Spazitralerighe

Pedagni a mare

Mi sono impelagata in una bella impresa, penso. Dove bella fa il doppio gioco e in base a come mi sento significa prima che l’impresa è bella e poi che è difficile, o l’opposto; oppure mi dice soltanto che l’impresa è proprio un casino e come mi è venuto in mente. 

Mi è venuto in mente che per quanto difficilissimo penso sia necessario provarci.

Mi è venuto in mente che non provarci solo perché l’appiattimento da iperconnessione ipermedia ipersocial è ormai incontrollato non è una buona ragione e non ne trovo una abbastanza valida per non rischiare.

Eppure è vero, tremendamente vero: tutti in piattaforma siamo scrittori, tutti siamo poeti, tutti  critici. Piovono editor, direttori editoriali, traduttori, botanici, musicisti, falegnami, esperti di gin tonic, beta reader, punk inespressi, stagionalmente e comodamente marinai da maggio a settembre che poi fa freddo, fotografi e antropologi insieme, antropologi e sociologi social, esperti della storia di Roma est dopo dieci visioni di Accattone, esperti di barbecue all’americana, alla messicana, alla trapanese, alla turca. Poeti, tutti e nessuno.

Un inganno micidiale dotato di strumenti e armi potentissime in grado di lambire ogni millimetro di mondo ingoiandolo come un ineluttabile mind flayer. (Sì, per me Stranger Things è un immenso spazio poetico e non per quelle menate sul revival anni Ottanta.)

Dice, ah ma non stai parlando di poesia, stai facendo solo mosse, dov’è la poesia? Infatti, la domanda è questa, dov’è la poesia, e porsela in continuazione salva dall’appiattimento dove tutti sono tutto per paura di essere niente. 

Ma chi è poeta e chi vuole incontrare poesia saprà cercare altrove. 

Mi sono impelagata in questa impresa bellissima e difficilissima, dicevo, che mi fa gridare e inveire contro l’epoca in cui io stessa nuoto e contemporaneamente ammettere che un’unica cosa comunque sopravvive nel reale e scuote la bonaccia da schermo, ed è ovviamente lei. La poesia. 

I poeti e le poete che conosco, di persona e non, smuovono nella realtà montagne e generazioni tessendo fili di memoria e linguaggio fortissimi e pronti a farsi storia; usano, e anche per questo li amo, le piattaforme virtuali esclusivamente come si usava la bacheca del liceo su cui comunicare l’imminente assemblea, o la sintesi di quella appena finita: occupazione, dicono i poeti e le poete, di uno spazio di pensiero nel mondo, occupazione, compagni. 

I poeti e le poete che conosco, di persona e non, sono pronti a stupirsi nel confronto con i traduttori e da quel confronto ne escono sciolti in occhi lucidi e nuove poesie, scambiandosi i ruoli a velocità spaventose, i poeti si fanno traduttori e viceversa (su questo tornerò). E non possono fare a meno di cercare quel vero, reale, confronto.

Mi sono impelagata nell’impresa di cominciare una rubrica in cui si parli in qualche modo di poesia perché scrivo poesie, perché ho deciso di diventarne traduttrice, perché chi mi credo di essere, perché vorrei che in biró esistesse questo spazio in mare aperto poco comodo e poco certo (è uscita la rima, questo non fa poesia per forza), perché più il pelago è ampio e privo di comodi avvistamenti terrestri più mi dico che è giusto affrontarlo. 

La poesia è lontana dalla riva, se ne allontana per farsi coraggio lei stessa e si fa coraggio per riuscire ad allontanarsene. 

Mi è venuto sorprendentemente in aiuto Starnone per scrivere queste righe che leggeremo in tre, io che le scrivo, la caporedattrice e almeno una persona che mi vuol bene, mi è venuto in aiuto rileggendo quel suo diario sfrontato e irripetibile che è Ex Cattedra, sia perché rileggere è un atto poetico sia perché il preside della scuola di cui lo Starnone professore racconta è un puro rappresentante della paura di ciò che non si conosce, e lo manifesta puntualmente nei suoi rimbrotti ai docenti, esordendo tutte le volte con ‘Signori, non facciamo poesia’, per proseguire con un invito a materializzare, fare fatti, usare numeri, svuotare di pensiero, tenere solo a mente l’utilità. Perché, e per lui è un problema, ma è la sacrosanta verità, nella poesia non c’è niente di utile, per fortuna, dico io, e dunque, dice lui e dice il preside che alberga in molti, va scoraggiato ogni approccio alla vita che le somigli. 

Ma senza quell’inutile approccio l’umanità sarebbe ferma in porto, anche lui, il preside che fa la voce della ragione non avrebbe ragione di essere. Il preside non lo sa e non importa. L’importante è non ascoltarlo e continuare a migrare, scrivere, sperare, tentare di comprendere, fare poesia, signori.

Quindi, perché una rubrica?

È contenuto il rosso nella parola rubrica, un rosso editoriale, un rosso di terra, un’ocra rossa per indicare e decorare certe parti speciali della pubblicazione, un rosso che anche se oggi non è quasi più visibile nei volumi, è lì, nella parola e, soprattutto, nelle parole dedicate periodicamente a qualcosa di speciale. 

Ed è contenuto il rosso vivo del comprendere, inteso il capire e includere a un tempo, nella poesia, anche dove essa sia sperimentazione e cosciente gioco linguistico, ai sensi non si sfugge, specie oltre il quinto, a quelli si deve la salvezza che la poesia riserva, perché la andiamo cercando come pedagno a mare, quel punto di interesse in uno spazio immenso, quella posizione nostra nel mondo.

Su questo rosso pulsante di ricerca e su queste boe che ricordano punteggiature danzanti è viva la poesia, quella di ieri e quella contemporanea, quella segreta, quella dialettale, giocosa, quella politica e quella fra le righe. Quella nei bianchi silenzi circondati dai versi, di cui Ana Blandiana ci offre ampiamente manifesto e necessità. 

Su tutto questo è per me tessuto questo spazio dalla cadenza incerta e dalla difficile ma non evitabile resa. Parlo per me? Parlo per me, infatti cerco la prima persona che fin qui ho più o meno trovato e che in redazione ci è tanto cara, ma poi so, ecco la boa, il pedagno danzante che dice la mia posizione nel mondo, che ogni poeta fa della prima persona il mondo; fa, senza subirne la perdita, dell’io il tu, il loro, il noi. La poesia parla per me, la poesia naviga e nuota nella speranza di riuscirci, un domani.

Quindi, cosa succederà qui.

Qui il mare è aperto e voglio che si possa nuotare cercando pedagni altrui, sparsi e disseminati con la funzione di luoghi di interesse, luoghi poetici da indagare. Senza una regola, se non quella che è nel titolo, lo spazio tra le righe, dove la riserva di ossigeno, la possibilità di approdo e comprensione sia possibile. (Sì, potete inviare poesia, avrete istruzioni su questo).

Gli eventi.

La poesia è mondo carsico e bisognerà pur riconoscere che il suo essere carsico è la sua stessa forza. La poesia vive di concessive, di nonostante, di ritratti dell’indicibile che solo lei riesce a dire. Tutt’intorno, per avvicinarla, raccontarla, a volte per difenderla in modo ingiusto, altre doveroso, per operarla a cuore aperto o solo ingaggiarla davvero e finalmente come mezzo di fortuna, di grande fortuna, le vengono dedicati e costruiti contesti. Capita purtroppo che le vengano montate dorate e pesanti cornici di inarrivabilità, deteriori e borghesi, impregnate di antitarme dove tarme sono tutti quelli considerati indegni; o che le vengano accroccati addosso instabili telai di legno marcito non per richiamare l’attenzione sul suo senso, il che sarebbe partigiano, ma per sporcarla e impoverirla e dire ‘io non vedo più la realtà, quindi la poesia sia cieca come me’. 

Ma spesso i contesti sono anche trame cucite bene.

Pochi giorni fa si è celebrata la giornata mondiale della poesia – che cade il 21 marzo preceduta dall’imprescindibile giornata mondiale della felicità il 20 marzo e seguita dalla giornata mondiale dell’acqua il 22: bisognerà cercare di trovare un senso a questa triade, felicità-poesia-acqua – ed è senz’altro motivo di miste e contrastanti emozioni, dalle più generiche, sulla reale necessità della giornatamondialediqualcosa, alle più specifiche, sul come venga celebrata una giornata dedicata alla poesia.

Gli eventi sparsi sono stati molti, e a Roma si è svolto un incontro speciale al Goethe Institute, sede eletta per l’occasione da Eunic, la rete europea degli istituti di cultura. 

Perché dico speciale. Perché era presente una delle più importanti e significative voci della poesia contemporanea rumena e ho potuto incontrarla e parlarle? anche. Perché erano presenti poeti da quasi tutta l’Europa e l’evento si intitolava Europa in versi? anche. Perché l’evento consisteva in un reading nelle lingue originali dei rispettivi poeti ospiti e quasi mai quelle lingue erano comprensibili a tutti i presenti? Ecco, soprattutto per questo. Perché nonostante le apparenti distanze tra lingua polacca, portoghese, lituana e italiana, rumena e ceca, slovena e spagnola, tutto era comprensibile a tutti. Certo, su un grande schermo alle spalle dei poeti che leggevano, scorrevano simultaneamente le traduzioni in italiano, non verso per verso ma pagina per pagina, ciascuna prodotta dal traduttore o dalla traduttrice ufficiale di quel o quella poeta, ma non è questo che ha reso possibile la comprensione. La poesia stessa è stata, perché è, lingua veicolare. 

Ho chiuso spesso gli occhi, senza seguire le traduzioni su schermo, sfidando la difficoltà di capire e cercando di trovare un punto da cui entrare in questo codice di tutti, e il suono di molte parole sconosciute si è spiegato da sé vibrando in quegli interspazi, in quegli spazi bianchi di cui dice Blandiana, generando il senso. Accanto a me un uomo bellissimo si è commosso, alla mia destra un tizio, ubriaco e maleodorante di vino scadente, mormorava e disturbava: il primo ha vissuto l’interspazio, ha capito pamięć senza conoscere il polacco, ha sussultato su vis, che in rumeno è sogno, ha cercato corrispondenze nella traduzione simultanea che era chiamato a fare, ci è riuscito. L’altro tizio, a parte rischiare una gomitata da parte mia, dalla poesia, dall’universale, era terrorizzato: lui era un po’ l’utilitarista e disagiato preside di Starnone. 

La trama di questo contesto era cucita talmente bene che a fine serata, in una trattoria per ricchi, è nata un’accesa discussione, di quelle che per ragioni opposte piacciono sia ai costruttori di cornici dorate che ai robivecchi che incollano telai con lo sputo per ricordare a tutti che non è possibile fare meglio; né degli uni né degli altri era presente alcun rappresentante radicale, un paio forse più vicini alla prima tendenza ma ancora puri, non così pronti a blindare ma senz’altro a brindare. Eravamo un manipolo molto vario di esperienze anche lontane, traduttori in formazione, formati, docenti, operai scrittori, poeti, musicisti, bambini. Tutti lì per la poesia. Il nocciolo del reattore che poi è esploso era il seguente: è giusto insegnarla? spiegarla? fare domande agli autori? incentivarne la produzione? cominciare dalle origini? dalla fine? eliminare le avanguardie o farle combattere con(tro) le neoavanguardie? questi nomi non sono in fondo troppo bellici, sarà il caso di finirla? 

Mentre il dibattito cresceva, di nuovo ho pensato a quei poeti che conosco, di persona e non, che smuovono le montagne tessendo fili di memoria e linguaggio fortissimi e pronti a farsi storia; a quelli che fanno poesia nelle scuole di ogni grado a partire dal primo, con laboratori che non insegnano poesia ma la mantengono possibile tirandola fuori, lottando contro famiglie di corniciai dorati o di robivecchi falliti, mettendo quel tanto d’acqua ai semi già presenti per nascita, e germoglianti. Giusto per dire, questa pianta può crescere, non dar retta a chi dice il contrario.

Ho pensato a quei poeti che non hanno tanto tempo di dirsi poeti in un mondo virtuale ma spendono l’intera vita a nuotare in quel mare carsico, a scrivere, a sentire l’urgenza, a toccare gli altri e a farsi toccare, nella realtà. 

Penso alle loro scrivanie, alle finestre socchiuse, al computer sulle ginocchia, sul letto, penso ai posaceneri pieni, di tutti i poeti e le poete presenti al Goethe. 

Le loro gatte a cui è dedicato sempre almeno un verso, il telefono nel corridoio di un appartamento a Varsavia e lo studio piccolissimo; un tavolo in fòrmica e un fracasso di clacson e sirene, bambini che piangono e padroni di casa che pretendono. 

Scrivanie sui treni o lungo le strade perché la città è in macerie, o nei boschi di Sardegna. 

Ho violato il loro intimo spazio, sono entrata nelle loro stanze, spuntando da dietro uno stipite, e di ognuno di loro ho visto un pedagno a mare 

un punto non segnato sulla carta nautica, 

perché si muove sempre, 

accoglie, lascia, trasforma. 

Ci vediamo tra due mesi. Così, senza una ragione né un’utilità.

Chiudo con questi versi di Ana Blandiana tratti da Racconto (Poveste), nella raccolta Un tempo gli alberi avevano occhi (Donzelli, 2004), nella splendida traduzione curata da Biancamaria Frabotta e Bruno Mazzoni: 

Avanzo con cura, lentamente,

lungo un sentiero

che traccio io stessa

passo dopo passo:

per poter tornare,

lascio cadere dietro di me

briciole di lettere e parole. […]

Elena Chiattelli