
Tranne un piccolo particolare
Non ho tempo da perdere, le cose cambiano alla velocità della luce e devo stare sempre sul pezzo. Sono talmente occupata a generare idee che quando mi imbatto in discussioni scomode e noiose taglio corto inventando balle gigantesche. La fortuna ha il suo peso: nascere in Africa, in Asia o in Sud America avrebbe pregiudicato ogni velleità, a meno di non chiamarsi Luna come mia sorella. Pure con altri genitori poteva finire in modo diverso. Alfredo e Silvia sono due persone senza grilli per la testa.
Quando sono nata, mio padre aveva quarantatré anni; il lavoro di impiegato alla municipalizzata lo impegnava sei ore e mezzo dal lunedì al sabato, ma il resto del tempo lo passava inebetito sul divano, tanto che a volte avevo l’impressione che fosse il telecomando a fare zapping con lui. Fumava come una ciminiera: prima di coricarmi guardavo nuvolette grigie fluttuare per le stanze della casa, l’atmosfera non era diversa da quella invernale sul lago. Diceva che stare allo sportello a sorbirsi gli insulti dei contribuenti era usurante quanto mettere l’amianto sui tetti. Tornato a casa, non faceva in tempo a posare il soprabito nell’armadio che gli andavo incontro – solo io, Luna restava a impilare le costruzioni – tenendo tra le mani il disegno del giorno, che lo vedeva sempre allo stesso posto, sulla sinistra, mentre all’altro lato del foglio c’era mia madre. Faceva la colf ed era lei ad accompagnarmi e riprendermi da scuola. Pensando ai supereroi che guardavo in TV, la immaginavo sparare dalle unghie varechina e altri fluidi invincibili nella guerra contro lo sporco. Anche lei non è mai stata la mia compagna di giochi e le sue giustificazioni erano altrettanto valide. Al mal di schiena per le pulizie, aggiungeva un’attenzione quasi maniacale all’igiene mia e di Luna, sempre al centro nei disegni che facevo; a volte ero io a tenere la mano a papà, a volte mia sorella. Tutti e quattro formavamo una specie di catena.
– Si vede che siete molto uniti – diceva la maestra, ma io volevo solo raffigurare un girotondo.
Luna sorrideva sempre, con la linea della bocca curva all’insù. Io invece potevo avere anche la linea curva all’ingiù, oppure un trattino orizzontale e due puntini minuscoli al posto degli occhi, come se mi stessi sforzando di fare la cacca. Fino ai dieci anni mi faceva arrabbiare spesso, e andavo letteralmente su tutte le furie quando mamma mi dava torto anche quando avevo ragione e se ne usciva con la frase che tanto detestavo: Luna ha sofferto tanto. In realtà, la sola che finiva sempre con i lacrimoni ero io, mentre mia sorella riceveva coccole sotto forma di pane e Nutella.
L’unica soddisfazione era quando su di me – e solo su di me – si soffermavano i conoscenti che ci incrociavano per strada.
– Somiglia alla mamma.
– No, è sputata al padre.
– Non vedi che il naso e l’attaccatura delle orecchie sono di Alfredo?
– E la fronte e il mento, invece, di chi sono?
– Ha preso il meglio da tutti e due.
Luna, almeno in questo, era fuori dai giochi.
Siamo cresciute insieme, lei ha appena dieci mesi più di me, ma chi l’ha messa al mondo vive ad Asuncion. Non c’era niente da fare. Lo zinco, il ferro, gli spermiogrammi, le ecografie all’utero: pareva tutto regolare, i miei genitori erano sani come pesci.
Mia madre una volta mi raccontò che avevano chiesto il parere di un andrologo.
– È solo una questione di testa – aveva sentenziato.
Il famoso stress che impediva a papà di ballare Casaciok con me e mia sorella preferendo impregnare di fumo il divano: al lavoro gli utenti protestavano e per questo lui non riusciva a fare figli.
L’opinione dell’andrologo suonava come una sentenza definitiva e i miei avevano davanti due possibilità: arrendersi o tentare la strada dell’adozione.
Per mia madre mollare non era nemmeno un’ipotesi, così si erano rivolti al tribunale per le pratiche di adozione, e un cancelliere li aveva informati – così subissato di domande da diventare immediatamente simpatico a papà – che servivano: certificato di nascita, stato di famiglia, dichiarazione di assenso all’adozione dei genitori, certificato di buona salute, certificato del casellario giudiziale e busta paga. Quest’ultima richiesta aveva rischiato di far saltare tutto.
Erano usciti dal tribunale con un plico di scartoffie in meno e molti dubbi in più; invece, sei mesi dopo, c’era una bambina paraguaiana appena nata che aspettava di diventare loro figlia.
Quando mamma aveva ricevuto la comunicazione dal postino, era corsa alla municipalizzata agitando la lettera. Papà si era inventato un lutto improvviso e aveva lasciato l’ufficio saltellando euforico.
Quella sera si erano dati alla loro personale interpretazione della pazza gioia: primo, secondo, dolce e persino una bottiglia di Barolo. Erano tornati a casa che ridevano più di quando erano partiti. Mio padre, con i freni inibitori perduti, aveva azzardato un passo di tango che non eseguiva da quando, scapolo, bazzicava le balere della piana. Quella sera sono stata concepita io.
Tutti i bambini quando nascono prendono confidenza con il mondo e con i volti dei genitori. Io imparavo anche da Luna: dormivo nello stesso lettino, litigavo per gli stessi pupazzi, vestivo i completini che lei aveva appena dismesso. Abbiamo passato i primi anni della nostra vita a prenderci le misure, disegnando ognuna il proprio perimetro dentro il quale l’altra non poteva entrare. E, come per ogni territorio che si rispetti, c’erano volute guerre e spargimento di sangue per arrivare a delimitare i confini.
A cinque anni, davanti agli altri bambini dell’asilo, si era permessa di non versare nella mia mini tazzina il finto caffè dalla mini caffettiera che brandiva come una consumata barista. Un’umiliazione a cui, tornate a casa, erano seguite il lancio della caffettiera vera verso la sua fronte e le mie chiappe violacee, sculacciate da papà. Me la sognavo pure, nelle vesti di un gigante insormontabile o della strega cattiva che avvelenava Biancaneve senza un principe azzurro nei paraggi per salvarla. Durante il sonno Luna sembrava un morto: non si muoveva, non parlava, probabilmente neppure sognava. Tutto il contrario mio: ancora oggi mille immagini infestanti mi tengono compagnia di notte. Poi con l’adolescenza eravamo fiorite, riconoscendo di essere diverse non solo per genitori naturali, origine e colore della pelle ma anche per gusti e ambizioni. Da rivali eravamo diventate complementari. Frequentavamo compagnie diverse ma ci scambiavamo confidenze che non avremmo spifferato nemmeno alle nostre migliori amiche.
Luna era stata precoce in tutto: in quinta elementare le era sbocciato il seno, aveva il doppio dei miei peli e le era arrivato il ciclo. Già allora ero diversi centimetri più bassa di lei e, pur avendo la sua età, osservavo i cambiamenti del suo corpo con la stessa curiosità con cui una bambina dell’asilo guarda un’adolescente. Ovviamente mi ha preceduto su tutto il resto.
In terza media sembrava una maggiorata, i ragazzi si incantavano a guardare la catenina ciondolare in mezzo ai seni. Di lì a poco avrebbe conosciuto l’amore con un belloccio maggiorenne di cui non ricordo il nome (e neppure lei). Durante le scuole superiori ne cambiava così tanti e in gran fretta che non riuscivo a tenerne il conto: sembrava facesse la collezione delle figurine Panini. La cosa buona, però, era che anche io iniziavo a sbocciare e dalle sue esperienze che mi confidava cercavo di trarre il maggior vantaggio.
– Sono sua sorella – dicevo ai tizi interessanti che mi abbordavano in discoteca, e non c’era bisogno di aggiungere altro: bastavano queste parole a stuzzicare l’appetito e proiettare su di me gli atteggiamenti sensuali e ammiccanti per cui Luna era famosa.
Durava poco, perché ero tanto timida quanto lei era esuberante, così quelli con cui uscivo, scoperto che brillavo di luce non mia, si dileguavano in fretta.
Negli studi, invece, eravamo allo stesso livello, sin dalle elementari le più brave della classe. Abbiamo due DNA diversi, quando sudiamo la mia pelle diventa acre e la sua odora di mandorla, ma nel fare compiti e preparare interrogazioni sembravamo gemelle: gli appunti, il modo in cui ripetevamo, la prosa dei nostri temi. Negli scritti ce la battevamo, entrambe fluide e attente a esaurire gli argomenti senza andare fuori tema, ma negli orali Luna era come in discoteca: una bomba. Alzarsi in piedi ed essere guardata da tutti mentre esponeva senza impappinarsi la galvanizzava; percepiva l’ammirazione dei compagni di classe e finiva le interrogazioni in crescendo, le mancava solo di ricevere la ola. Invece io non ero a mio agio con gli occhi dei coetanei addosso; mi salvavo solo perché i professori sapevano che gli argomenti li conoscevo a menadito e arrotondavano sul voto nonostante avessi risposto in modo mediocre.
– Parlami del pensiero di Fichte – chiedeva solenne e categorica la professoressa di filosofia con la couperose e i denti ingialliti dal fumo e, invece di concentrarmi sulla risposta, mi si parava davanti la sagoma di mia sorella ammirata da tutti e finivo per biascicare.
La maturità era stata comunque un successo, cento centesimi a entrambe, per la soddisfazione dei nostri genitori. Ancora adesso sono orgogliosi, si vede dagli occhi di mia madre e si sente dalle parole di papà.
– Non pensavo di meritare una fortuna del genere.
– Due figlie come voi sono la gioia più grande che un genitore possa avere.
– Mamma ed io vogliamo celebrare la vostra laurea organizzando una grande festa.
Quella di Luna è avvenuta un anno fa, quando è stata proclamata dottoressa in interpretariato e comunicazione.
Oltre alla solita corona con le foglie di alloro, erano partiti i cori triviali dei goliardi che, muniti di bombolette spray, avevano colorato mia sorella dalla testa ai piedi. Poco dopo, vestito da eschimese e tutto sudato, era comparso Daniele, il fidanzato, l’ultimo della serie, almeno per ora.
– Come si dice Ti amo nella lingua degli Inuit? – le aveva domandato facendomi venire il diabete, e Luna l’aveva baciato con la lingua davanti ai nostri genitori.
In un anno la vita di mia sorella è cambiata: si è trasferita a Milano e lavora in una casa editrice. Daniele vive con lei, fa l’assicuratore e parla di matrimonio, una cosa a cui Luna si è sempre dichiarata allergica. Una cosa che, invece, sarebbe il coronamento dei miei sogni. Oliviero è un bravo ragazzo, mi mette sempre al centro e si fa in quattro per farmi sorridere. È ragioniere in una ditta, sono cinque anni che mette soldi da parte ma il matrimonio è ancora un miraggio.
– Prima la laurea, poi un lavoro – gli ho fatto capire le mie priorità e lui le ha accettate.
Dopo aver aspettato a lungo, finalmente tocca a me: il 17 maggio è il grande giorno. Già lo vedo papà a dichiarare con il petto in fuori che i suoi nipoti saranno certamente dei cervelloni. Arriverà con mamma la sera prima, hanno prenotato l’albergo, mentre Oliviero si fermerà a dormire con me nel bilocale in affitto in cui vivo. Mia sorella mi raggiungerà direttamente in ateneo con Daniele. Anche gli amici del paese si stanno mobilitando: hanno aperto una lista laurea presso un’agenzia viaggi per regalarmi una settimana nelle Asturie.
Tutto è perfetto, tranne un piccolo particolare di cui nessuno è a conoscenza: di esami non ne ho dati ventiquattro, ma tre.
Ve l’avevo detto che sono brava a raccontare balle gigantesche. Mi hanno creduto tutti. Squilla il telefono, è papà.
– A festeggiarti ci saranno pure i tuoi cugini dall’Australia.
Giulio Natali
In copertina un collage analogico di Ramona Colombino
Editing di Piergiorgio Andreani

