editoriale

Marzo, Tu quoque, Brute, fili mi

Un uomo, qualche tempo fa – non ricordo bene a quale evento letterario stessi partecipando –, per segnare il suo numero di telefono e l’indirizzo di posta elettronica, strappò una pagina di un libro, scrisse, in un margine, quel che doveva e inserì quel foglio in un altro libro. 

È un regalo, mi disse porgendomi quell’assurdo assembramento, ci sentiamo presto. Un sorriso, un ciao con la mano e non lo vidi più.

Avevamo scambiato giusto qualche parola ed ero piacevolmente colpita ma anche un po’ stranita per quel gesto: sì, insomma, avrebbe potuto chiedermi un pezzo di carta o, che ne so, segnare tutto sulle note del cellulare invece di impiastricciare di blu un foglio che voleva narrare qualcosa e che non avrebbe più potuto farlo per via di quell’insensata interruzione. 

Ad ogni modo, tornata a casa ho riposto il romanzo nello scaffale e, poco tempo dopo, il mio ippocampo aveva archiviato l’episodio nella sezione: “memoria a lungo termine”. Fino a qualche giorno fa, quando, nello scegliere il libro da leggere, ho ricordato quel particolare. 

Non ho mai creduto alla storia delle congiunzioni astrali, ma trovarmi a sfogliare, a distanza di tempo, quel libro, ripescare quella pagina orfana – 107 fronte, 108 retro – e leggere queste righe: Come al solito, la banda s’era infoltita a poco a poco di amici raccolti lungo il percorso, come nella libera marcia d’una orda che muovesse alla guerra., l’ho trovato davvero significativo. 

Con lo scotch ho attaccato quella reliquia ad un angolo del mio tavolo di lavoro e ogni tanto lancio un’occhiata in quella direzione. Non saprei descrivere bene cosa provo verso quella parola [G U E R R A], tutt’un tratto diventata concreta: costernazione, impotenza, angoscia. Forse tutte queste cose insieme. Allora decido di fissarmi sulla scritta in blu e mi dico che dovrei scrivere a quel tizio, telefonargli magari. Poi non lo faccio. Perché dovrei sentire qualcuno che tratta male i libri? Quello che torno a fare è rileggere quel pezzo che in realtà non ragiona affatto di conflitti, strategie militari e altro: l’autore – o l’autrice, proprio non saprei –, ha usato quella parola [G U E R R A], come metafora e, tutte le volte che il mio sguardo accidentalmente o volontariamente, ci finisce sopra, mi scuote come – se non peggio – il 25 febbraio scorso. 

No, per carità. Non voglio affrontare questo argomento: non ho le competenze per discutere di queste cose, né fare previsioni. Non sono nessuno tra le alte sfere politiche, economiche e, perché no, pure celesti, per condannare. Sono solo una voce in mezzo a infinite altre che supplicano razionalità, clemenza, umanità. E mica solo per l’Ucraina. Sono così tante le battaglie [per cosa poi?!] che serpeggiano nel mondo. Pare di stare [da sempre?] in 1984 di Orwell, in un mondo dove non ci sono uomini – banali esseri viventi – ma alleati e nemici di altri alleati da eliminare. Senza pena e sensi di colpa. 

Ci meritiamo l’estinzione, dico a voce alta ai muri dello scantinato dove mi sono rifugiata tra scatoloni e puzza stantia di muffa. C’è di tutto qui: francobolli, una copia de Il Giardino segreto, un pupazzo-koala senza un occhio e altre cianfrusaglie dell’infanzia. Poi, finalmente, trovo quello che stavo cercando: la scatola di RisiKo. Prendo due carri armati da mettere accanto al mio foglio-monito e il regolamento del gioco. Ho intenzione di studiarlo nel dettaglio, vorrei fugare ogni mio dubbio riguardo la possibilità che i potenti, i politici – sì, insomma, quelli che non si sporcano le mani nelle battaglie, ma danno il via al segnale di morte –, abbiano scambiato la guerra per una partita a RisiKo.

Risalendo le scale, la luce va via.

Buio totale. 

Sono terrorizzata, pietrificata da quel buio pesto che pare possa portare un rischio maggiore di farmi male, più forte della paura che sto provando. Non riesco a reagire, a pensare e non so bene quanto tempo resti in questa posizione. 

Devo solo arrivare in cima alle scale, dico ora gridando e mi incoraggio un po’, così alzo un piede nel vuoto che, prevedibilmente, atterra su un altro gradino uguale a quello dove stazionavo un attimo fa. Poi luce fu, di nuovo. Schizzo su per le scale e solo quando rientro nel mio studio mi sento al sicuro.

Non è forse simile la situazione – certo, moltiplicata per un fattore infinitesimale – che in molti sono costretti a vivere in queste ore? E non è proprio quello che succede ai rapporti, di qualunque natura siano, quando qualcuno decide – in alcuni casi impone – di farli deragliare? In tutti i casi, credo che ci sia un comune denominatore: la mancanza di qualcosa di fondamentale. Per esempio la fiducia. 

Poso i carri armati di plastica, prendo il mio taccuino e appunto:

Marzo, Tu quoque, Brute, fili mi.