racconti

La meccanica della precisione

“Sono io, Cassandra. / (…) E questi i miei nastri e la verga di profeta. / E questa è la mia testa piena di dubbi. / È vero, sto trionfando. / I miei giusti presagi hanno acceso il cielo. / Solamente i profeti inascoltati / godono di simili viste. Solo quelli partiti con il piede sbagliato. (…) / Guardatevi dall’alto delle stelle – gridavo (…) / È andata come dicevo io. / Però non ne viene nulla. / E questa è la mia veste bruciacchiata. / E questo è il mio ciarpame di profeta. / E questo è il mio viso stravolto. Un viso che non sapeva di poter essere bello.”

Wisława Szymborska, Monologo per Cassandra

Io amo lavare i piatti. Ci tengo che vengano puliti. Espiare. Bisogna espiare. Anche prima lo pensavo, l’ho sempre pensato: non si può evitare di fare i conti con le proprie sozzure. È da vigliacchi. Certo, ci sono dei rischi. Certo che ci sono.

All’inizio furono i graffi. Ero inesperta. Godevo nel sentire sciogliersi e scivolare tra le dita grumi di olio e carote, pensieri funesti, pezzi di pane raffermo. Strofinavo senza metodo. Ero maldestra, imprecisa: dimenticavo gli angoli, restava sempre qualche detrito attaccato. Contai fino a sette. Divenni metodica e smisi di rovinare le padelle antiaderenti. 

Per far bene una cosa bisogna smettere di pensare, bisogna fare e contare. 

Fare e contare.

Anche allora pensavo di aver fatto un buon lavoro. Invece le tracce restarono, dentro e fuori. La verità è che ho esitato, ho pensato troppo. Dimenticato di contare. Contare e respirare. Se non respiri vai in malora, il mio medico me lo diceva sempre. Mio marito me lo diceva. Me lo diceva sempre, mia madre. Qualche volta mi capitava di fondere e confondere i loro lineamenti e i confini, mi capitava di pensare che quei tre fossero la stessa persona. Si somigliavano. Hillman sostiene che i genitori ce li scegliamo prima della nascita, c’è tutta una teoria sulla ghianda e il daimon e tutto risale a Platone e al mito di Er (ho vaghi ricordi della Repubblica, ce la facevano leggere alle superiori). 

Io, però, la penso più come Forrest Gump che come Hillman o Platone, e dico che non sai mai veramente come e perché un essere umano capita nella tua vita. 

Io dico che esiste solo il caos e contare e respirare è l’unica cosa da fare.

Lavare i piatti è educarsi alla meccanica implacabile della precisione. 

Lentamente, uuuno, faccio scivolare la spugnetta sui bordi, con un moto circolare. 

Lentamente, duuue, faccio scivolare la spugnetta sui bordi, con un moto circolare. 

Respiro. 

Poi vado al centro e sfrego cinque volte, su e giù, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due. Respiro e immergo, senza perdere il ritmo. 

E ancora uuuno, duuue. Uno-due, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due. 

Sette mosse, e tutto torna com’era. 

Perfetto. Pulito.

All’inizio mi distraevo. Mi tagliavo. Non bisogna distrarsi. Rompevo ogni volta un piatto o un bicchiere, dio solo sa quanti cocci seminavo in giro. Tamponavo il sangue sulle ferite con i canovacci, dopo mi toccava buttare via tutto e comprarne di nuovi.

Anche quella notte, in soggiorno, seminai qualche chiazza di rosso sulle mattonelle e sulla bergère verde, urtai l’abat-jour che si schiantò sul pavimento – avanzavo a piedi nudi nel buio – e un pezzetto di vetro mi si ficcò nella pianta del piede: è ancora lì, almeno credo, mi pare di sentirlo pungere e spingere tutte le volte che mi rilasso, specie quando sto per addormentarmi. Quella notte dimenticai di pulire. Fui maldestra. Solo sette passi mi separavano da lui. Sembrava così facile. E forse lo è stato. Non so, non ricordo. È accaduto tutto molto in fretta. Lui era ubriaco o stava dormendo, come sempre, dopo che —

Non ne vado fiera, ho solo fatto ciò che dovevo. 

Accanto al lavello c’è una finestra con le inferriate a forma di uncino e in giardino si erge un albero dai rami ritorti, rinsecchiti, la faccia triste di secoli. 

All’inizio mi voltavo a guardarlo e ripensavo a mio marito: la pelle tirata, il volto smunto, il ghigno sempre acceso, le braccia penzolanti sulla bergère, le gambe accavallate, la bottiglia di vino fracassata contro il muro: così l’hanno trovato – così l’abbiamo trovato, ci dispiace, signora –, così me l’hanno descritto, il corpo. Io non c’ero, dico, non ero qui. Non me l’hanno mostrato (non volevo guardare) – c’è stato un aumento esponenziale dei furti in zona – hanno detto, troppe parole confuse – sbandati, una gang di ragazzini, una coltellata, i soldi nel barattolo spariti, i suoi orecchini spariti, ci dica se manca altro, li troveremo, ci dispiace –, parole vuote, senza peso, che ricordo a malapena.

Ho sempre pensato a come sarebbe finita tra noi. Perché mi è sempre stato chiaro, anche se in maniera sfocata, che sarebbe finita, solo non sapevo come. 

Però ci pensavo spesso.

Per me i pensieri sono cose vive. Per me i pensieri, come i ricordi, come i sogni, sono cose reali. Si possono toccare. Come il pensiero (il ricordo) di mio marito. Anche un piatto che si schianta a terra è una cosa reale, certo, ma in modo diverso, non so spiegarlo, come la ferita sul palmo della mia mano, lungo la linea del destino che dice che morirò giovane (me lo merito) ma non dice quando. 

Anche se io al destino non ci ho mai creduto. – Homo faber suae quisque fortunae – amava ripetere mio padre (così mi hanno detto, io non l’ho conosciuto).

A forza di mettere cerotti e buttare cocci nella spazzatura ho imparato a misurare le conseguenze della distrazione. Cento euro al mese solo di stoviglie e canovacci, i cattivi pensieri mi stavano gettando sul lastrico. 

Quando dissi a mio marito che volevo iscrivermi a un corso di recitazione mi schiaffeggiò e mi diede della puttana, come faceva sempre mia madre. Un respiro profondo, anzi due, mi sfilò i guanti in lattice, afferrò le mie mani minute e bianchissime di bambina e se le portò al viso, coprendosi naso e bocca come quando si infilava dentro di me, suggendo i miei odori: nepitella, ciclamino, saliva e sudore. 

Le sue, invece, sapevano di nicotina, acqua di colonia, vino e detersivo al limone. 

Gli piaceva immergere le mani nude nella bacinella stracolma di acqua e Svelto che aveva preparato per me, ci sguazzava dentro e rideva, rideva e sguazzava, mi fissava mentre facevo i mestieri – così li chiamava, come suo nonno e suo padre, ci teneva a quella parola, mentre io ho sempre pensato che i mestieri fossero solo cose come la maestra, l’avvocatessa, l’attrice, l’infermiera.

Mi controllava per assicurarsi che tutto fosse perfetto. Pulito. Potresti fare meglio, potresti essere più precisa, diceva, buio in volto, mentre mi prendeva da dietro. Non facevamo sesso come le coppie normali, lui mi prendeva solo mentre facevo i mestieri. Continua, diceva. Sara, sei la mia regina, sei la regina di questa casa, diceva. E io, dandogli le spalle, continuavo. Zitta. Meglio così, pensavo, meglio non vedere il grugno feroce. Era quello il solo modo in cui lo facevamo. 

Lo faceva. Io, era come se non esistessi. Come se non fosse importante che io fossi io o qualcos’altro. Perché qualcosa per lui ero, questo è certo, anche se non ho mai capito cosa. Una puttana. Una regina. Dipendeva. In tutto questo non so dov’ero, io. 

Non l’ho mai saputo. 

E lei dov’era, quella notte, signora? Ero scappata. Lei dov’era? Scappata. Ha visto qualcuno aggirarsi intorno alla casa, negli ultimi giorni? Lo capirete. Qualche ragazzino del quartiere in motorino, magari? Forse lo avete già capito, fate solo finta. Le viene in mente nessuno? Io. Nessuno? 

Io —

non li guardo nemmeno, non rispondo a nessuna delle loro domande. 

Nessuna. Rispondo a tutte le loro domande nella mia mente e all’improvviso mi viene voglia di dirglielo, gridarglielo in faccia, poveri idioti, non sapete nemmeno fare il vostro mestiere.

Hanno lasciato solo questa, signora. È la mia collana. Suo marito ce l’aveva tra le mani. Me l’ha strappata prima che Forse è riuscito a strapparla agli aggressori prima dell’omicidio, quelli hanno capito di aver fatto un casino e sono scappati. L’hanno dimenticata. Maldestra. Imprecisa. Sì, è così che deve essere andata.

Lentamente uuuno, faccio scivolare la spugnetta sui bordi con un moto circolare. 

Lentamente duuue, faccio scivolare la spugnetta sui bordi con un moto circolare. 

Respiro. Poi vado al centro e sfrego cinque volte, la mano su e giù, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due. Respiro e immergo, senza perdere il ritmo. 

E ancora uuuno, duuue. Uno-due, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due. 

Sette mosse, e tutto torna com’era. 

Perfetto. Pulito.

Finisco i mestieri, alle sette inizia il corso di teatro.

Il regista mi ha notata alla prima lezione. Ogni allievo ha improvvisato a partire da un monologo scelto a casa. – Una meravigliosa Cassandra. Hai talento, Sara, ma mi pare che tu già lo sappia. Sei nata per la scena, cosa aspettavi a iscriverti? 

Silenzio. Respiro. 

Uuuno, duuue. Uno-due, uno-due, uno-due, uno-due, uno-due.

Dovevo sistemare alcune cose, prima. Non volevo distrazioni.

“Perché volli a tutti i costi il dono della veggenza? 

Parlare con la mia voce: il massimo. Di più, altro, non ho voluto.”

Christa Wolf, Cassandra

Morgana Chittari

Editing di Elena Chiattelli