che naviga sulla patina liquida e non fa che rimescolarsi sulla pelle, tra i peli e la peluria, nelle fessure in mezzo alle cellule: si diventa risaie di lerciume.

Mentre piove, controllo alcuni messaggi sul cellulare. L’israeliano mi cerca, chiede per che ora ho intenzione di arrivare. Mi sollevo la frangetta con uno sbuffo. A che ora ho intenzione di arrivare? Finché non smette di piovere, non posso muovermi. Guardo il cielo grigio che tenta di ingravidare il lastricato. Non so; sposto il peso da un piede all’altro, rifletto sul da farsi. Bagnarmi due volte…

No, non se ne parla: di un bagno faccio volentieri a meno. Perlomeno, la pioggia è così gentile da non venirti a inseguire se ti vai a riparare. Faccio una smorfia e penso a quanto sarebbe bello se pure l’israeliano si comportasse così e cominciasse a importunare soltanto la materia inerte.

Lo schermo si illumina. Mi chiede di comprare i preservativi: servizio completo a domicilio. Intanto che la pioggia mi tiene prigioniera, faccio il conto dei soldi nel portafogli e mi domando se saranno sufficienti a risparmiarmi un aborto.

Cinque, cinque e cinquanta… Ma l’israeliano si ricorda il mio nome? E io il suo? Non ho mai salvato il suo contatto in rubrica, ho lasciato il numero nudo impersonale come l’ho lasciato agli altri. Sette, sette e venti, sessanta, otto… 

Sono ricca! O perlomeno ho buone probabilità di non diventare una ragazza madre. Oggi.

Ripongo il portafogli. Scorro le chat sul cellulare e incontro una moltitudine di numeri anonimi. Conversazioni stringate, tutte uguali. Una delle prime poesie che ho scritto al liceo paragonava gli uomini che si affastellavano nella mia vita a un mucchio di dorsi di carte. A volte mi sento proprio così: circondata da schiere in bianco e nero in mezzo alle quali non saprei distinguere un solo volto. L’israeliano, per esempio, non ne ha davvero uno: ha i denti, le unghie, la pelle che suda e un’erezione. Un paio d’occhi, probabilmente no. 

La pioggia non scroscia più, ma cade debole e quasi senza rumore come gli aghi dei sempreverdi. L’israeliano mi domanda se ho abbastanza soldi. Sì, ne ho abbastanza da evitare il salto della quaglia. Gli rispondo soltanto sì, senza la parte sul coito interrotto: non vorrei suggerirgli di mettere in pratica cattive idee.

Sollevo lo sguardo, non piove più; nell’aria della strada aleggia il tanfo di umidità. Questo significa che devo andare a casa dell’israeliano. E comprare i preservativi. Metto una mano nella tasca dell’impermeabile, afferro il pacchetto, prendo una sigaretta. Il piccolo cerchio diventa rosso incandescente. Ancora, di nuovo.

Per sempre. Mentre faccio lo slalom tra le pozzanghere della discesa che porta alla via in cui abita l’israeliano, torturo il pacchetto con i polpastrelli; ormai è quasi vuoto. Penso a quanti ne consumo ogni settimana, a quanto loro consumano me. A pensarci bene, non trovo una grande differenza tra le sigarette e i maschi come l’israeliano: hai l’impressione di avere il controllo, ma in realtà non controlli un bel niente; anzi, alla fine di ogni presunto utilizzo ti ritrovi con un vuoto più spaventoso, un’usura maggiore e la sensazione di aver dissipato cose che potrebbero essere importanti, come il tempo e l’amor proprio.

In farmacia mi imbambolo a guardare i prodotti per neonati. Hanno un aspetto così tenero, emanano odore di latte e talco anche da sigillati. Per un istante immagino una gravidanza inaspettata, che nella precarietà della mia vita equivarrebbe uno tsunami o allo sgancio di una bomba atomica. A dirla tutta, non sono certa che non lo terrei: ogni volta che ho fatto un test di gravidanza, ho provato una specie di tepore triste alla pancia, che si dissipava di fronte alla linea rossa solitaria sul bastoncino. Mi sono domandata così spesso se in cuor mio quel bambino non lo desiderassi, anche solo per aver tirato fuori dalla mia devastazione sessuale qualcosa – qualcuno – di vivo e di amabile. Quando arriva il mio turno in cassa, guardo le scatole dei preservativi e avverto il peso di un’ipotetica esistenza che si regge unicamente sulle mie spalle, mentre batto colpi disperati a quelle impassibili – i famosi dorsi di carte – del maschio di turno. 

Arriva il mio turno di pagare, prendo i preservativi più resistenti.

Dopo aver depositato il mio acquisto sul fondo dello zainetto, riprendo il mio cammino verso casa dell’israeliano, che ormai dista poche centinaia di metri. Cerco di ricordare come l’ho conosciuto, ma non ho le idee molto chiare: in teoria, durante una serata di ubriachezza e futilità, una ragazza, che potremmo definire per comodità amica e per franchezza conoscente, mi ha presentato il ragazzo con cui stava uscendo. Come lui sia passato dalle braccia sue alle gambe mie, non saprei dirlo con esattezza. È successo per caso, come tutte le cose brutte della mia vita.

Sollevo lo sguardo al cielo, che non si è rischiarato: rimane grigio e fitto di nuvoloni. 

Mi fermo all’angolo della strada, frugo nella tasca ed estraggo il pacchetto. Una sola superstite. La guardo nel palmo, lunga attraente densa di veleno.

Ma l’israeliano mi ha mai chiamata per nome? Se non mi sbaglio, la sera in cui ci conoscemmo gli spiegai il significato. Viene dal greco, ha a che fare con l’erba giovane… Ma dubito che mi stesse a sentire, così come non credo me l’avesse domandato. Magari gliel’ho detto perché speravo che, semplicemente, si degnasse di utilizzarlo. Chissà a quanti ho raccontato la stessa storia sull’erba e l’epiteto di Demetra, del romanzo greco di Longo Sofista…

Dal cielo ora cadono gocce. Porto la sigaretta alla bocca. Non saprei dire che suono fa il mio nome sulle labbra di molte persone a cui è appartenuto il mio corpo. A volte mi dico Cloe, Cloe, Cloe, più volte davanti allo specchio. Cloe, ti amo. Sei davvero giovane fresca pulita come l’erba con cui ti hanno battezzata. Cloe, Cloe, Cloe. Poi la smetto, perché mi sembra un’onomatopea delle gocce che cadono. 

Come quelle che piovono adesso. Mi frullano per la testa pensieri ricorrenti sul bagnato e le sigarette e i dorsi delle carte. Penso all’israeliano che non sa il mio nome, a me che me lo ripeto sempre per sentirmelo addosso e poi finisco a percepirlo come un corpo sconosciuto, che è un po’ come mi sembrano le braccia le gambe i seni la bocca tutto quando divento una risaia di lerciume. Mi piove anche la faccia, mentre frugo in tasca in cerca dell’accendino. Nell’impermeabile, il cellulare vibra un paio di volte, poi con insistenza. 

Intanto la fiamma è morta, sepolta dai rovesci; la sigaretta, l’ultima, è fradicia e da buttare. La stacco dalla bocca e studio il bastoncino sconfitto tra le mie dita. Quante volte ho meditato di smettere? Quante volte ho anche detto, basta mancarsi di rispetto? Ma l’erba cattiva non muore mai. E l’erba buona, sì? La pioggia non è forse il suo nutrimento? Ma la pioggia del cielo, non quella degli uomini senza volto. 

Ma loro sono dappertutto. Può piovere all’infinito e questa sigaretta può diventare poltiglia, ma loro continueranno a bagnarmi, a tramutare me in poltiglia senza nome, erba un corno! Dico, grido e singhiozzo. Erba un corno.

–  Cloe! Cloe, ma che fai?

Trasalisco, lascio cadere la sigaretta a terra. 

–  Sì, sono io.

 –  Ma il cellulare, non lo senti mai? Ma poi, non hai visto che pioveva?

Mentre la pioggia viene rapidamente oscurata dall’ombrello verde che dopo pranzo non riuscivo a trovare, osservo ai miei piedi la decomposizione del mio veleno.

La tasca dell’impermeabile non vibra più. La voce continua a parlarmi, dolce e familiare.

Fosca Navarra

In copertina un collage analogico di Ramona Colombino

Editing di Francesca Gentile