racconti

L’apparato umano

– … E poi attraversavo questa rotonda in macchina e non potevo uscirne: rimanevo bloccata lì.

Silvia si scostò nervosamente la frangia dagli occhi, fece un sospiro, bevve un sorso di vino rosso dal calice. Dal modo in cui abbassò lo sguardo mi resi conto che il racconto del sogno che aveva fatto la notte precedente e che ancora la tormentava, era terminato. Mi guardò sdegnata, come se non stessi cogliendo un’evidenza empirica. 

– È un sogno chiarificatore: non posso continuare così, devo cambiare aria.

Sapevo dove voleva andare a parare, ma non volevo darle l’idea che la sua fosse logica cartesiana. Mangiai con gusto l’ultimo boccone di insalata che c’era nel mio piatto e le rivolsi un sorriso idiota.

– Questa città mi sta opprimendo. Non succede mai nulla. Devo tornare a vivere a Londra, o forse a Berlino.

Eravamo gli ultimi clienti del locale. Restammo ancora qualche istante in silenzio a goderci la placidità che avvolge i ristoranti nell’ora di chiusura. A quel punto le proposi un amaro da Lele. Indossammo le giacche e andammo a pagare, poi uscimmo nella notte del Pratello.

Fuori c’era un’aria gelida, la strada era illuminata da una luna che splendeva in alto, perfettamente incastonata come un diamante nell’anulare di cielo formato dai palazzi. Giunti davanti al bar, Silvia mi chiese come stessi e se mi trovassi bene a Bologna dopo aver tanto girovagato; la abbracciai, le dissi che le volevo bene e, senza aggiungere altro, desiderai fare l’amore con lei ancora una volta e passare la notte fra le sue braccia. Entrati nel bar semioscuro, intravedemmo i volti felini dei soliti frequentatori, una sporca dozzina di alcolizzati, studentesse, strani tipi vestiti come gangster, radical chic. L’aria era fumosa ma accogliente. Sul divanetto in fondo al locale che affacciava sulla porta d’ingresso, due sconosciuti attirarono la mia attenzione: una bionda con la frangetta, magrissima, con due occhi azzurri oceanici indossava giacca e pantaloni di pelle e masticava un chewing gum. Accanto le sedeva un biondo slavato, capelli a spazzola e la barba incolta. Bevevano vino dallo stesso calice e si scambiavano baci e carezze, scrutando ogni tanto quello che avveniva al di là della porta d’ingresso del locale. 

Salutammo Lele con un cenno e ordinammo due amari. Il primo giro lo offrì Silvia, che rimase scandalizzata per il costo, e così iniziò a polemizzare con Lele:

– Lo so che è colpa degli stramaledetti turisti! 

– A proposito, hai letto il nuovo libro di Barbiero sul Pratello?

– Basta Lele, non se ne può più di tutti questi libri sul Pratello!

– Guarda che la letteratura di quartiere è l’unica che merita veramente di essere letta.

– Io invece mi godo L’apparato umano.

– Ancora leggi quel romanzetto?

– È stato un capolavoro che ha segnato la letteratura italiana e tu me lo chiami romanzetto? Pensi forse che leggere e parlare di libri di nicchia ti renda una persona più interessante?

Non appena ci sedemmo al tavolo, chiesi a Silvia di cosa parlasse L’apparato umano, e così lei cominciò a descrivermi una trama confusa in cui dei ricchi borghesi cosmopoliti, consumati dalla noia, passavano le proprie giornate a idolatrare un concetto astratto di bellezza senza rendersi conto di quanto accadeva sotto i loro stessi occhi, in quella vita quotidiana che tanto disprezzavano. 

All’improvviso, con uno scatto, il tizio con i capelli a spazzola e la bionda si alzarono e si avviarono spediti verso l’uscita. Lui parlava al cellulare e procedeva a passo sicuro mentre lei estraeva una pistola dalla giacca e sorpassava velocemente sulla destra il suo compagno. Io, Silvia, Lele e tutti gli altri clienti del bar li seguimmo fuori, increduli. In strada piombarono due volanti della polizia, circondando il palazzo di fronte al bar di Lele. Agenti armati e in tenuta antisommossa sfondarono la porta del palazzo ed entrarono. L’uomo con i capelli a spazzola dirigeva le operazioni dalla strada, la bionda manteneva l’ordine. Ci intimò di farci da parte e, cazzo, aveva una pistola, quindi indietreggiammo. Dal palazzo provenivano urla e rumori di vetri rotti, di colluttazioni. Solo in quel preciso istante mi resi conto delle condizioni del palazzo, anche se ci passavo davanti tutti i giorni: le finestre erano sfondate, la porta chiusa con un lucchetto di ferro, le pareti cadevano a pezzi; da dentro proveniva un olezzo pungente di gas. 

Il blitz durò pochi minuti. Sentimmo passi grevi venire giù per le scale. Gli agenti uscirono dalla porta scortando nelle auto tre uomini in manette, vestiti di jeans strappati e canottiere, capelli lunghi, bicipiti ricoperti di tatuaggi. I volti scavati, le occhiaie pesanti. La bionda s’infilò in una delle auto prima che entrambe le vetture partissero a razzo con le sirene spianate. Il tizio con i capelli a spazzola si voltò verso di noi e ci scrutò dall’alto in basso con un’espressione truce. Tolse dal taschino una sigaretta, l’accese e, aspirando una boccata di fumo con l’aria serena di chi ha terminato la giornata di lavoro, ci rivolse la parola:

– Mai sentito parlare dei narcopisos?

Restammo in silenzio, perplessi. E poi, ancora lui, questa volta con un sorriso amichevole:– Comunque gran bel libro, L’apparato umano!

Emmanuel Di Tommaso

Editing di Silvia Penso