racconti

Incastri – pornoracconto operaio

Quella volta sullo scuolabus mi si è incastrato un dito nel meccanismo della rototraslante. 

Mi ero seduto sulla cassetta del dispositivo, mi ero messo lì pensando di non dare fastidio, non c’erano posti liberi, ma appena appoggiato mi era scivolato l’indice nella scanalatura del braccetto, quello che, ruotando, prima spinge in fuori la porta e poi la sposta, traslando, in avanti, così alla partenza, insieme alla rototraslante, fra gli ingranaggi si era chiuso anche il mio dito. 

D’altronde le nostre mani sono fatte per gli incastri: si stringono nei saluti o si tengono per la paura, si sfiorano nell’amore e si afferrano nell’amplesso, si congiungono nelle preghiere e nel dolore; quindi mi ero spaventato, ma mi era sembrato quasi normale e non dissi nulla all’autista, gli ingranaggi non mi stavano stritolando il dito. Solo non potevo tirarlo fuori e mi vergognavo, si sarebbero tutti spanciati dal ridere, già non sopportavo di essere preso in giro, mai mi sarei messo a frignare come una femminuccia sul pulmino. Insomma avevo capito che non dovevo preoccuparmi per il dito, che la reputazione contava di più. 

Di lì a poco sarebbero iniziati altri tipi di incastri: mani sulla faccia, gomiti alla gola, calci nella pancia, corpi attorcigliati in una rissa, sangue mischiato a sputo, dita in gola a cercare un vomito che libera. Ho avuto un’adolescenza alcolica e violenta, come tutti al mio paese, ma io in un’estate ero cresciuto di dieci centimetri e mi sentivo invincibile, perciò mi sono distinto per numero di episodi e gravità delle ferite inflitte. Subite mai. 

Nemmeno quella volta del pulmino ci furono conseguenze: alla prima fermata, con la riapertura della porta, il meccanismo mi restituì l’ostaggio, sporco d’olio e leggermente ammaccato, ma tutto intero, unghia compresa. Sarà per quello che l’anno dopo mi sono trovato a fare il meccanico in questa officina, due ponti sollevatori che cigolano quando salgono e sfiatano quando scendono, un tornio arrugginito, un trapano a colonna e un banco morsa di legno; due colleghi, uno che parla troppo e l’altro che sta sempre zitto e un capo di cui è meglio se non parlo. Da nove anni sono qui a riparare mietitrebbie, voltazolle e rotopresse, perché avendo preso confidenza con le leve e le ruote dentate, e presto con le pulegge e le cinghie, con gli alberi a camme, le bielle e i pistoni, pensavo di aver stretto un patto con le macchine una volta per sempre. Infatti è filato tutto liscio, fino a oggi.

Anche grazie a Matilda, che ha chiuso di colpo il periodo della violenza e del sangue.

Dal nostro primo incontro – a una festa di capodanno, io ero al quinto amaro, lei probabilmente al terzo gin-tonic, avevo involontariamente infilato un braccio nella tracolla della sua borsetta, passando, e lei trovandosi scippata, aveva offerto un bacio come riscatto – i soli incastri che mi hanno tolto il sonno sono stati quelli erotici: gli intrecci delle lingue fra i denti, la testa, la sua o la mia, fra le cosce, le mie o le sue, le gambe attorcigliate alla schiena e le mani che si afferrano ai fianchi, le unghie nella carne, la faccia fra i seni che profumano sempre, il mio corpo forte nel suo meraviglioso corpo caldo. 

Matilda mi ha fatto conoscere l’intera meccanica dell’amore e, assorbendo le mie energie in eccesso, mi ha tenuto lontano dai guai. La rabbia che prima si traduceva in pugni ora la trasformavo in sesso. Le stavo sempre addosso, e dentro, dentro ovunque, al punto che sentiva il mio peso, la mia presenza in lei anche quando eravamo distanti, e se non erano le mie mani a toccarla dovevano essere le sue su di me. 

Ma non è solo questo: se una vecchia conoscenza mi provocava in un bar o anche solo se un passante dava un’occhiata a Matilda per strada, su un treno, in spiaggia, se per qualsiasi motivo mi alzavo per spaccare la faccia a qualcuno, lei mi acciuffava al volo, mi trascinava in bagno, nelle cabine spogliatoio, dietro a un albero, sotto un portone: – Non pensare a niente e scopami –, diceva allora, sbottonandomi la patta, spogliandosi del reggiseno, scostando le mutandine, strusciandomisi addosso.

Matilda è come me, lo è ancora adesso, credo, nel sesso trova la soluzione dei contrasti, dei litigi, della noia, della paura, del dolore. 

Ce la siamo spassata, insomma, anni di pura follia e di libertà, di fuochi d’artificio in mezzo alla folla, a finestre spalancate, nei giardini delle case private, senza pudori in pieno giorno e senza riguardi sotto le stelle, almeno finché lei non ha deciso che il sesso pure alla morte doveva trovare rimedio. 

Mani hanno estratto una vita dal suo ventre e nuovi incastri ora dettano ritmi e abitudini: braccia cullano un corpo addormentato, mani reggono i primi passi, gambe scalciano a cavalcioni sulla schiena. Così adesso ho un figlio piccolo. Non avrei mai detto. Ho ventitré anni, una moglie giovane, un figlio di undici mesi e un lavoro onesto: sto a posto.

O sto incastrato, ma non lo ammetto, come quella volta, mi ritrovo a pensare azionando il rullo della rotozappa su cui lavoro da stamattina, per vedere se funziona. E poi è questione di un attimo, una stringa delle scarpe si attorciglia a una lama e io vengo catturato: non rivedo la mia vita in un lampo, mica succede quella roba lì, ho solo il tempo di capire che.

Giovanni Locatelli

Editing di Elena Chiattelli