
Patina
Lei non sa che la osservo.
Piega il capo e guarda in basso. Parte del braccio è nascosta dal fianco opaco della lavastoviglie. Immagino le dita arrossate sul bicchiere. Penso a ciò che non vedo. Intuisco la tensione del trapezio e il braccio che si piega sotto la manica della camicia.
Quando sono uscito, una delle prime cose che ho fatto è stata cercare una pizzeria. Non una qualsiasi. Avevo un’idea precisa. Pannelli di legno scuro, àncore e cordoni, vedute di ceramica con le crepature sui bordi. Desideravo una luce gialla, un odore vago di fumo e pesce e la claustrofobia lieve di un locale con l’entrata stretta.
Alla fine mi sono accontentato. La pizzeria, in cui andavo venticinque anni fa, è stata chiusa. So che ne hanno murato l’ingresso. Prima ci hanno messo i mattoni e dopo il cemento. Nessuno ci ha mai fatto più niente. Quella che gestiva il ristorante è andata a vivere in Germania. Ha aperto un altro locale lì e, un giorno, un furgone l’ha messa sotto.
In fondo, non è andata così male. Le pizze al padellino hanno la crosta arancione che sa di fritto. La ragazza, che mi ha servito, è la stessa che sto spiando. Ha la ricrescita scura e i capelli crespi. Credo mangi soprattutto pizza e carbonara, poco prima della chiusura. Ha i fianchi appesantiti e i bottoni tesi sul gilet nero.
Dopo cena, torno verso casa e osservo le facciate dei palazzi del primo Novecento. C’è pace nell’aria che rimbalza severa su fregi e bovindi. Contraggo le labbra in un gesto consueto. A volte sento ancora i baffi. Come avessi la sindrome dell’arto fantasma.
Salgo i quattro piani di scale e assaporo il silenzio della luce bianca. Nell’appartamento Gianni russa nella sua stanza. Le pause sono scandite dai risucchi di saliva e dalle lenzuola strattonate.
In bagno c’è una mensola piena delle mie cose. Un pennello indurito dalla schiuma, lo spazzolino con le setole ingiallite e il dopobarba del discount.
– Sto cercando, eh? – gli dico quasi ogni sera.
– Non c’è fretta, Paolo, non c’è fretta. Mica è facile dopo quello che ti è successo.
– Va bene, siamo amici, ma tu hai la tua vita, le tue cose. Magari vuoi portarti una a casa e non lo fai perché ci sono io.
Gianni scoppia a ridere. C’è un luccichio grigio sui denti guasti.
– Se voglio portarmi una, me la porto. Sai che voglio dire, no? Mica mi ci devo fidanzare.
Da ragazzi, io e Gianni, abbiamo condiviso la stessa passione. Con la differenza che lui ne ha sempre riso, come adesso. Io, le puttane, invece, le guardavo torvo. Le cercavo con le tette flaccide e l’odore di unto nei capelli.
Quando ne caricavo una sul furgone, ne annusavo il sentore acidulo sulla pelle. Il profilo grinzoso si raccoglieva sul sedile come un gamberetto scotto o un pene molle. E allora pensavo all’odore di morte di mia madre. A mio padre che mi cacciava dal suo capezzale e mi urlava contro che non servivo a niente.
Le vecchie puttane erano come mia madre. Inermi si lasciavano fare. Su di loro calava la patina di un cedimento graduale. La stessa patina che impregnava il tinello con le piastrelle bianche e le mattonelle di graniglia.
Mio padre aveva ragione. Non servivo a niente. Quando lei è morta, lui è salito sul camion con una ragazza pallida e soda. È finito in un paese pieno di terrazze, colline e vento. Io sono rimasto in città con una donna che chiamavo zia. Truccava gli occhi sopra e sotto. Al mattino prendeva il caffè in piedi, contro il lavello. Una vestaglia azzurra l’avvolgeva in ogni stagione. Sembrava avesse una parrucca rossa. Somigliava alla maggior parte delle commesse sui cinquanta dei grandi magazzini in centro.
Con le donne ho iniziato presto. Percepivo il bisogno di muovermi, di scuotere via la patina che ricadeva sulla trapunta del letto, sulle lunette gialle della tendina e sui ricci stanchi di mia zia la sera. Fissavo i numeri delle espressioni sul quaderno e vedevo solo cose ferme. Cose morte.
La prima a cui ho tirato il collo voleva troppi soldi. Si muoveva poco, con l’aria sonnolenta che avevano i polli nel paese di mio padre.
Io spingevo con forza. La pancia le tremolava come gelatina. Sotto la piega livida del ventre, c’era un ciuffo di peli radi. Nella penombra dell’abitacolo, rimandava un riverbero metallico.
Quando ho finito le ho dato i soldi che meritava.
– Non fare lo stronzo, voglio quello che abbiamo stabilito – ha sibilato.
E così ho fatto ciò che andava fatto. Dopodiché, ho pensato a mia zia durante il suo giorno libero. Si alzava tardi e girava per casa intonando una canzone estiva. Mi trovava nel cucinino con il barattolo del malto in mano. Abbozzava un’espressione incredula e serrava la vestaglia sul petto.
– Ah già! Tu devi fare colazione – biascicava alzando il mento.
Ogni volta che mi scopavo una puttana vecchia, finiva nello stesso modo.
La rabbia montava come quella volta in cui ho lanciato un sasso. Nel paese di mio padre, la strada che portava alla provinciale costeggiava un campo spoglio e pieno di sole. Al di là del recinto basso, c’era un cavallo immobile. Ricordava la statua di un monumento equestre. La coda oscillava lenta da un lato all’altro. Nugoli di mosche gli coprivano gli occhi. Dentro le pupille c’era un liquido fermo. Un languore scuro. Qualcosa che avrei rivisto negli occhi di mia madre, a un passo dalla morte. Non c’era disperazione in quello sguardo. Solo una rassegnazione quieta.
Allora ho afferrato un sasso da terra e l’ho scagliato contro il muso del cavallo. Sono fuggito coprendomi le orecchie. Sentivo le mosche ronzarmi dentro. Sono corso fino al bar del paese. Nella mano avvertivo ancora il peso irregolare del sasso.
La donna che ho lasciato andare, tempo dopo, non era vecchia. C’ero stato perché aveva l’aria esausta. Le ho messo le mani addosso e lei ha pianto. Mi ha fatto vedere la foto di un bambino con le orecchie a sventola e le rughette agli angoli degli occhi.
– Sei troppo giovane – ho sussurrato ridandole la foto, ma forse lei non ha sentito.
Qualche ora più tardi, le sirene delle volanti hanno lacerato il cielo bianchiccio della primavera. Ho aspettato che venissero a prendermi. Mi sono chiesto se in prigione avrei potuto bere il latte con il malto. Ho fatto un sospiro di sollievo e immaginato la carcassa del cavallo sotto il sole di agosto.
Ho chiesto una cosa soltanto ai magistrati. Ho voluto perdere il mio nome e acquistarne un altro. Anche Gianni deve chiamarmi Paolo. Come fa la commessa con la coda alta che infila le ciabatte di segale dentro un sacchetto.
Stamattina mi sono guardato allo specchio. C’era come una patina sulle rughe che dipartivano dalla radice del naso.
In carcere c’era un tizio che leggeva un mucchio di poesie. Una di queste diceva che gli esseri umani hanno solo il potere di uccidere, ma non quello di morire.
Laura Scaramozzino
Editing di Francesca Gentile

