racconti

Assunta e Zeffira

Come molti bambini italiani ho avuto due nonne di cui, per fortuna, non porto i nomi: Zeffira e Assunta. 

Per quanto provi a ricordare, mi tornano alla mente solo le differenze fra di loro. Le stesse che, ai miei occhi di bambina, le caratterizzavano come dee mitologiche oppure inarrivabili esseri ibridi.

Zeffira era sempre la più elegante quando mi aspettava all’uscita di scuola. Piccola e magra, profumava come una signora. Non mi sorrideva mai davanti a tutti e non mi dava baci, in compenso mi sistemava i capelli e i vestiti. A denti stretti, mi diceva – Dritta con la schiena! 

Quando camminavamo in paese, salutava pure le signore che non la vedevano: – Rita buongiorno, come sta mamma? Sono uscite bene le analisi? – Poi, dopo qualche minuto, si defilava. Ogni volta pareva che avesse fretta di arrivare da qualche parte, eppure stavamo sempre a casa. 

Se non le andava di ottemperare ai doveri di signora, sulla via del ritorno facevamo un giro largo passando per le strade di campagna. Lungo il tragitto c’era la fattoria dove viveva, che adesso è solo un rudere. Con tutti i tacchi e il foulard, si addentrava fra le ortiche e i denti di leone – come da piccola, diceva lei –, e quando era al riparo dallo sguardo dei passanti riempiva un paio di buste di fichi e melograni. 

Se vedeva un bel fiore, lo coglieva e me lo dava. Mi diceva: 

– Lo vedi questo, che bello che è? Ecco, tu sei come questo fiore, perché nonna ti coltiverà.

Assunta aveva le gambe come due tronchi. Le calze di nylon le scendevano sotto il ginocchio e vestiva sempre di nero, come neri erano i suoi capelli, corvini nonostante l’età. Casa sua puzzava di soffritto ed era gelida, perché non aveva i termosifoni. Al contrario di Zeffira, viveva da sempre nel centro del paese e lavorava, faceva la giornalaia. Trascorrevo la domenica mattina nel suo negozio, a leggere i titoli accatastati su certe mensole polverose. Alcuni erano di quattro o cinque anni prima, altri mi sembrava contenessero cose da grandi, un sapere esoterico o incomprensibile. Sparire in mezzo a tutta quella carta era uno dei miei giochi preferiti, finché non contemplava la parola. Quando entrava un cliente, nonna Assunta mi chiamava: 

– Oe’! È entrata la signora. Come si dice? – faceva lei, indicandomi all’avventrice. Umiliata e vergognosa, biascicavo:

– …’ngiorno. 

Ma lei incalzava: – Cchiù forte! Questa guagliona è proprio maleducata.

Poi, mi mandava a dare le lische di pesce ai randagi. Prima di tornare a casa per il pranzo, mi prendeva da parte e mi metteva in mano una banconota da mille lire. – Mi raccomando – diceva – torna la prossima settimana.

Ogni tanto, le si bagnavano gli occhi.

Quando arrivava il giorno del mio compleanno, mia madre organizzava una festa in casa, senza pretese. All’epoca vivevamo nello stesso condominio di nonna Zeffira, perciò a lei spettava l’onore e il buon gusto dell’allestimento: la scelta di piatti e bicchieri di carta, il menù per grandi e piccini. Naturalmente io non avevo potere decisionale su nulla, tranne che sulla composizione della torta che richiedevo fosse sempre imbottita di cioccolata. 

Nonna Assunta non partecipava alla preparazione, ma era invitata. Lacrimosa, implorava baci e stava perlopiù in disparte, mentre nonna Zeffira intratteneva i presenti con le ultime dal paese. Dopo il rituale delle candeline, ero obbligata a scattare foto con tutti i presenti e, da bambina insofferente quale ero, gli abbracci dei parenti mi paralizzavano. Ma ciò che accendeva il fuocherello di scomodità nel mio petto era quella domanda di nonna Assunta, quando mi prendeva in disparte:

– Ma tu vuoi bene a nonna? 

Io sapevo solo di dover rispondere di sì, e così facevo. 

Nonna Zeffira, invece, alla fine della festa mi chiedeva sempre: 

– E che ti ha detto Nonna Assunta? 

Io rispondevo solo che non mi aveva detto proprio niente. 

In quei momenti, imparavo l’arte di compiacere e di dimenticare come esprimere i miei sentimenti. Né Assunta né Zeffira me l’insegnarono mai a parole, sempre con i gesti. Ero una studentessa modello e imparai così bene che divenni un’esperta, il fiore all’occhiello di tutte le nonne del mondo. Più la padroneggiavo e più ero costretta a praticarla; diversamente, avrei dovuto correre il rischio di sentirmi, ai loro occhi, inadeguata. 

Zeffira e Assunta si conoscevano da sempre perché avevano la stessa età, ma non sono mai state amiche e non si sono mai piaciute. Spesso mi sono chiesta perché quando parlavano l’una dell’altra lo facessero con un riserbo quasi morboso, come quello di chi condivide un segreto. Ma non ho mai avuto il coraggio di chiedere a loro, se esistesse davvero un segreto. Così, dopo che sono morte, non ho fatto altro che cercare ovunque. Nei comodini, tra gli album di fotografie e i portagioie, nelle cantine e nei sottotetti, persino nei doppifondi dei mobili. Ogni volta che mi trovavo a casa di un parente non riuscivo a trattenermi, sgattaiolavo fra le stanze e mi mettevo a cercare. I miei cugini minacciarono persino di denunciarmi, se mi fossi fatta vedere ancora. 

Volevo svelare un mistero, trovare un peccato inconfessabile. Bramavo una macchia, qualcosa che mi spiegasse il loro essere. Ma non ho mai trovato niente, se non qualche vecchia borsetta e una dozzina di foto sgualcite. Nonostante senta di sapere così poco delle mie nonne e ricordi soltanto le loro differenze, sembra che quello che so corrisponda alla realtà.

Quindi, mio malgrado, devo arrendermi al fatto che le macchie sono solo su di me, e che l’unica persona a dover spiegare il proprio essere, a questo punto, sono io. Dev’essere per questo che ho iniziato a lavare qualsiasi cosa, di continuo e senza ragione. I miei vestiti, soprattutto, e le mie mani. Non è dello sporco né dei germi che ho paura, come tutti pensano, no: io voglio essere senza macchie. Essere una dea, come Zeffira e Assunta. 

So bene qual è la verità e devo convincermi che quel segreto che cercavo non è mai stato un segreto: era solo il rispetto tipico di chi aveva condiviso una parte di mondo che non c’era più. A me, però, di loro, rimangono ancora le differenze. 

E le macchie, dottore, mi dica lei: può insegnarmi a dimenticarle?

Maria Teresa Renzi Sepe

Editing di Elena Chiattelli