racconti

Le mani

Quella sulla soglia non è mia moglie. È la proiezione del mio senso di colpa. Viene avanti, come se non ci avesse visto; poggia la valigia a terra, ripone le chiavi nel vuotatasche e dice: – Molto fine –, poi scoppia in lacrime e fugge via.

Cazzo!

Dal palco dell’Ariston Achille Lauro mi grida Oh, no noo… E poi mi ricorda che Amanda sarebbe dovuta tornare domani. 

Non doveva andare così. Da quando collabora con l’Opéra non è mai tornata di sabato. E telefona, anche, perché vada all’aeroporto a prenderla. 

– Sei sposato? – mi chiede il diavolo accavallando le gambe. 

Spengo la tv. 

Il mio sdilinquito io è riflesso nello specchio nero. Sono di fronte alla radiografia del mio vero essere.

– Che fai ancora qui, idiota – dice, – Corrile dietro, su!

Prima di alzarmi, rivestirmi e uscire di casa in un lampo saltando i gradini tre alla volta, sono rimasto in sospensione a fissare il punto dove c’era lei fino a trenta secondi prima. 

 Una volta fuori dal portone mi rendo conto che non ho addosso il giubbotto. Il vento freddo sulle braccia ricorda le cinghiate di mio nonno.

In una sgraziata sissonne fermée, il mio sguardo scorre da destra a sinistra e davanti, oltre le farnie e gli aceri e le tristi betulle. Mi muovo sul marciapiedi, nella direzione opposta ai fari delle auto, come se fossi su un tapis roulant. In preda a uno scriteriato contegno, con un tacquetè pari solo a quello di Manuel nella Sylvia di Delibes, passo rapidamente in rassegna tutte le auto rosse.

Non la trovo.

Quando il sistema nervoso smette di liberare adrenalina, inizio a sentire le staffilate di corrente fredda. 

Torno su, sperando che il demonio si sia volatilizzato. 

Mi guardo allo specchio dell’ascensore che, per la prima volta, da quando abbiamo preso casa in questa palazzina color papaya pelata, trovo a pianterreno. Sorrido. Ma nei miei occhi lucidi, ora alla mercé di un nistagmo incontrollabile, trionfano angoscia e rabbia, lucidità ghiacciata e sordo rancore per me stesso; ma, sopra ogni cosa, trionfa un’overdose di panico. Sebbene, una parte di me si senta finalmente sollevata.

La porta è socchiusa. 

Avrà pensato che non avevo con me le chiavi. Rientro e la richiudo con un intirizzito ed estatico rond de jambe.

Il salotto è rischiarato dalla tv, di nuovo accesa. La tenda è aperta. Il naso di Amadeus punta verso il balcone. L’ombra del diavolo è avvolta dal fumo di sigaretta e dai rumori ostili del sabato sera. 

– Un posacenere?

Scrollo leggermente la testa, e nello stesso istante mi si sovrappone il viso dell’ostetrica che, fuori dal reparto di neonatologia con l’espressione di Enzo Paolo Turchi a bagnomaria nell’Oceano Atlantico, mi dice che la minuscola Susan non sarebbe mai diventata grande.

Scrollo la testa. 

Il demonio smorza la cicca sul muro esterno del balcone, poi con una schicchera la lancia di sotto.

– Senti, io vado, fammi sapere com’è andata. Sai dove trovarmi.

La copia di Giulia Pauselli attraversa il soggiorno, ancheggiando su tacchi vietati dagli ortopedici, prima di uscire si volta e mi soffia un bacio.

– Aspetta… Scendo con te.

Prendo le chiavi della Citroën e il telefono, infilo il bomber e mi chiudo la porta alle spalle. 

L’ascensore è un’altra volta fermo al mio piano. Comincio a pensare che non c’è nulla di reale. Sono ancora a letto, non sto andando in cerca di mia moglie alle undici e mezza di sera e le mie labbra non sono appiccicate…

– Ahia – mi allontana –Mi hai morso.

– Scusami.

Quando le porte dell’ascensore sono per metà aperte, dice: – Non sparire.

Fuori, i fragori della strada, e le decine di occhi invisibili che ci scrutano alla luce aranciata dei lampioni, ci separano di colpo, come una forza oscura, riducono in frammenti ciò che ci ha unito fino a pochi secondi e minuti e ore fa. Più di quanto abbia fatto la presenza inaspettata e inebetita e fugace di Amanda sospesa sulla soglia. 

Ha spento il telefono. Mentre mi avvio alla macchina mi vengono in mente i suoi singoli sguardi e gesti e frasi di severa riprovazione, mi arrivano incontro come indicazioni stradali su una moto che va a trecento all’ora. 

Affronto le vibrazioni della Milano bevuta e pisciata. A finestrini tappati e con la radio accesa: la musica è l’unica consolazione nel canceroso e sregolato traffico. Per fortuna di sera i monopattini sono vietati. 

Al terzo semaforo mi accorgo che ho stretto così forte il volante che ho un formicolio alle dita. 

“Sei l’unico del corpo di ballo che non è sposato”.

“Lasciali perdere. Sono invidiosi”. 

“Un ballerino senza moglie viene subito additato come gay, e un dongiovanni come te non…”

“Che tristezza. Sposarmi soltanto per non sembrare gay?”

“Te l’ho detto: lasciali perdere”.

Il suv dietro di me strombazza. È verde. Accelero. 

Il cellulare squilla: è mio suocero. 

– Armando…

– Amanda è in ospedale.

– Dove?

– Al San Paolo.

– Ma cosa…

Chiude. 

Venti minuti dopo sono all’entrata del Policlinico. Al Pronto Soccorso mi dicono che la ballerina è stata portata in sala operatoria. Non si sa se a quella del padiglione 3, ultimo piano o a quella del padiglione 5, piano -1 o a quella del 4, piano 0. 

Richiamo Armando: irraggiungibile. Provo a fargli una chiamata con WhatsApp. Squilla, ma non risponde.

“Sono qui”, gli scrivo.

Odio l’odore del lisoformio e la mia presenza è inutile quanto un chirurgo ubriaco fradicio.

Me ne torno in auto. 

L’immaginazione cavalca e non riesco a tenerla a freno. Sono pensieri di morte. Prendo il cd di Ravel e faccio partire il Boléro che ho registrato a loop.

Ho ancora sentimenti scomposti e senso di vuoto, smarrimento e ansia diffusa. Tuttavia, già alle prime note avverto la tensione sciogliersi. Ma quando gli arabeschi invadono l’abitacolo affondo nel sedile e comincio a rilassarmi.

Per anni mi sono nascosto dietro una delle freddure di Youngman: sapete che cosa vuol dire rientrare a casa e trovare una donna che vi da un po’ d’amore, un po’ d’affetto e un po’ di tenerezza? Che siete entrati nella casa sbagliata.

Ma poi ci sono cascato anch’io: nel nostro ambiente la linea di demarcazione da viveur a gay è talmente sottile da essere trasparente. 

Io e Amanda ci sposammo in un gelido ottobre, alle Officine del Volo, a poche centinaia di metri dagli studi della Rai e da casa nostra. E lo facemmo con i soldi di DanzaIn, in cambio dell’esclusiva del servizio fotografico. 

Mezz’ora dopo il mio sì, Patrizio mi sussurrò all’orecchio: – Adesso non è che casanova si mette a fare la calza.

Avevo già dato all’addio al celibato, ma il giorno della cerimonia Amanda mi beccò con una delle cameriere. 

È lì che per la prima volta diventai una pallovale e Armando mi mostrò cos’è un grubber. 

Tuttavia Amanda mi perdonò la scappatella, attribuendo la mia indegna condotta allo stress del matrimonio, all’alcol e al fatto che i miei non erano presenti perché permanentemente residenti al cimitero. Da allora, Armando si informava su di me, mi teneva d’occhio le domeniche che eravamo a pranzo da loro; se per qualche motivo sfuggivo ai suoi radar o la figlia si sottraeva alle sue domande o era elusiva al punto da farlo insospettire, alla prima occasione metteva in atto la sua rude francesina per assicurarsi che sarei rientrato nei ranghi. 

Una donna fasciata in un trench rosso mi sfila davanti. Si infila in un’Audi nera. Va via. La seguo fino a quando non distinguo più le lettere e i numeri sulla targa. Poi è tutto un fantasmagorico susseguirsi di percezioni alterate, musica e subbuglio interiore. 

Solo qualche ora fa ero con i ragazzi alla Cantina Sudamericana per una birra. Sul muro esterno del locale era affisso un manifesto 70/100. Raffigurava per intero l’immagine di Carmen con indosso un traje de sevillana rosso scarlatto. Al centro, in un ostentato font spagnolesco c’era scritto: 

Su uno dei vetri della porta, il prestampato che informava di esibire il Green Pass all’entrata. 

Una volta dentro, però, si è avvicinato uno sbarbatello che col fare da accoglienza turistica ci ha solo detto: – Tre? Seguitemi.

Non c’era molta gente, ma ugualmente si avvertiva la canea ovattata e l’umidità corporea. La musica da pre-serata stava per sfondare gli altoparlanti di scarsa qualità. Due dei tre condizionatori erano accesi. Quello alle mie spalle, ogni tot, mi saettava la nuca col suo getto d’aria calda. 

– Allora, siete qui per Carmen o per la nostra Cubanero?

– Per entrambi – dice Patrizio.

– Io vorrei anche un panino – dice Carlo.

– Chi è Carmen? – chiedo.

– Vedrete, vedrete. 

L’esile cameriere si è dileguato tra i tavoli come uno sciatore tra i paletti. Quando è tornato ha posato le birre e gli stuzzichini sul tavolo, non ha fatto in tempo a dire “Il panino arriva subito” che gli altoparlanti si sono zittiti, le luci spente e un suono di chitarra pizzicata si è riversato nel locale.

Carmen è entrata in scena con in mano una candela. Ha questa chioma… da albero da ombra, dello stesso nero delle piume dei corvi. Sprizza luce da ogni dove. Ha questa genuinità vaporosa, avrei sentito la sua energia vibratile anche se fossi stato cieco. Lo sfolgorio dei coralli bianchi che le incorniciavano i folti e lunghissimi capelli mi arrivavano addosso come un fenomeno elettrico. Sembrava guardasse soltanto me. Quando si è avvicinata al proscenio, quelli che avevano avuto il privilegio di avere i tavoli in prima fila allungavano le braccia per toccarle i capelli. La sensualità che sprigiona è quasi insostenibile. Un gruppuscolo di grassoni, dalle facce grufolanti e gli occhi da predatori seriali, la guardavano a bocca aperta.

Quando hanno servito il panino a Carlo le luci si sono riaccese. Lei era sparita dietro le quinte. 

– Dove vai? – dice Patrizio.

– In bagno.

Mi sono intrufolato al di là di una tenda di velluto verde foresta. 

– E tu chi sei? Guarda che lo spettacolo non è ancora terminato.

Sono schizzato via, come se fossi entrato nel bagno delle signore. Tornato al tavolo, strappo un pezzo del panino a Carlo.

– Ma almeno te le sei lavate le mani?

Mi sbraccio per avere l’attenzione di un cameriere. Si è avvicinata una ragazza bionda con la coda di cavallo.

– Una birra.

– Due – dice Patrizio.

Alla fine dello spettacolo ci ho riprovato. 

Mi sono alzato con il cuore congelato; si è sciolto solo quando sono riuscito a infilarmi di nuovo dietro le quinte, ha preso a battere più forte quando me la sono ritrovata davanti: il sangue ha rapidamente raggiunto il punto di incandescenza tanto da mandarmi dei lampi accecanti alla testa, da farmi perdere il controllo e avventarmi su di lei come lo farebbe una bestia affamata.

Mi ha messo le mani sul petto, per tenermi a distanza sono andato all’indietro quasi come in un cambré.

– Calma, calma, caro. Ce l’hai una casa o vivi ancora con la mamma?

– Sei sicuro?

Mi chiede prima ancora di sfilarsi il soprabito. 

Continuo a baciarla dappertutto mentre le mie mani cercano i suoi seni. Profuma di ogni altra cosa fuorché di zolfo. L’attiro verso il divano. Mi inginocchio e le sfilo le mutande.

– …

– Pensavo lo sapessi. 

Ha il cazzo. Ed è grosso come un silo. 

Lo guardo come se non ne avessi mai visto uno. 

Lei mi guarda come se si aspettasse da me una brutta reazione. 

Ma in quell’attimo, le mie mani hanno svelato ciò che mi ostinavo a voler nascondere: lo palpo, lo liscio, lo coccolo, lo impugno come fosse un antistress. Dentro di me parte il fortepiano di Hayd e lo prendo in bocca; è una fame atavica che sazio solo andando su e giù con la testa. Sono così avido che non sento le chiavi nella toppa.

Mentre Amanda mi guardava, mi sentivo come se avessi appena piegato le sbarre e, oltrepassatele, fossi evaso dal mio pluriergastolo. 

Negli anni ho costruito pazientemente il mio monumentale edificio, dimenticandomi di creare una via di uscita. Ne sono rimasto intrappolato fino a oggi. La provvisorietà ha ridotto tutto sullo sfondo, reso tutto insignificante, schiacciato senza la minima prospettiva. E ora mi angoscia pensare che tutto il tempo perso non tornerà più. E mi commuove la mia fragilità. 

La mia giostra mentale smette di colpo quando qualcuno bussa al parabrezza, apro gli occhi e vedo la mano increspata di un signore con una coppola.

Abbasso il volume e il finestrino. 

– Sta bene?

– Sì, sì, grazie, stavo solo riposando gli occhi.

– Mi scusi.

Quando l’anziano è a cinque metri dalla mia auto, scoppio a piangere. 

Dio mio, non farla morire, ti giuro che le parlerò con il cuore tra le mani.

***

Ho scritto questo racconto un paio di settimane dopo essere uscita dal coma. È la mia prima volta; per favore, siate indulgenti. 

Tuttavia, ditemelo apertis verbis se devo trovarmi un altro passatempo. A patto, però, che non richieda l’utilizzo delle gambe.

Un abbraccio.

Amanda

Gino Ciaglia

Editing di Greta Salvetti