racconti

Il carillon

Ho le mie abitudini. Non voglio chiamarle manie, perché è un termine che non mi piace, sa di manicomio e rotelle mancanti. La mia testa funziona benissimo, soltanto che sono piuttosto scaramantico e mi affeziono troppo alle cose. Agli abiti, per esempio: a questo impermeabile, a questo cappello. Mi sono affezionato anche a questa panchina. Se la trovo occupata mi innervosisco ed evito di sedermi su qualche altra libera. Vedo tutto il viale da qui, la gente che passeggia; c’è la fontanella vicino, e quest’albero che gli fa ombra è il più bello del parco, anche se oggi pomeriggio non c’è bisogno di nessuna ombra e fa addirittura un po’ freddo e tra poco, c’è da scommetterci, pioverà. 

Di fronte c’è una coppietta, ma non posso farci niente. Questa è la mia panchina e, se vogliono, possono pure spostarsi, c’è tanto spazio. Ma loro se ne fregano, e io non posso fare a meno di guardarli. 

Arrivano delle folate di vento, i capelli della ragazza vengono spostati tutti da un lato, sul volto del ragazzo, che continua a baciarla. C’è l’esplosione di un tuono. Per un attimo si staccano, cercano con lo sguardo il cielo, il ragazzo sussurra qualcosa, forse dice: “Non aver paura, è solo una nuvola di passaggio”. Poi incomincia a piovere, ma loro non si scompongono affatto. Vorrei restare a guardarli, ma certe cose alla mia età sono rischiose. Voglio dire, c’è da prendersi un malanno. Mi alzo il bavero dell’impermeabile. In realtà cadono poche gocce spinte dal vento, ma questo è solo l’inizio. Non è certo una nuvola passeggera, ho qualche annetto in più di quello sbarbatello e so riconoscerli i veri temporali. Ho lavorato nell’Anas per trent’anni, ero caposquadra. Quando il tempo si metteva al peggio, avvertivo i miei ragazzi, dicevo: “Ecco, sta per scatenarsi il finimondo”. C’era sempre qualche spiritoso che diceva: “Ma capo, non vede che c’è il sole?” Dopo nemmeno cinque minuti quel pallido sole veniva coperto da nuvole nere come l’inchiostro che cominciavano a scontrarsi tra loro, come enormi blocchi di metallo. In trent’anni ne ho visti tanti di temporali, alcuni davvero spaventosi. Una volta le nostre macchine furono trascinate per parecchi metri da un torrente in piena. “Vi eravate appisolati, in quelle macchine” dice mio figlio, quando racconto questa cosa. Non fa che prendermi in giro. “Beato te” dice. Pensa che io, per trent’anni, invece di lavorare, me ne sia stato con le chiappe al sole. Mi tratta come un ladro. “Che culo hai avuto, papà!” mi dice. Se non fosse mio figlio, gli darei un bel pugno in faccia. Abbiamo spalato metri di neve e di fango, rappezzato buche, risistemato guard-rail sfondati da auto fuori controllo, abbiamo perfino recuperato feriti e cadaveri, abbiamo rimosso alberi caduti sulla strada, carcasse di animali investiti. Ho tentato di piazzare anche lui nell’Azienda, ma non ci sono riuscito. Un giorno dovevamo andare a parlare con un assessore provinciale, un pezzo grosso, ma all’ultimo momento mio figlio ha detto che non se la sentiva. “Comunista del cazzo!” gli ho detto. “Arrangiati, adesso!”

Scruto il cielo nero solcato dai fulmini e m’incammino a passi svelti lungo il viale, tenendomi ben stretto il cappello sulla testa. Un pesante acquazzone mi coglie all’altezza dei bagni pubblici e così scendo di sotto, per ripararmi. Ne approfitto per svuotare un po’ la vescica. C’è il tavolino col cestino per le monete, ma la signora non c’è. Piscio, ma dopo aver finito sento che alcune gocce continuano a uscire. Succede sempre così. La signora è al suo posto. È spuntata fuori dal nulla. Mangia un panino. È una signora di buon appetito. La saluto, lasciando cadere cinquanta centesimi nel cestino. Si aspettava di più. Dà un morso al panino, ma è come se l’avesse dato a me. Le sono antipatico. Forse perché, al contrario di tanti che conosco, non le sbavo dietro. Faccio la mia brava pisciata e le dico buongiorno o buonasera, e via per la mia strada.

All’inizio, quando ho incominciato a venire al parco, stavo per scegliermi una panchina proprio qui, vicino all’ingresso dei bagni, ma poi ci ho pensato un po’ su e ho capito che non era una buona idea. Tutto quel viavai di vecchietti come me, con le patte mezze aperte, bagnate. Non li sopporto, voglio stare alla larga da loro.

Ancora piove. Aspetto un po’, ma credo che durerà per un pezzo, ne ha tutta l’aria. Mi faccio coraggio. Non posso certo restarmene qui. Arrivo a casa bagnato come un pulcino. Mia nuora non c’è. Mi cambio, mangio un biscotto e poi mando giù una bella aspirina. Gioco d’anticipo. È la soluzione migliore. Poi vado nella stanza dove dormono mio figlio e mia nuora e dove un tempo dormivamo io e mia moglie. Apro il bauletto col carillon. È la prima cosa che faccio quando mi intrufolo in questa stanza. Mi piace vedere la ballerina che ruota, sentire questa dolce melodia. Ogni sera, prima di infilarci nel letto, e ogni mattina, svegliandoci, io e mia moglie lo aprivamo, questo bauletto. Era un modo come un altro per darci la buonanotte e il buongiorno. Mi distendo sul letto. C’è pieno di pupazzi di peluche qui e anche sul comò e appesi ai muri. Mia nuora è come una bambina. Mi chiedo dove sia andata e comincio perfino a sospettare che abbia un amante. Tutto è possibile. Sento la pioggia che sbatte sui vetri, sento i tuoni e penso a mia moglie. Aveva paura dei tuoni e si stringeva a me e io ero contento quando pioveva così. Quando eravamo giovani, pensavamo di aver così tanti anni davanti a noi e quegli anni sono volati via in un lampo e adesso anche i ricordi cominciano a perdersi tra la nebbia della mente. Mi alzo e apro i cassetti del comò. Non cerco nulla di particolare. Vedo le mutande di mia nuora. Sembrano di seta, ma certamente non lo sono. Nere, la maggior parte. Piccolissime. Rimetto tutto a posto e vado a stendermi di nuovo sul letto. Sono quasi le otto e di mia nuora nessuna traccia. Mi tratta come un bambino, anzi peggio, non mi considera affatto, come se non esistessi. Non chiude nemmeno la porta quando va in bagno. Non sa che in questa vecchia carcassa si nasconde ancora un giovanotto pieno di pulsioni e di slanci erotici. A volte, penso che dovrei andarmene da questa casa, lasciarli da soli, a vivere la loro vita.

Sento il rumore del portone ed esco come un fulmine dalla stanza. È lei, mia nuora. Fradicia.

– Che tempo! – dice. Si toglie le scarpe e le calze, davanti a me. Va ad asciugarsi i capelli. La scruto un po’, come per cercare un segno della sua infedeltà, ma non ci metto impegno. Non me ne importa più di tanto. È la loro vita, in fondo, e io ho già tanti problemi. Quali? Beh, uno è che ho settantasette anni. Un bel problema. Tengo un gobbetto sotto il cuscino, ma non serve certo a fermare il tempo.

Mia nuora torna e si mette a cucinare. Io apparecchio la tavola.

– Aspettiamo Gianni – dico.

– Che vada al diavolo – fa lei. Non c’è altro da dire. Mangiamo. Lei non solleva mai lo sguardo. Appena Gianni troverà un nuovo lavoro tutto si aggiusterà, ne sono certo. Ma lei, mia nuora, non la pensa così. Mi chiedo come si fa ad andare avanti in questo modo, senza alcuna speranza, buttando via ogni giorno della propria vita in stupide liti, musi lunghi e silenzi.

Mio figlio ha fatto il camionista, un lavoro duro e massacrante. L’ha fatto per tre anni. Una notte, mentre era fermo su una piazzola, un paio di delinquenti si sono avvicinati, hanno rotto il vetro e gli hanno puntato una pistola in faccia. Che poteva fare? Farsi uccidere? L’hanno lasciato a piedi sull’autostrada, in piena notte, e si sono portati via il camion con il carico di elettrodomestici. Quel bastardo del datore di lavoro lo ha licenziato in tronco. Roba da farti uscire di senno. Roba da pazzi.

Me ne vado nel mio stanzino buio. Mi butto sul letto e cerco di prendere sonno. Il gobbetto sta qui, sotto il cuscino. È una figura, non un gobbetto di legno o di plastica. Uno così lo uso come portachiavi. Non manca qualche bel corno sparso qua e là, nei punti strategici. Anche mia moglie ne portava uno nella borsa, ma non le è servito a niente. 

È arrivato Gianni. Non perdono tempo. Incominciano subito a litigare. Poi mia nuora scappa nella stanza da letto. Lui la raggiunge e succede il finimondo. Mi tappo le orecchie. Non voglio sentire. Poi mi alzo. Non posso restarmene così. Gianni sta uscendo dalla stanza. Gli sono davanti, ma non mi degna di uno sguardo. Se ne va via, sbattendo la porta. Mia nuora piange. Se ne sta sul letto, a pancia in giù. – Calmati – le dico. Le sfioro la schiena. La stanza è tutta sottosopra. I pupazzi per terra. Cerco di mettere ordine. C’è anche il carillon per terra. Lo raccolgo. Funziona. Dico a mia nuora: – Guarda, funziona –, lei lo prende e se lo tiene stretto al petto. Vorrei abbracciarla, vorrei dirle qualcosa di importante, sull’amore, per esempio, o sulla brevità della vita e sul valore del tempo, ma non sono molto bravo con le parole. Mi limito a dirle:

–Buonanotte.

–Buonanotte – si limita a dirmi lei.

Mario Greco

Editing di Greta Salvetti