editoriale

Ottobre: Krònos, il Titano Tempo e la dualità umana

Ho letto, da qualche parte, che la morte e il tempo sembrano essere temi cari agli scrittori.

Pare che scrivere [e a volte proprio scrivere di loro, della morte e del tempo] aiuti a esorcizzare l’incombenza [il tempo] di sparire dalla faccia della terra [la morte] e sperare di lasciare una minima traccia di memoria nella vita di altri comuni mortali che non siano solo i propri parenti.

Al momento per me la morte resta una misteriosa assenza da guardare di sottecchi, da lontano e con ossequioso rispetto e timore. Il tempo invece è proprio un’ossessione. O meglio: la sensazione di non averne abbastanza. Non nascondo che mi sono ritrovata più volte a tendere la testa verso l’alto, scrutare il cielo e implorare asilo ad altri mondi: nelle mie fantasie banchettavo insieme al Bianconiglio su una vasta landa desolata di Venere dove pare che lì la clessidra fluisca molto lentamente e che un giorno corrispondi a un centinaio, se non più, giorni terrestri. Mi piace pensare che sul pianeta rosso [che peraltro ha una rotazione in senso orario] non sia né tardi né presto e non ci sia nessuna disperata corsa contro il tempo.

E invece no: sono qui, io contro il tempo.

Una lotta epica con un’unità di misura. 

Non si tratta forse di questo? Di un immenso eterno metronomo che scandisce secondi, ore, mesi. A dirla tutta i fisici potrebbero obiettare e affermare che il tempo è la percezione e la rappresentazione della modalità di successione degli eventi di un corpo in movimento o in stasi: qualcosa vincolato alla velocità o a una distanza precisa nello spazio percorsa dalla luce. E che dire delle ere geologiche? Accumuli stratiformi millenari di terra. E per finire [ma in realtà potrei continuare a spulciare in altre discipline e sono sicura che troverei altre accezioni pertinenti al tempo] come non fare accenno alla mitologia? Krónos lo chiamavano i greci: divoratore dei suoi stessi figli. 

Na credo che, nonostante la nostra perenne diatriba, con il signor Tempo non elargirò nomi tanto funesti e sentenziosi. Così, impugno la penna e sul mio taccuino provo – Esiodo non me ne voglia – a riscrivere la cosmogonia:

In principio c’era uno spazio grande silenzioso vuoto e buio. Due entità la abitavano: il pensiero e il tempo. Si guardavano. Attendevano. Poi si concessero l’un l’altro.

Nacquero il suono e la luce. Poi il tempo si unì a sua figlia e insieme generarono l’uomo e la morte.

L’uomo domandò potere.

Chiese al pensiero di poter parlare, di poter dare nomi alle cose. E chiamò tempo e chiamò luce e chiamò pensiero e chiamò suono e chiamò tutte le altre cose del mondo. 

Rileggo quanto scritto e penso che è veramente curioso: siamo parte del tempo – che è libero e infinito – e cerchiamo di sottometterlo, impostarlo e seguirlo, come se da lui pretendessimo una direzione che pure non ci basta e dunque siamo pronti ad accoglierne un’altra, diversa e contraria. 

Che stupida che sono: il tempo resta una divinità suprema e inaccessibile e io resto una donna con la sua natura umana unica, duale, ambivalente, predisposta al bene quanto al male, costantemente di fronte a un bivio imperscrutabile che mi obbliga all’ardua impresa di scegliere tra una delle due direzioni. Per poi, desiderare altro e trovarsi a cambiare ancora.

Traccio una linea al di sotto del mio piccolo testo e annoto:

Ottobre, il Titano Tempo e la dualità umana.