
Verso mezzogiorno
Passa da me.
Vorrei salutarti.
Messaggi da papà. Il vetro si è illuminato: flash di una macchina fotografica – ho fatto appena in tempo a leggere. Sul computer si sta concludendo un film d’epoca, avanguardia démodé. Nel finale, un uomo schiaffeggia un suo amico perché si è presentato senza abito al suo matrimonio – la telecamera segue la traiettoria della mano come se ci fosse attaccata. Termina col buio, obbiettivo coperto dalla guancia dell’inetto. Mentre i titoli di coda strisciano dal basso verso l’alto sullo schermo nero, lo sposo bestemmia.
Stronzo, scostumato, gli dice.
Dopo mezz’ora il telefono vibra di nuovo.
Potresti venire per pranzo.
L’ultima volta che sono andato a trovarlo è stato a maggio. Ricordo il primo caldo:
– Pranziamo in giardino – aveva detto. Mi chiede sempre di pranzare insieme, e quando non è in programma è casualmente libero solo la mattina.
– A questo punto rimani, ti preparo qualcosa in un quarto d’ora – suggeriva infine, costringendomi al convivio.
In giardino aveva un gazebo; aveva piantato delle rose rampicanti così che, scimmie, si inerpicassero sui rami in metallo della struttura. Era un tempio: il tavolo al di sotto, il suo altare. Gli arrosti, la pasta, il pane venivano sacrificati lì sopra durante l’estate. Il vino sgorgava dalla bottiglia mutilata.
Le roselline erano cresciute e avevano coperto la struttura intera. All’epoca erano già sbocciate. Aveva preparato la pasta al forno. Ci teneva a raccontarmi ogni volta la ricetta.
– Mia madre la faceva così, non ho mica inventato nulla – aveva detto. Poi l’aveva divisa equamente in due porzioni.
– Il lavoro va bene? – aveva chiesto dopo qualche minuto di silenzio.
– Sì – avevo risposto.
– Nadia?
Avevo nascosto la risposta dietro altri bocconi.
A fine pranzo siamo rimasti sulle sedie a goderci l’ombra. Si era spostata durante il pranzo; il palazzo copriva il sole, lo silenziava. Era passato un vicino. Investigatore, ci ha guardati da lontano per qualche momento, poi si è avvicinato.
– Bella la vita con questa ombra, vero? – aveva domandato da dietro la siepe – bosso basso tutto intorno alla sua parte di cortile. Non riuscivo a non trovarci dell’invidia.
– C’è già troppo caldo – aveva risposto mio padre – Se continua così, accendiamo il barbecue senza accendino.
Battuta pessima, logica zoppicante. Ma non fra specie simili come loro due. Il vicino aveva riso.
– Avete pranzato insieme? – aveva chiesto – Pranzetto fra padre e figlio?
– Sì, facciamo fatica a vederci, quando ci riusciamo proviamo a impegnare il tempo nel miglior modo – aveva continuato mio padre indicando il tavolo – posate sporche, due piatti e poca pasta rimasta.
Mi aveva appoggiato una mano sulla spalla, mandando un sorriso imbarazzato al vicino – il sudore aveva impregnato la camicia, lasciando l’impronta della sua mano: un marchio bollente.
– Sei fortunato – aveva risposto.
– Da quanto non vedi tuo figlio? – aveva voluto sapere papà – O tua figlia; non ricordo.
– Non ne ho – aveva sorriso alla strada, – Vorrei poterlo aspettare.
Appena sveglio rispondo ai suoi messaggi.
Arriverò verso mezzogiorno, digito.
Una mattina gli avevo scritto lo stesso messaggio, ma Nadia era implosa in una scenata, comportamenti reiterati: era uno spegnersi, il suo, in quelle situazioni; io, limaccia, non avevo ossa con cui reggermi in piedi di fronte a lei, né guscio. Solo antenne, organi di percezione primitivi, ma sensibili a sufficienza per sentire il pericolo.
–Vieni da me o troverai una donna morta sul selciato la prossima volta – mi aveva detto al telefono. Rilasciava queste sentenze dopo silenzi lunghissimi – grattacieli nella pianura.
Ero corso a casa sua senza nemmeno avvisare papà. L’avevo trovata seduta sul letto, mi dava le spalle. La camera, finestre abbassate e luce spenta, ingabbiava il buio appena oltre lo stipite della porta come se questo non potesse uscire, superare il varco. Lei in penombra – qualche gioco di chiaroscuro ne descriveva la forma a clessidra della schiena. Accettando la cecità, ero entrato col passo sicuro e calcolato della preda. Mi sono seduto dal lato del letto opposto al suo e lei si è sdraiata in una posizione che invitava all’abbraccio.
Siamo rimasti abbracciati fino alle due di notte, non abbiamo dormito. Solo dopo sono andato da mio padre. Mi ha aperto la porta in vestaglia.
–Ti preparo un piatto di spaghetti – aveva detto.
Avevo ancora le chiavi di casa di papà. Me le aveva date da quando era morto il nonno di attacco di cuore. Papà era entrato in casa, aveva chiamato ad alta voce Papà, poi il suo nome, non aveva ricevuto risposta, lo aveva cercato in cucina, in bagno, sul terrazzo, improvvisamente microscopico fra le pieghe del divano. Ma lo aveva trovato a terra, livido e rigido, prostrato ai piedi del letto come una scultura in preghiera.
Si era spaventato e aveva iniziato a fare discorsi da vecchio, di volersi trasferire a Tenerife, IVA dal 7 al 13%, su un suo amico che aveva già scritto il testamento dove donava tutto alla curia, e un altro che era morto e lo avevano ritrovato sul letto col pappagallo tra le mani, ma le lenzuola umide. Se n’era accorto solo in quel momento, di quello che capitava intorno a lui.
Mentre mi tolgo le scarpe, lo chiamo dall’ingresso per avvisarlo che sono arrivato. Di solito risponde con Arrivo! e segue il suono tenero delle pantofole che accarezzano il marmo. Ma non risponde – la mia chiamata è un’eco nelle stanze.
La cucina è vuota; solo due pentole sono sui fornelli, chiuse da coperchi troppo grandi. Una goccia di condensa cade dal lato di un coperchio componendo una poliritmia disturbante sul piano cottura rispetto al ticchettio del pendolo in salotto; cercare un ordine nei battiti è semplice, ma dà una sensazione di spaesamento – preso un punto di riferimento, l’altro battito risulta fuori tempo.
Camera sua è ancora buia: persiane abbassate, luce spenta, l’odore è ancora quello stantio del sonno, letto disfatto da un solo lato – l’altro è ancora perfetto. Il messaggio sul cellulare non è ancora stato visualizzato. Nella camera, il buio si attacca alla pelle: la rende più scura, un tessuto grigio. Il cuscino conserva il calco della sua testa ed è ancora tiepido. Manca anche la sua giacca, di solito appoggiata come complemento d’arredo alla poltrona nell’angolo. Deve essere uscito, scappato per nascondersi, cane vecchio, mentre muore.
Alla mattina esce per andare in panetteria. Prende tre rosette che gli durano fino a sera, il resto lo dà ai piccioni; lo butta, sbriciolato, in un angolo del cortile in cui non cresce l’erba. Ma questa camera vuota, un cubo oscuro, il silenzio cavo in cui rimbomba la mia voce, e la risposta mancata – questo è ciò che rimarrà quando morirà anche lui.
In cucina tiro fuori dal cassetto due coltelli, due forchette; dal mobile, due bicchieri, due piatti fondi e la tovaglia bianca, ricamata da qualche anziana almeno cinquant’anni fa. Accendo il rogo sotto alla pentola, strega, che papà ha già riempito d’acqua. Nel corridoio, la serratura del portone freme, rumoreggia, ruota – sembra un’arma carica. La porta, una canna di fucile; papà, un proiettile affaticato. Un profumo tiepido di pane arriva fin qui.
Fabrizio Pelli
Editing di Silvia Penso

