
Giardino segreto
La camera ardente è piena di fiori. Non si negano a nessuno, la morte reclama rispetto, a prescindere dalla vita che è stata. E non si nega a nessuno un ultimo saluto. Eccoci allora, parenti, amici, conoscenti. Siamo così tanti che mi terrorizza l’idea di non riuscire a cogliere l’attimo.
Poi lo trovo. L’impresario funebre chiede con gentilezza ai presenti di lasciare la sala entro dieci minuti. L’ultimo a uscire è mio marito con in braccio la nostra bimba; mentre chiude la porta mi guarda e mi fa un cenno di assenso. Lui è l’unico che sa. Lo sento rimanere appena fuori, a guardia, e unirsi al brusio soffocato dei partecipanti.
Mi avvicino alla salma. Infilo una mano nella tasca interna della sua giacca e ne estraggo uno splendido orologio da taschino, antico. È un Longines d’argento. Lo metto nella mia borsa da cui intanto tiro fuori Il giardino segreto di Frances Hodgson Burnett, la copia più piccola, sgualcita e malridotta che sia riuscita a procurarmi. Ci ho messo dentro una vecchia foto e ho scritto una dedica sul frontespizio. Gliela infilo tra i pantaloni e il calzino, dietro il polpaccio freddo.
Una scena bizzarra. Una donna sulla trentina, che invece di pregare davanti a suo nonno placidamente disteso in una bara di legno scuro, gli ruba l’orologio e nasconde un libro sotto la sua gamba.
Avevo dodici anni e dei bei boccoli biondi. Tutti dicevano che ero bellissima e che sarei diventata una splendida donna. Io, nell’innocente civetteria della mia età, ne ero orgogliosa.
Un giorno accompagnai il nonno alla bottega di un artigiano dalle mani svelte, che riparava e vendeva quei piccoli miracoli dell’ingegno umano, composti di lancette, molle, ingranaggi, quadrante e cassa.
Mentre curiosavo tra le mensole, sfiorando apparecchi di ogni tipo esposti al pubblico, mio nonno confabulava con l’orologiaio. Era un ometto sulla quarantina, decisamente poco attraente e sovrappeso, con capelli neri spettinati, piccoli baffi e un paio di occhialini che lo invecchiavano. Mi lanciarono un paio di sguardi. Pensai fosse per controllare che non facessi qualche danno.
Dopo pochi minuti il tizio paffuto aprì un cassetto del bancone e tirò fuori un orologio da taschino, in argento. Era molto bello. Lo porse al nonno, che lo tenne tra le dita rimirandolo con la stessa luce negli occhi che ha una madre quando abbraccia per la prima volta il figlio appena partorito. Strinse la mano dell’uomo sorridendo e venne da me, annunciandomi che era ora di andare via. Salutammo l’orologiaio dalla porta e, accompagnati dal tintinnio della campanella di ingresso, tornammo verso casa.
Il nonno era molto soddisfatto. Mi raccontò di aver adocchiato quell’orologio da tempo e che c’era voluta una lunga trattativa per concludere l’affare.
Il giorno dopo mi mandò dall’orologiaio da sola, ficcandomi un paio di banconote nella tasca del prendisole giallo, che era il mio preferito e mi faceva sentire molto carina. Mi disse che erano gli ultimi soldi che gli doveva.
Quando spinsi la porta, il campanello della bottega suonò allegramente. Salutai. L’orologiaio rispose con cortesia. Mi avvicinai al bancone e vi posai sopra il denaro, specificando diligentemente ciò che mi aveva detto il nonno. Lui lo prese e lo mise in cassa, ringraziandomi. Poi mi chiese se volessi scattargli una foto mentre era al lavoro. Voleva farla ingrandire, per incorniciarla e appenderla in bottega.
– Mi farebbe sembrare più professionale. Ti andrebbe di farmi questo favore?
Accettai. Ai ragazzini piace sempre quando un adulto affida loro cose importanti.
Dallo stesso cassetto nel quale fino al giorno prima conservava l’orologio del nonno, prese una macchina fotografica. Fece il giro e me la diede, dicendomi che dovevo semplicemente guardare nel buco, inquadrare e scattare. Poi tornò dietro il bancone e si mise in posa, tenendo in mano la cassa di un orologio su cui stava lavorando e una pinza. Cercai di centrare al meglio la scena e scattai.
Mi ringraziò ancora. Mentre rimetteva a posto la macchinetta, mi propose di rimanere ancora, per imparare qualcosa sugli orologi. Ero curiosa, annuii. Chiuse a chiave la porta di ingresso: – Così i clienti non verranno a scocciare –, disse.
Mise una sedia accanto alla sua e iniziò a mostrarmi l’interno della cassa che teneva in mano durante la foto.
Fu quando fummo più vicini e iniziai a sentire la sua mano sulla pelle della schiena che capii, per la prima volta nella mia vita, che essere una bella ragazzina in prendisole può attirare anche cose brutte, oltre che complimenti e sorrisi.
Ho passato anni a fare a botte contro il ricordo di quei momenti. Le sue dita che mi sfilano le spalline. I polpastrelli sui miei seni ancora acerbi. I miei muscoli che non rispondevano alla voglia di fuggire via. Paralizzati, irrigiditi, immobilizzati. La mia rabbia per il fatto che sì, già pensavo un po’ ai ragazzi, ma non così, non sognavo nessun orologiaio grasso e viscido.
Gli puzzava anche l’alito. Ne sentii l’odore quando mi sussurrò qualcosa, tra un sospiro e l’altro. Disse che era valsa la pena di dare via il suo oggetto più prezioso in cambio di quel pomeriggio. Come un’ultima impietosa martellata su un chiodo già piegato, mi crollò addosso la verità: la vera banconota con la quale il nonno aveva pagato ero io.
Ho un ultimo ricordo, oltre alle lacrime che scorsero ininterrotte. La mano dell’orologiaio che mi alza il gonnellino e poi, poco prima di insinuarsi dove io stessa arrossivo di pudore quando osavo farlo, di nuovo la sua voce calma.
– Bene, piccola… ora sentiamo com’è il tuo giardino segreto.
È strano come io mi sia liberata del passato e come sia venuta in possesso della foto che avevo scattato quel giorno. Non ha più alcuna importanza. Come ho detto, ora è tra le pagine del libro. Sul frontespizio ho scritto: Spero che il giardino segreto a cui siete destinati sia l’Inferno.
Vado verso la porta ed esco. Restituisco il cenno di assenso a mio marito e prendo in braccio mia figlia. La cullo stringendola forte e sento il profumo dei suoi boccoli biondi, gli stessi che avevo io. Ma lei, lo giuro, non vivrà mai ciò che è toccato a me. Poco dopo, l’impresario entra nella sala con due colleghi. È andata.
Ho un impulso paranoico. Infilo una mano nella borsa. Sento il metallo freddo dell’orologio. La paranoia si dissolve. Sono passati quasi vent’anni ed era antico già allora, oggi varrà una fortuna. Lasciarlo lì sarebbe stata una follia. E poi il nonno ci teneva così tanto, voleva davvero portarselo nella tomba. Lo venderò.
Piergiorgio Andreani
Editing di Elena Chiattelli

