racconti

La scrivania

L’amministratore condominiale è un uomo con un cappello e un cappotto sempre addosso, porta gli occhiali e lo chiamano ingegnere perché forse in un passato, da qualche parte, ha studiato o forse perché ingegnere è solo una variante altrettanto vuota dell’appellativo dottore. L’amministratore condominiale ha sulle sue spalle questo palazzo, che muta volto ogni giorno, bestia feroce e carcassa vuota, a volte mi chiedo se faccia più paura il vuoto che lo invade o la gente che maldestramente lo abita. 

Si regge in piedi in un ammasso colloso di polemiche e accuse su chi ha fatto gocciolare il bucato sul balcone di chi e su chi ha rigato la macchina di questo o quell’altro, e da anni, ormai nessuno ricorda più di fare l’albero di Natale. È il primo dicembre, e a nessuno passa per la testa di riempire l’androne a festa dopo che, non si sa quanti anni fa, qualcuno è caduto dalla sesta rampa di scale e si è distrutto il cranio. Non ho visto la scena, allora, ma l’immaginazione a volte funziona meglio del ricordo e il pensiero di quelle budella sparse sul pavimento mi accompagna ogni volta che varco la soglia del portone per salire al secondo piano. Non prendo l’ascensore perché è solo una scatola vecchia, e perché una volta, lì dentro, mi è caduto addosso uno scarafaggio. Ero una bambina e visto che i bambini le proporzioni non le conoscono, allora lo scarafaggio mi sembrò di immani dimensioni, ma se ci penso ora avrà avuto le dimensioni scheletriche di chi si può nutrire solo di muffa. 

La tromba delle scale ha una sua magnificenza lenta e si snoda imperiosa fino a una finestrella sul soffitto altissimo che dovrebbe far passare un po’ di luce, ma non ci ho mai visto dentro un raggio di sole e va bene così, a nessuno qui interessa dei raggi di sole, intralcerebbero i cartelli che costanti si susseguono: non sbattere il portone, accompagnare il portone, fare attenzione che il vento non faccia chiudere violentemente il portone, come se si debba avere più rispetto per il portone che per la propria madre e per alcuni, infatti, è così. 

Nessuno guarda in faccia nessuno, i buongiorno e buonasera vengono vergognosamente sussurrati, mentre la notte all’unisono ci si sveglia quando si sentono le urla del matto del terzo piano che spesso minaccia di mandare a fuoco tutto, che a lui della gente non importa niente. A nessuno importa nulla, vorrei dirgli, ma almeno non tutti si prenderebbero la briga di incendiare questo contenitore immane di vite, che alla fine credo non sarebbe neppure capace di prendere fuoco, tanto è pregno di umidità. Me lo sento sulla schiena, il pazzo del terzo piano, mentre nella borsa cerco affannosamente per secolari secondi le chiavi del cancello, e per infiniti attimi le giro nella toppa arrugginita che è stata cambiata otto volte negli ultimi tre anni. E quando finalmente riesco nell’impresa di aprire, lui è sparito, il pazzo, andato via, lo trovo che cammina nel parco raggiungendo con disumane falcate il portone. Chissà come ci è arrivato. Sono tutti un po’ fantasmi qui dentro. Sono certa che ogni casa ne abbia alcuni, qui sono tutti buoni. Questo era un posto di belle persone, un tempo, e gelosamente le cose ne trattengono il ricordo, ne sono impregnate, oggetti vivi a testimonianza di un’era forse migliore.

L’amministratore condominiale mi guarda mentre aspetta la risposta alla sua domanda, la incartiamo quella, la portiamo via? La scrivania che ingombra prepotente e monumentale la stanza vuota e mi fissa severa, l’amministratore che resta col mento sospeso a indicarla. Si era convenuto, quella mattina, che sarebbe stato opportuno portarla via, smontarla, amputarne gli arti, imbalsamarla nel cellophane trasparente e poi spingerla in fondo al piccolo magazzino, perché per lei non c’era più spazio nel mondo dei vivi. Lasciatela lì, dico, sovvertendo quello che ci si aspettava da me fino a qualche secondo prima (è sempre così sorprendente la delusione che segue le insospettate risposte alle domande retoriche) e frenando le mani che solerti cominciavano a mummificare il mobile. 

L’amministratore condominiale, invece, non sembra influenzato dalla decisione in alcun modo, si leva il cappello accompagnandolo con un’alzata di spalle per salutare le altre due presenze maschili e adulte e porta con sé il cappotto svolazzante, senza considerare la mia esistenza. I due uomini mansueti smettono di incartare la grande scrivania al centro e, semplicemente, la lasciano lì. Raccolgono le loro cose conversando di niente, il caffè lo prenderanno al bar dietro l’angolo, probabilmente, in piedi, al bancone: abbiamo fretta, dicono, ci aspettano nell’altro appartamento. Le loro parole cadono nel niente delle mura vuote e mi rimbalzano sui timpani come se fossero state pronunciate da qualcuno di molto lontano. Arrivederci, dicono, e io rispondo con una voce che è poco più di un sussurro, arrivederci.

 Resto sola con la scrivania, la stanza sgombra con la carta da parati trentennale che ha le ore contate, e chissà se lo sapeva la colla con cui è stata attaccata un sacco di tempo fa che un giorno si sarebbe lottato per grattarla via. Provo a parlare, le stanze vuote hanno sempre quell’amabile eco, e la mia voce si risponde da sola per quattro volte e di nuovo le proporzioni si distorcono, torno piccola, torno una bambina e mi siedo sulla poltrona consumata dalle mani e dai gomiti e dai pomeriggi e dalle mattine di mio nonno, e tocco la superficie liscia della scrivania su cui poggiavo i dozzinali fogli A4 nelle belle mattine di vacanza in cui venivo qui a disegnare cose sconclusionate con la bic di colore blu. Credo che gli oggetti siano consapevoli di essere appartenuti e di appartenere, che i loro corpi inerti percepiscano le carezze, e della scrivania io sento l’abbraccio, sento tutte le mani che per anni vi hanno lavorato e tutte le parole dei quotidiani che, fuggitivi, sono scivolati su questi pezzi di legno, ancora impregnati di quelli che sono andati via. Nemmeno il condominio, forse, è una carcassa vuota, ché a reggere le mura ci sono anche le belle anime che lo hanno abitato negli anni, che hanno assorbito il respiro delle generazioni, e i gradini che ne hanno sopportato il passo progressivamente stanco che piano, impercettibilmente, giorno dopo giorno, invecchiava, fino a diventare leggero, sottile, sparire. La morte. Si sparisce davvero se gli oggetti continuano a esistere? Me lo chiedo e penso come sia possibile che la vita di mio nonno non esista più se la sua scrivania è ancora qui, se questa cosa inerte continua a rispondermi. 

No, non portate via la scrivania: oggi non ho la forza di vedere un’altra volta il suo corpo imbalsamato.

Erica Cassano

Editing di Elena Chiattelli