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Distopia pop. Una distopia non troppo distopica

Mi aggiravo tra gli scaffali della libreria cercando un testo che instillasse leggerezza, perché il mese di gennaio mi mette malinconia, di cosa poi chissà. E ho sempre freddo. E vivo a Roma, come faranno nella Tundra? Mah. È così che ci siamo trovati, anche se già conoscevo lui, il libro, Distopia Pop, e lei, l’autrice, Francesca Guercio. Il titolo assicurava allegria. Così ce ne siamo andati via insieme fino alla mia poltrona di lettura. Siamo stati qualche giorno mano nella mano e lui mi ha fatto ridere mantenendo la promessa, ma non sempre, perché, dietro l’ironia e certe frasi sardonicamente polemico-lapidarie della protagonista, il libro ha anche una missione: palesare la deformità del modo in cui abbiamo organizzato il reale, l’illogica incongruenza delle forme e delle norme attraverso cui fruiamo della vita sociale.

Francesca ha costruito il romanzo su tre piani narrativi. La Cronografia è il piano della realtà: qui seguiamo le vicende di Clotilde, il personaggio principale, nel dispiegarsi del suo quotidiano, le siamo vicini mentre si districa trafelata tra i vari lavori precari cui attende, ci immedesimiamo negli amori saltuari, assistiamo con piacere agli incontri con le amiche, voyeur rapiti ascoltiamo i dialoghi intelligenti e allegri. In Un altro piano si svolgono gli episodi con attori gli alieni, i quali, organizzati in comitati, devono decidere le sorti dell’umanità, votare se annientarci o meno analizzando le nostre canzoni pop. Infine, c’è un altro livello ancora, personale, interiore, di grande forza e poeticità, Corsivo ortogonale, che l’autrice, quando glielo chiedo intervistandola, definisce contingenza d’attrito, e approfondisce spiegando che “sbattere contro una gabbia prima o poi scaturisce in desiderio e coscienza d’ali ma prima che questo accada produce molto, molto dolore. Il risultato di quel dolore è il Corsivo ortogonale ed è un inserto che all’interno del libro trasforma le lettere in movimento di versi: è il commento, forse il coro interiore.

Queste tre dimensioni si alternano dal punto di vista narrativo e mantengono uno stile che in parte si differenzia aderendo peculiarmente al piano che di volta in volta si dispiega. Del resto, un punto di forza del romanzo è la scrittura, coltissima, raffinata – mi esalta leggere parole come obsolescenza o mesmerico – , non c’è nessuna frase scontata, si gode delle parole singole, mai ovvie. Sulla pagina è trasposta una prosa ricercata ed elegante. Questa espressione linguistica prende avvio dalle caratteristiche del personaggio di Clotilde, storica dell’arte, donna colta, forbita, e da lì crea il registro. È spassoso seguire i suoi dialoghi e la narrazione spiritosa della sua vita, inoltre i discorsi non sono mai lapalissiani, anzi, spesso si mette alla berlina la banalità di certe usuali ritrite querelle sui massimi sistemi e se ne smaschera la piaggeria, l’ovvietà. Attraverso le parole dei personaggi si pongono dei nodi riflessivi, come per l’uso ormai piatto della lingua che, come dice Clotilde, da “veicolo di informazione sta divenendo strumento di uniformazione” e si sta conducendo “Un abuso progressivo. Uno stupro reiterato e scientifico all’universo piccolo-borghese volto a ottenerne l’asservimento beota”. Ugualmente il pensiero, che si spoglia sempre più della sua complessità facendosi acritico e semplicistico, tanto che “Ogni accadimento invece di diventare spunto poliedrico per confronti, riflessioni o almeno solipsistiche elaborazioni intellettuali viene rapidamente ridotto alla sua formulazione più semplice e trasformato in materiale bidimensionale. Da un lato la verità di qualcuno – singolo o gruppo, corrente politica, club religioso – , dall’altro lato la verità di qualcun altro”. Insomma, un vuoto ping-pong, uno scambio privo di dialettica e raziocinio critico. E i nostri cervelli al macero.

Per fortuna ad alleggerire il contenuto meditativo interviene l’ironia: nei dialoghi divertenti, nella comicità della protagonista stessa che usa il linguaggio disponendolo in modo da costruire molteplici passaggi sarcastici, parentesi umoristiche e staffilate di caustica, dileggiante verità. Solo dietro la sapiente mordacità e il procedere scorrevole della storia emergono le riflessioni intelligenti e sagaci sulla nostra realtà, sul modo in cui concepiamo noi stessi e l’altro, sulla foggia che abbiamo dato così arbitrariamente al microcosmo umano “Così, giusto perché un esemplare di homo sapiens nella notte dei tempi ha cominciato a strutturare la quotidianità secondo schemi con i quali ormai ci sembra ovvio convivere anche se sono del tutto irragionevoli” e “Abbiamo inventato un mondo nel quale il petrolio è moneta corrente, l’oro è un metallo pregiato, i diamanti sono pietre preziose e l’Africa è un paese povero”. 

Il romanzo possiede la peculiarità di Giano: ha due volti. È spassoso, perché gli inserti di denuncia sono incastonati in conversazioni pungenti, osservazioni sottili o racconti derisori, e insieme il libro fa pensare, in quanto, non troppo celate, contiene consistenze terribili, a cui pur ci siamo abituati, e non risparmia nulla, include tutto, dal mondo del lavoro alle ingiustizie sociali, dalle disuguaglianze planetarie allo sfruttamento dei continenti poveri, all’incuria verso il pianeta che si sta spegnendo sotto il carico del nostro indifferenziato lerciume, le nostre plastiche, l’indifferenza delle ciminiere. Non sembra sia la nostra casa ma una discarica, come se noi all’occorrenza si possa prendere una navicella e scegliere un altro globo da sozzare. 

Per esternare questo suo poco eufemistico disappunto l’autrice ha trovato un modo originale valendosi della finezza linguistica, delle parole usate in senso umoristico e tramite l’invettiva beffarda. Mescolando tutti questi ingredienti quel che ne viene è un libro piacevole da leggere e dotato di spessore. Infatti, quando nell’intervista dico a Francesca che Distopia pop tanto distopico non è, che si rivela un libro di pensiero e di accusa, lei mi risponde che è soprattutto un romanzo di denuncia! Intanto, contro un certo modo caotico, irrelato e superficiale di abitare il mondo e di leggerlo. Contro i luoghi comuni cui aderiscono con troppa facilità anche quanti potrebbero denunciarli e decostruirli

E credo ci sia anche di più, poiché attraverso certi scambi esilaranti o certe tirate della protagonista ciò che si delinea è un mondo fatto male, non a misura d’uomo, a fattura forse di una certa umanità ben agiata, un consorzio distorto dove regna l’ingiustizia, la barbarie, l’ignoranza e non servono poi molto i nostri minuscoli atti quotidiani se non a placare la coscienza dei coscienti. Dice Clotilde: “Posso chiudere il rubinetto dell’acqua mentre mi lavo i denti. Posso inventarmi modi saporiti per utilizzare le croste di pane indurito invece che buttarlo nella pattumiera. Posso togliere la guarnizione interna al tappo dell’olio in modo da riciclare da un lato la plastica e dall’altro l’alluminio” e continua “Posso consumare lo stretto indispensabile” ma poi “mentre io risparmio mezzo litro d’acqua ogni volta che mi insapono, dalle condotte fradice innestate nella pancia della terra che le amministrazioni pubbliche trascurano ne colano via ettolitri”. Qual è la strada per fuggire alle contraddizioni infinite della nostra vita? E come possiamo resistere a “creature smontate dalla fame, di cuori sbertucciati in nome del capitale, di ginocchia piegate per una miserabile carità di monetine, di sorrisi inverosimili scuciti dal patchwork duttile di un campo profughi e di pianti a gettoni rammendati sul canovaccio prevedibile dei reality show, di anime in fuga sperperate tra la Libia e l’Italia, di manifestanti pacifici violati a sangue dal potere, di culi venduti al miglior offerente, di banche centrali e umanità marginali, di carne mangiata dal litio e dal cadmio dei bambini africani che giocano su montagne di telefoni cellulari trasformati in spazzatura da un occidente che ha fretta di buttare”? “Fingiamo di ululare, di abbaiare, fingiamo di strattonare la catena, di provare indignazione, di andare a votare, di condannarci perché non lo faccia la storia”. 

Insomma, Mad World cantavano i Tears for Fears; invece l’autrice, a proposito del sistema antropico, mi racconta raccontandosi: In questo periodo sto rileggendo alcuni saggi di Jung e appena ieri sera mi sono trovata davanti quest’affermazione: «esistono senza dubbio individui i quali, in ultima analisi, non sono completamente adatti a vivere». Bene, ho buone ragioni per ritenere d’essere ascrivibile alla cerchia! È chiaro poi che il sistema elaborato dallo stesso Jung costituisce una testimonianza formidabile del fatto che una certa qual inadeguatezza alla vita dipenda non tanto da inettitudine o manchevolezze dei singoli quanto piuttosto da una costruzione stolida e, direi, mutila, dei sistemi societari. I quali prevedono invariabilmente che le forme della vita debbano esprimersi all’interno di perimetri angusti, inderogabili, rispondenti a principi di ragionevolezza che pretendono di escludere l’Ombra.

So di essermi sempre sentita fuori misura per le dimensioni prescritte dal sistema di norme che regolano l’esistenza e mi rendo conto che – con sofferenze e modalità variabili, a seconda delle diverse fasi della mia evoluzione umana e spirituale – la fantasia è una buona compagna per ricapitolare l’empirìa.

Come darle torto. E a proposito di sistemi stolidi e mutili non si può non parlare del lavoro. Clotilde ne svolge più d’uno, alcuni li porta avanti per passione, quelli che pagano lo fanno poco e male. Quando chiedo all’autrice qualcosa di più sul tema, lei risponde argutamente riferendosi in particolare a chi è impegnato nel campo artistico e letterario, materie ritenute sin dal periodo scolastico immotivatamente di serie B, poco importanti per la vita futura degli studenti, figuriamoci nel panorama lavorativo, dove dedicarvisi viene considerato più un hobby che un’occupazione vera convertibile in moneta. E mi associo al suo punto di vista quando asserisce Già in O d’amarti o morire me la prendevo con la sbrigativa faciloneria con la quale vengono trattate in Italia le professioni legate al teatro; qui – in Distopia pop – panneggio un panorama più vasto delle pieghe in cui si infiltra la severa condanna a morte di cui è fatto segno chi, per predisposizione naturale, si sente chiamato a mestieri che possano concorrere “al progresso spirituale della società”. 

Uso di proposito questa formula solenne, anche a costo di apparire goffa, perché è quanto si legge nell’articolo 4 della Costituzione Italiana, in cui il progresso materiale e quello spirituale sono posti sul medesimo piano in quanto doveri da perseguire per mezzo del lavoro. 

Invece, di fatto, chiunque abbia capacità letterarie, artistiche, filosofiche nel nostro Paese è messo in condizione di pensare che sia un problema suo e che deve cavarsela in qualche modo; preferibilmente senza frignare troppo perché è palese che se l’è cercata: le indicazioni del neoliberismo nei confronti di ciò che conta davvero sono puntuali e chiare, e tutto quanto riguarda il benessere interiore, la cultura, le conoscenze umanistiche, l’esperienza speculativa, l’arte sono attività più dannose che inutili.

Tale è anche l’esperienza della protagonista, che è una storica dell’arte. Tuttavia, Clotilde, nonostante le difficoltà economiche e lavorative, i tempi stretti, e le instabili vicende amorose, è pienamente e stabilmente collocata nella sua vita. Cammina a testa alta, fiera del suo sapere, della sua intelligenza. Come dice la sua creatrice Clotilde è soddisfatta di sé. E della propria vita interiore, ricca e complessa. È una donna in ricerca e, secondo me, nessuno è perduto finché è in ricerca! Anche quando cade; anche quando talvolta cede ai ricatti della società, come le fa notare il nipote Francesco; anche quando sbaglia, è tutt’altro che una frustrata. Tu noti che è coraggiosa ed energica. Se ha un problema, è che s’è un po’ stufata della mediocrità: le piacerebbe potere applicare la propria energia e sfoderare il proprio coraggio in cause migliori rispetto a quelle nelle quali è ingaggiata. Perché, diciamoci la verità, usare le energie per puntualizzare l’ovvio, è davvero uno spreco.

Il romanzo quindi, esplorando la vita di Clotilde, include una critica ampia ai nostri tempi, sì, ma aggiungerei che contiene anche, implicita, una dichiarazione d’amore per la vita, per il mondo; la polemica si spoglia del suo ruolo per farsi avvertimento, trasfigurarsi in desiderio che si possa salvare ora ciò che ancora può essere salvato, un appello affinché si istituiscano ritmi più conformi alla nostra natura, si riformuli il sistema mondo secondo parametri umani, di giustizia, uguaglianza, libertà.

E infine, divertiamoci! Ci sono gli alieni che ci vogliono far fuori nonostante le nostre belle canzoni! Non ci stanno proprio simpaticissimi, ma come dargli torto. Tra loro si confrontano studiandoci, indagano il senso di ciò che siamo stati in grado di creare, nel bene e nel male, e investigando ci fanno il riassunto. Quanta bellezza. Quanto orrore. Peccato, in definitiva un bel disastro. Che esseri stolti che siamo, se con tutte le nostre capacità ci andiamo annientando non solo l’un l’altro, armando guerre non necessarie, ma prostrando il pianeta dove risiediamo suicidandoci. Eppure, siamo anche esseri incredibili, immaginifici, inclini all’arte, all’astrazione, capaci di profondissimi pensieri e sentimenti, di voli assoluti della mente, di creazioni imperiture, di forgiare con l’ingegno e poi con le mani bellezze straordinarie; potremmo seguire un ideale cammino verso progressi intellettivi inverosimili e invece scegliamo troppo spesso il male, l’ignoranza, l’ignavia, la medietà, che non è qui il giusto mezzo aristotelico ma la scelta di ciò che è più comodo, sicuro, senza impegnarsi, senza lottare. La distopia più che nel libro è nella nostra società se confrontiamo il modo meraviglioso in cui potremmo vivere, organizzando un’esistenza degna per tutti, e il modo in cui viviamo. Attraversiamo il quotidiano nichilisticamente lamentosi e amiamo poco e male. L’hanno capito anche gli alieni che abbiamo grossi problemi a riguardo, sono sicuri che amare, per noi, sia addirittura faticoso “Amare. Amare sulla terra. Per le donne soprattutto. E in special modo amare esseri di sesso maschile. Dice che è un enorme spreco di energie. Anzi, secondo mia moglie, la quantità di energia che i terrestri con cromosoma XX investono per amare i terrestri con cromosoma XY giustificherebbe in parte il baratro in cui hanno fatto precipitare il loro pianeta. Invece di occuparsi di fattori di crescita, di incanto, di armonia, razionalità, di economia hanno sprecato tempo e fatica in un’attività più dannosa che inutile”. 

Chissà se alla fine, all’ultima pagina del libro, gli alieni ci lasceranno vivere o ci faranno brillare come mine senza lasciare traccia della nostra esistenza. Potranno le nostre canzoni pop fare la differenza? Per qualcuno il finale è aperto. Per me no.

Il mio ultimo quesito per Francesca è più intimo e indaga il rapporto dell’autore con il suo personaggio cercando di comprendere quanto dell’uno sia nell’altro. Francesca conferma quel che avevo immaginato: Le esperienze di Clotilde le ho vissute tutte. Ne ho vissute anche altre, naturalmente, in questo mondo del lavoro che nel romanzo definisco «un aborto dell’etica» ma quelle che racconto le ho attraversate. Quando nel romanzo scrivo che in certi ambiti il lavoro si trova eccome e ciò che manca sono i soldi per retribuirlo, ecco, è precisamente ciò che ho notato nei miei anni di formazione post-lauream.

Intanto, le ho rubato già troppo tempo, la lascio ai suoi scritti, al prossimo romanzo con cui ci delizierà e la penso nel suo luogo mentre scrive sulla carta, come mi racconta che fa da un po’, perché ama le volute della penna sui fogli. La immagino pensare, riflettere, perché per lei scrivere si deve farlo quando si ha qualcosa da dire, e poi una cosa interessante di scrivere su carta, sul quaderno, è che, considerate le cancellature e le frecce e gli asterischi e i tanti richiami, quando arriva il momento di trascrivere sullo schermo a volte non riesco a ricostruire ciò che avevo pensato. Questo mi dà l’opportunità di esercitare la pazienza e di pensare cose nuove. 

E forse queste ultime due cose, pensare a cose nuove ed esercitare la pazienza, dovremmo farle tutti.

Silvia Penso