
Luglio, gli albori di Guernica
Gli inizi, per me, sono sempre un dramma.
Alzarmi dal letto o principiare qualunque attività – escluse quelle di piacere s’intende – equivale a dimostrare il postulato secondo cui cominciare è sinonimo di un macigno trasportato da un punto a verso un punto b su una superficie pari a settantamila anni luce. Insomma, una cosa difficilissima che richiede tempo [tanto]. Certo, ammetto che alla fine, sposta che ti ri-sposta, il pesante fardello da un numero imprecisato di tonnellate, si scopre poco più che un sassolino. E allora si vola.
Nel complesso meccanismo dello start, non fa eccezione la scrittura: capire come attirare da subito l’attenzione del lettore, è cosa ardua. Almeno – sempre – per me.
Anche scrivere le poche battute qui sopra, è stata un’impresa titanica.
Eppure sono riuscita a sbrogliare la matassa della mia rabbia.
È così: gli incipit mi mettono in uno stato di nervosismo e agitazione. A volte mi fanno proprio incazzare. E allora penso a Guernica.
L’ho vista dal vivo per la prima volta cinque anni fa e ricordo che mi fece una certa impressione: in quella stanza del Reina Sofía, forse un po’ troppo piccola per contemplarla a dovere, non potei non immaginarmi Picasso che in preda alla frustrazione per quanto stava accadendo nella sua terra, trasformò il suo moto di stizza in un’opera che sarebbe stata conosciuta e amata in tutto il mondo. All’epoca, certo, il pittore malaghegno non poteva saperlo come non poteva pensare che decenni dopo una donna italiana [me] si sarebbe chiesta: quale sarà stata la prima figura abbozzata?
Mi stacco per un momento dal mio pc e nella libreria vado alla ricerca di un vecchio taccuino datato 2017. Lo trovo, lo sfoglio e tra un serie di cancellature, finalmente lo vedo.
Sono nata su un cavalletto in un grigio mattino del 1937.
Già dalla prima linea ho capito che avrei preso forme bianche e nere. Poi una mano ha schizzato cavalli, tori, corpi schiacciati e sangue. E tuttavia tutto quel dolore e quella violenza non era integra ma frammentata, suddivisa. Ampliata e per questo ancora più feroce, ancora più straziante.
Quella mano disse che il mio nome sarebbe stato Guernica.
Scrissi queste poche battute in quel lontano luglio in cui andai a far visita a quella tela. Subito sotto compaiono tutta una serie di quesiti:
Come, da cosa nasce un processo creativo?
Funziona allo stesso modo per tutte le arti [musica, testo e immagine]? Come ha fatto B.B. King a buttar giù le note del suo blues. Qual è stato il primo scatto “buono” di Steve McCurry?
Se potessero pronunciarsi, se le opere avessero una propria voce, sarebbero d’accordo su cosa sono chiamate a esprimere? Tipo: cosa direbbe Mosè a Michelangelo?
Le opere sono parte dell’artista o sono figli?
Chiudo il mio vecchio quadernetto degli appunti e lo lascio sul mio tavolo da lavoro.
Non ho ancora risposta alle mie domande. L’unica cosa che so è che quando devo scrivere e le mani e le ascelle cominciano a sudare copiosamente o inizio ad andare da una parte all’altra della stanza e a parlare da sola come solo i matti sanno fare, tiro fuori dal primo cassetto della scrivania una foto. È la riproduzione, in formato ridottissimo, di Guernica. La sua rabbia, diventa la mia calma. E allora le parole trovano un varco e scavano un ruscello e quindi un torrente e un fiume che si dipana e rapido scende tutto quello che ho da dire.
Così sul mio pc scrivo: luglio, gli albori di Guernica.

