racconti

Azù

Se qualcuno potesse domandarmi da quanti anni esisto, non saprei cosa rispondere. Probabilmente da sempre o, meglio, da quando tutto intorno a me vive. 

La casa dove ho abitato era spaziosa: un salone, una camera da letto luminosa con l’affaccio sul cortile, la cucina con il tavolo di marmo, il lavabo e la finestrella sopra i fornelli. 

Un lungo corridoio con le mattonelle di graniglia; in fondo lo studio e la grande libreria con lo scrittoio, il leggio e, sopra al soffitto, la botola per salire nel lucernaio a guardare i tetti delle case.

Lassù in silenzio ho osservato le forme della luce. Non conoscevo ancora il tempo degli umani e vivevo solo nell’aria. 

Finché la botola si aprì e spuntò un braccio e la testa di un uomo. 

Ero evanescente e invisibile, eppure lui riuscì a prendermi e farmi diventare una piccola sfera di luce opaca sospesa sul palmo della sua mano, che si suddivise in altre piccole parti per poi riallacciarsi al nucleo centrale ed espandersi in bagliori lucenti che scesero giù dalla botola e invasero tutte le stanze. 

Mi infilai nei pori delle mattonelle di graniglia, nelle vene bluastre del tavolo di marmo e in ogni minuscola crepa, fino a deflagrare in un lampo che fece brillare tutte le pareti della casa e aprire di colpo porte e finestre.

Dopo uno scoppio intenso come un fuoco d’artificio capii che era successo; ora ero nella casa e potevo vedere e sentire il mondo degli uomini. 

L’uomo che mi fece vivere si chiamava Yehuda. Era un vecchio rachitico e gobbo con un abito nero sdrucito, un paio di scarpe consumate e una barba lunga e grigia. 

Il vecchio mi parlò molto, in silenzio, della vita degli uomini. Mi raccontò di peregrinazioni, marce nel deserto, città distrutte dal fuoco, fiumi tramutati in sangue, stragi compiute da un Dio sterminatore che Yehuda non nominava mai. Imparai la lingua degli uomini, iniziai a capire il tempo in cui si muovevano e a spostare gli oggetti. Qualche volta, per svegliare il vecchio e farmi raccontare un’altra storia, spostavo un po’ la sedia dove se ne stava immobile. Yehuda sbarrava gli occhi e si guardava intorno; poi iniziava a raccontare.

Col tempo cominciò a rimpicciolirsi, diventava sempre più gobbo e magro. Pensavo che un giorno non l’avrei più trovato, immaginavo di vederlo evaporare, ma capii che gli esseri umani hanno un loro modo di cambiare forma: lasciano quell’involucro di carne, pelle e peli in cui sono rinchiusi e sgusciano via, come certe larve che avevo osservato nel lucernaio. Un giorno Yehuda se ne andò, abbandonando il suo bozzolo vuoto sulla sedia dello studio. 

Arrivarono altri uomini a prendere l’involucro di Yehuda. Si fermarono a pregare e potei osservarli bene. Alcuni erano molto simili al vecchio: come lui avevano il corpo fasciato in tuniche nere, delle barbe lunghe e dei cappelli neri, altri avevano forme diverse: fianchi più larghi, pochi peli sul volto, vestiti più corti. 

Il sapere scritto nei libri di Yehuda non fu nulla in confronto a quello che imparai con Sarah e Nahum. Arrivarono molti anni dopo, lei esile e minuta, lui alto e magro, con l’aria riflessiva.

Due giovani sposi con un’unica valigia e poco altro. All’inizio non parlavamo molto: Nahum stava tutto il giorno fuori, Sarah usciva e rientrava quasi subito per pulire, lustrare ogni angolo della casa. Cucì a mano le tende per la finestrella della cucina, di notte ricamava fino a tardi, la vedevo sforzarsi di tenere gli occhi aperti e finire gli ultimi punti. Non riuscivo a capire tutto quell’attaccamento per le cose e le loro forme; ci doveva essere qualche fine che non riuscivo a comprendere nel vederli ripetere tutti i giorni gli stessi gesti, le stesse parole. Non se ne stavano rinchiusi nello studio come il vecchio Yehuda con i libri, ma in certe ore del giorno potevi vederli sussurrare una preghiera a quel Dio a cui erano devoti. Ciò che più mi impressionò furono i loro corpi, così diversi ma simili: snelle e bianche le gambe di Sarah, lunghe e pelose quelle di Nahum. Corpi bellissimi dalle forme simmetriche che sembravano fatti apposta per toccare, annusare, sentire, correre e saltare. Invece quei due non facevano altro che coprire e nascondere ogni parte delle loro straordinarie forme, come fossero maledetti. La pena per quella maledizione era di fare come se un corpo non lo avessero affatto. Certo, portarlo in giro non era facile, dovevano ubbidire a tutta una serie di necessità sfiancanti, bisogni imbarazzanti, umori, odori, arrossature della pelle, pruriti, gemiti, dolori. Era una macchina complessa, quel corpo, e dovevano prendersene cura continuamente. 

All’inizio mi domandai dove fosse il loro spirito, poi capii che se ne stava nascosto dentro quella corazza coperta da camicie, cappelli, calze, scarpe, pastrani. Faceva capolino ogni tanto, quando di notte, liberi da tutti quegli orpelli inutili, Sarah e Nahum diventavano un’unica sfera luminosa che restava a mezz’aria, per poi scendere e tornare dentro di loro. 

Era uno spirito splendente, forte come non ne avevo mai visti, ma subito veniva ricacciato nei loro corpi da chissà quale forza.

A volte quello stesso spirito scintillava intorno a Sarah, soprattutto in certe sere, quando prima di andare a letto saliva sul lucernaio e se ne restava da sola a osservare i tetti; iniziava a cantare piano e il suo spirito si faceva brillante, aureo, ma non durava mai a lungo.

Non ho mai sperato che potessero sentirmi o vedermi. Se erano così impauriti dal loro stesso spirito, cosa avrebbero potuto pensare di quello della loro casa? Mi nascosi tra i ricami delle tende, nelle venature del legno, nei piccoli buchi del muro; qualche volta spuntavo fuori, facevo cadere un vaso, sbattere una porta e li vedevo sobbalzare e gridare il nome di quel loro Dio. 

Poi arrivò qualcuno che riuscì a vedermi. Pochi giorni prima Sarah aveva acceso le luci del candelabro a sette braccia che tutte le mattine spolverava con cura, e con Nahum avevano recitato le preghiere. Succedeva sempre in uno dei periodi più freddi per gli uomini, quelli in cui il vento sibilava forte sul lucernaio e la neve cadeva dal cielo e ricopriva i tetti. In una di quelle notti gelide, il corpo di Sarah iniziò a contorcersi, il viso a trasfigurarsi e le mani esili si aggrapparono al materasso. La casa si riempì di persone. Quelli come Nahum se ne stavano nello studio a pregare, mentre altri simili a Sarah assistevano a quella che doveva essere una trasformazione totale del suo corpo. Quella carne fatta di sangue e viscere sembrò squarciarsi, liberarsi di qualcosa che premeva contro la pelle e scalpitava per uscire. Quando venne fuori non riuscii a crederci. Imbrattato di sangue, il corpo in miniatura di un essere umano strillò e poi iniziò a fissarmi. Notai che il suo spirito emanava una luce chiara, calda, e sembrava essere molto più forte di quello di Sarah e Nahum.

Chiamarono il piccolo umano Ester e capii che il tempo l’avrebbe fatto diventare come Sarah, anche se con lei aveva poco in comune: la pelle più scura, gli occhi marroni e una massa di capelli chiari che nei primi mesi si trasformarono in riccioli biondi. Quando Sarah metteva Ester distesa sulla trapunta del letto, quella che aveva ricamato quando la casa era tutta spoglia, la piccola umana mi guardava e allungava le braccia corte e paffute verso di me. Rideva, sbavava, tirava fuori la lingua come per assaggiarmi e, quando mi muovevo su e giù per il soffitto, mi seguiva rotolando su sé stessa e gridando. Felice che qualcuno potesse riuscire a vedermi, imparai a giocare con lei. La sera, quando Sarah e Nahum s’addormentavano, mi infilavo nella culla e le toccavo il nasino e i piedini. Imparai a sollevarla; rimaneva a mezz’aria e sgambettava felice. Quando i genitori non la sentivano piangere facevo cadere la lampada dal comodino; allora Nahum si svegliava di soprassalto, inforcava gli occhiali e fissava quella creatura con la stessa espressione di fascino e mistero che aveva quando si fermava a riflettere sulle pagine dei suoi libri. Il corpo di Ester cresceva e la casa si riempiva di rumori, urletti e pianti. Il tempo di Sarah e Nahum, scandito dalle preghiere e dalle feste da celebrare, trascorreva dietro al quel piccolo corpo che non la smetteva mai di saltare, correre, cercare. La sera Nahum accendeva il caminetto, prendeva Ester sulle ginocchia e iniziava a raccontare la storia di Giuda Maccabeo e dei suoi fratelli, di come riconquistò un tempio lontano e di come, per celebrare la vittoria, accese le luci di un grande Candelabro che durarono otto giorni. Raccontava anche storie terribili di massacri di bambini come Ester e di uomini tramutati in sale nel deserto. Alla piccola non piacevano queste storie e la notte la vedevo spesso muoversi e piangere. Anche lei iniziava ad avere paura di questo Dio terribile che, nonostante tutto, gli uomini continuavano ad adorare con devozione.

Certe notti, per calmarla, la portavo sul lucernaio e le mostravo le luci delle stelle e i colori del cielo. La notte buia e fredda diventava rossa, verde, gialla e lei rideva, libera da tutti gli incubi. Fu quando imparò a salire sul lucernaio senza aiuto che iniziò a chiamarmi Azù.

Era diventata una piccola Sarah in miniatura con i capelli biondi, ricci e gli occhi scuri del padre.

– Stanotte Azù mi ha fatto vedere le luci. – diceva contenta alla madre mentre imparava a impastare il pane. Azù dice questo, Azù fa quest’altro. Sia Nahum che Sarah non badavano a quello che diceva; ogni tanto le sorridevano e quando faceva qualcosa che non doveva, Sarah la rimproverava:

– Chi ti ha detto di fare questo? Azù?

– Sì, è stato lui.

Che monella era diventata! 

Qualche volta Ester e Sarah salivano sul lucernaio. Sarah cantava, ma erano canzoni più lente e malinconiche di quelle dei primi anni. Il suo spirito non era più lucente come prima: s’era fatto opaco, quasi grigio, come la cenere che usciva dai camini delle case.

Un giorno ci fu un grande trambusto. Nahum rientrò prima di pranzo e insieme a Sarah tirò fuori dall’armadio la vecchia valigia con cui erano arrivati. Sarah iniziò ad aprire tutte le ante dei mobili, cercando qualcosa per riempirla. Fece tre fagotti con un paio di vestiti. Nahum rinunciò ai libri.

– Non ti preoccupare, torneremo presto.

Sarah era confusa e anch’io. Lasciare la casa così, dall’oggi al domani. Dove volevano andare? Insieme a Ester giravo per le stanze, osservando tutta quella confusione.

– Dove andiamo, mamma? Azù vuole saperlo!

Ma Sarah e Nahum non badavano alle domande di Ester che s’aggrappò alla gonna della madre e iniziò a strattonarla; l’aiutai, tirai anch’io, tanto che la gonna si strappò e Sarah scansò la figlia sgridandola come non aveva mai fatto. 

Ester iniziò a piangere, Nahum la prese in braccio e le disse che sarebbero dovuti andare via solo per un po’.

– E Azù?

– Ci aspetterà qui.

Li vidi uscire di corsa; prima di chiudere la porta, Sarah si guardò intorno, diede un’ultima occhiata alla camera da letto, alla trapunta, alle tendine della finestrella, al lavabo e so che pensò anche al lucernaio dove cantava; poi Nahum chiuse la porta. L’ultima cosa che vidi furono gli occhi di Ester.

– Aspettaci Azù, torniamo presto!

Li attesi per non so quanto tempo. Passarono stagioni, mesi, anni, continuai a vivere nel buio e man mano la speranza di rivederli venne coperta dalla polvere, dall’intonaco dei muri che si sbriciolava e dal lento logorio del legno. 

Mi arrabbiai, spaccai i vetri delle finestre, feci cadere i libri di Nahum dalla libreria, incolpai il Dio degli uomini per quella perdita, sicuro che fosse stato lui a portarmeli via. 

Vissi nel buio in stretti cunicoli insieme a colonie di tarli nel legno marcito dei mobili, seguii la vita di scarafaggi neri affaccendati dalla mattina alla sera a nutrirsi dei loro stessi compagni, li vidi accanirsi con i più deboli, rosicchiare i loro corpi e divorarli con una voracità crudele, fino a trasformarli in una poltiglia nera che mutò in cenere e ricoprì il pavimento della casa.

Quando mi ero rassegnato alla vita infima degli scarafaggi e non ricordavo più il nome che Ester mi aveva dato, la sentii arrivare. Comparve dalla cenere sul pavimento con gli stessi capelli ricci e l’aria sbarazzina e curiosa dei suoi pochi anni. 

– Azù!

Riconobbi la sua risata. Era proprio lei: Ester! Iniziò a correre per le stanze scure della casa. Come era diventata veloce! I piedini correvano a mezz’aria e non aveva più paura del buio! 

In piedi nel suo studio, Nahum fissava i suoi libri con un’aria assente e un sorriso stanco come se avesse dovuto attraversare il deserto, come quell’Abramo di cui spesso parlava, prima di ritornare a casa. Trovai Sarah in cucina, forse dispiaciuta per come avevo ridotto la casa. Mi sorrise e capii che ora entrambi potevano vedermi.

Attraversarono le stanze, tutti e tre distanti dalle forme delle cose, volevano solo guardarle per un’ultima volta. Poi salirono sul lucernaio.

– Vieni, Azù. – disse Ester.

Feci brillare le luci della notte come un tempo, di blu, giallo, verde, rosso e poi, come quattro scintille lucenti, volammo finalmente via da spiriti liberi.

Elena Cirioni

Illustrazione di copertina di Riccardo Massagli

Editing di Piergiorgio Andreani