
Maggio, anatomia di un viaggio: piccola frazione di vita
Il cartellone indica: binario 8.
Prima di raggiungere la carrozza, rileggo, ancora una volta, il numero del treno, l’ora di partenza e la destinazione: mi terrorizza – e allo stesso tempo mi attrae – l’idea di salire su un convoglio sbagliato che mi porti chissà dove. Così, dopo l’ennesimo controllo, isso la borsa in spalla, trascino il mio trolley quattro ruote e mi avventuro nel rumoroso mondo della stazione: un gruppetto di persone in corsa che mi taglia la strada, un bambino con la bocca imbrattata di gelato che mi sorride e la voce metallica che elenca le fermate di un regionale e subito dopo si scusa per il disagio.
Nel dipinto che ho appena ritratto [che mi ricorda l’incipit di un film di Tornatore mai girato], aggiungo l’odio per i ritardi e le lamentele che ne conseguono.
Tutto molto vero ma per un momento ho voglia di indossare i panni dell’avvocato del diavolo e chiedermi: si tratta [sempre e] solo della negligenza e dell’indolenza del personale? Possono essere inclusi fattori esterni? Che ne so, tipo la disperazione di chi decide di suicidarsi in un modo così rapido e dolorosissimo quasi a dire: io me ne vado, voi continuate pure ad aspettare [e mica solo il treno]. E mille altre plausibili scuse.
Sì, non ci sono attenuanti. Per nessuno.
Ad ogni modo, scaccio via tutti questi pensieri, sistemo il bagaglio e finalmente prendo posto: sono arrivata nel mio personalissimo Eden.
Ebbene lo confesso: per me, se esiste un paradiso ultraterreno che per qualche ragione mi sono meritata, è proprio questo: viaggiare in treno. Un’interminabile lunga percorrenza capace di sradicarmi dagli impegni, dalle futilità e dai drammi – reali e fittizi – della vita e restituirmi la sensazione che in qualche modo il tempo possa dilatarsi oltre misura e che dentro quel tempo io possa smarrirmi e fare tutte quelle cose che continuo a procrastinare.
Posso finire di leggere un libro e cominciarne un altro. Posso scrivere su un file word del mio personal computer, appoggiata a una scrivania improvvisata, un’infinità di lettere minuscole che comporranno una qualche storia. Posso starmene a guardare oltre il finestrino il verde dei prati, i rotoloni di grano, il nero dei tunnel e, se non lo vedo, posso perfino immaginare il mare.
Posso fare – quasi – tutto.
Così, apro il mio taccuino e, dall’ultima pagina rimuovo la graffetta alla quale sono ancorati un paio di fogli A4 e, in assoluto silenzio, recito la mia preghiera che non ha niente a che vedere con giaculatorie e lamentose litanie, ma si tratta dell’unico racconto che io abbia mai letto di Luigi Pirandello: Il treno ha fischiato. La storia di un uomo, tale Belluca, completamente alienato dalle incombenze della vita, tanto da dimenticarsi di sé stesso e del mondo là fuori. Solo ascoltando, quasi distrattamente, una sera, il fischio di un treno, scopre – di nuovo o per la prima volta – tutto quello che lo circonda e, in un sol battito, finisce in Siberia e nelle foreste del Congo.
Chissà in quale altri meravigliosi posti si sarà perso Belluca e se come me, anche solo una volta, ha anatomizzato il viaggio: l’andata [l’inizio di un’avventura, in genere entusiasmante], la durata [uno svolgimento in cui può succedere qualunque cosa] e un ritorno che rappresenta la fine di un’esperienza che nel bene o nel male, in minima o larghissima parte, rende diversi, nuovi [o nuovo è il modo di osservare le cose].
Chissà se lo scrittore di Girgenti pensava al fischio di quel treno e a tutti i viaggi vissuti, da quel momento in poi, dal suo protagonista, come una somma di infinitesime frazioni di vita.
Chissà cosa penserebbe oggi il povero Belluca se sapesse che non esistono più treni fischianti, che sulle rotaie viaggiano – quasi esclusivamente – vagoni ad alta velocità. Sarebbe assalito dal dubbio che per lui non sia previsto alcun destamento?
Tranquillo Belluca, mi verrebbe da dirgli, troveresti un altro modo per guardare tutto con occhi che non sono più i tuoi.
Io ho trovato il mio in questo [tuo] testo.
Riprendo il mio taccuino e annoto:
Maggio, anatomia di un viaggio: piccola frazione di vita.

