racconti

Il talismano (sei gradi di separazione)

Ero regina in un’epoca remota, avevo un talismano – pietre preziose incastonate in una collana di bronzo, fuso con una tecnica tanto nuova da dare il nome alla nostra età –, attirava su di me fortuna, amore, potere, ricchezza e prosperità per il mio popolo, faceva crescere il grano, favoriva la caccia, e io ero venerata come una divinità, la dea della rinascita, sedevo sul trono da molte primavere e ogni anno si compiva il miracolo, ogni volta ringraziavo il talismano con un rito magico che lo potenziava, così ordinai che me lo lasciassero addosso una volta giunto il tempo della mia sepoltura, nella speranza che riuscisse a far rinascere anche me, perché non ero una dea, ero fatta di carne e

ossa, 

sì, carne e ossa, 

mi chiamavo Teodora e non ero neppure nata regina, anzi, ero di umili origini, avevo lavorato in un circo, ero stata un’attrice, e di conseguenza una prostituta, avevo avuto un’adolescenza avventurosa, ma già a quel tempo avevo un amuleto, l’avevo fatto con le mie mani, semplici fili di canapa intrecciati, lo indossavo intorno al collo, proteggeva il sangue e il fiato, i due fratelli necessari alla vita, poi mi ero convertita, quindi si era innamorato di me Giustiniano, ne ero diventata la moglie, imperatrice cristiana di Occidente; per quasi vent’anni ho tenuto nelle mie mani un impero, ne ho tessuto le trame, fili politici di uomini intrecciati fra loro, circonfusa d’oro nella mia reggia a Ravenna come nei mosaici in San Vitale, sapevo che avrei vissuto in eterno in quei mosaici, 

e così è stato, 

e mille e quattrocento anni dopo ero Adele Bloch-Bauer, giovane aristocratica ebrea insofferente all’ambiente viennese nonché modella prediletta di Klimt, il grande maestro che a quegli stessi mosaici si ispirò dipingendo Giuditta che ha appena sgozzato Oloferne, mentre io posavo di fronte a lui, viva e nuda e bellissima, viva ancora per poco – purtroppo –, ma io questo non lo sapevo e non c’è preoccupazione nel mio sguardo, solo malìa, quel fascino che portò la vedova ebrea a salvare il suo popolo seducendo e decapitando il generale nemico, così racconta la Bibbia, anche lui avrebbe fatto bene a portare al collo un talismano al posto di quell’orrendo squarcio sanguinolento, ma nel quadro di Gustav del sangue non c’è traccia, sono io l’unica protagonista, il mio volto, i miei capelli, il mio seno e l’oro che mi veste e mi circonda, 

sì, mi sentivo una regina, 

lo ero davvero, 

da ragazza, 

da giovane, nella mia terra fra il Tropico e l’Equatore, 

mi chiamavo Anta Madjiguene Ndyaye,

ma avevo perso il mio potere nel momento in cui mi avevano catturato e mi avevano fatta schiava, tenuta al guinzaglio con una catena di ferro, deportata dall’Africa, la mia terra, all’America, la loro terra, per lavorare nelle piantagioni di cotone, stuprata, picchiata, sfruttata dai padroni e da altri maschi, da tutti i maschi tranne uno, l’uomo che diventerà mio marito, ma solo dopo cinque anni di

inferno, 

inferno,

inferno, 

solo l’amuleto che portavo al collo ha impedito che diventassi uno di quegli strani frutti che marcivano impiccati sugli alberi, come cantava Billie Holiday, 

e poi, 

nemmeno tanti anni dopo, 

ero io Billie Holiday, 

vestita da sposa senza per forza aver preso marito, una gardenia fra i capelli, in piedi su un palco, la band dietro di me, sotto gli occhi di tutti con la mia voce e il mio essere tossica, il mio passato a lavorare in un bordello e l’intima speranza di poter camminare anche solo per pochi minuti sul lato soleggiato della strada, magari senza i poliziotti alle calcagna, ma in fin dei conti cosa importava, che mi seguissero pure, che venissero ad ascoltarmi cantare, che applaudissero anche, per puro divertimento o per mimetizzarsi nel pubblico, la musica mi avrebbe comunque resa libera, 

la musica, 

l’arte, 

la letteratura, io ero Auxilio Lacouture e consideravo la poesia come un amuleto che mi avrebbe protetta mentre me ne stavo chiusa nei bagni dell’Università di Città del Messico durante l’irruzione dell’esercito del 18 settembre 1968, io difendevo l’autonomia dell’università messicana resistendo all’invasione dei militari fascisti, per tredici giorni ho occupato da sola la facoltà, o almeno un suo bagno – andavano di moda le occupazioni nel Sessantotto, e io mi sentivo così à la page –

altre forme di protesta vanno di moda oggi, 

e io sono Beatriz, una ragazza di Ultima Generazione che ha appena imbrattato Giuditta I di Klimt, con una vernice lavabile, e so che si leveranno grida di scandalo per la tempera e non perché il mondo sta morendo – uffa il riscaldamento, uffa la CO2, diranno –, ma a me non preoccupa il biasimo, vengo biasimata da millenni, calunniata, invidiata, criticata, e non c’è libro di storia che non dica di Teodora che era bella, ma nessuno dice se Giustiniano fosse bello, che Anta Madjiguene Ndyaye era bella, ma nemmeno una parola sull’aspetto di suo marito; ebbene io non sono bella, e qualche psicologo televisivo sosterrà che è per invidia che ho imbrattato la bellissima Adele Bloch-Bauer, ma come posso invidiare un’altra donna, io sono Adele Bloch-Bauer, io sono Anta Madjiguene Ndyaye e sono tutte le donne vissute, un filo ininterrotto mi lega a loro e alle migliaia che mi hanno preceduta, perseguitate o adorate che fossero, e questo filo, 

che porto intrecciato al collo, 

è il mio talismano.

Giovanni Locatelli

Editing di Elena Chiattelli

Illustrazione in copertina di Chiara D’Onghia