racconti

Apolide

Osservo per un attimo la stanza: è grande e luminosa. Ci sono alte pareti a vetri e il pavimento in parquet, e tavoli in legno chiaro dai contorni rossi. Sembra un ristorante, ma non faccio in tempo a fissare l’idea che sento suonare la sveglia. La spengo, sono le sei ed è ancora buio: continuo ad alzarmi alle sei, anche se non ho più un lavoro.

Non mangio, mi vesto come se fossi un Peter Pan che si toglie l’ombra e se la rimette. Cerco di fare piano per non svegliare Elisabetta, lei ormai è abituata a dormire fino alle sette, quando deve chiamare le bambine, preparare la colazione, farle vestire e portarle a scuola in orario. Solo a pensarci, mi sale la nausea.

Quando ho conosciuto Elisabetta non sognavo altro: il suo volto nella luce del mattino, il profumo del caffè, i figli che saltano sul letto per svegliarci. Ora, la casa è immersa in un silenzio mortifero, e io non lo sopporto, devo scappare, rifugiarmi in un sogno. 

Il mio paradiso è solo a venti minuti di autostrada: piccolo e basso, l’autogrill Brugnato Est sembra volersi nascondere tra le siepi e il guardrail. Il cartello con la P mi scorta fino al parcheggio deserto. Da fuori sembra quasi abbandonato, ma io so che non è così: non appena apro la porta sento, finalmente, il profumo del caffè, poi le luci calde su di me, le pareti a vetri, il legno del pavimento. Sulla destra i tavoli del ristorante, davanti il bancone profumato del bar, a sinistra il negozio e, in fondo, la porta luminosa del bagno.

Ordino come al solito la mia colazione alla barista col cappellino rosso. È la stessa di tutti gli autogrill d’Italia, sempre lei, sempre uguale, sempre stanca, ma con un meraviglioso sorriso di cortesia che ogni volta mi commuove. Qui, seduto al tavolino, io sono al mio posto, questo luogo è stato pensato per me cliente, senza compromessi, strappi, dolori o urti di sorta: è perfetto come un algoritmo: entrare-ordinare-pagare-sedersi-mangiare-uscire-grazie-e-arrivederci. 

Gli estranei che si trovano qui non sono pericolosi: vengono addolciti dall’abbraccio delle pareti, e da stranieri si trasformano in ospiti, in figli ritrovati dopo una giornata di scuola, o di lavoro. Mi sento vicino a tutti loro: camionisti, corrieri, immigrati, famiglie, turisti. Siamo tutti qui per lo stesso motivo: sentirsi a casa.

Passo la giornata vagando per il negozio, ogni tanto acquisto qualche libro per passare il tempo, e qualcosa da bere. Il pranzo lo faccio sempre al self service mentre rispondo ai messaggi di Elisabetta che, di solito, mi manda aggiornamenti sulle bambine. Io visualizzo e reagisco con qualche emoticon, giusto per farle capire che esisto, anche se ormai quella da cui lei mi scrive non è più casa mia.

Da un paio di giorni ho preparato una confessione per Elisabetta. L’ho buttata giù sui tovaglioli marchiati con la A rossa e bianca. La ricopierò sul cellulare e gliela invierò. Non so perché l’ho scritta, è stato un momento di debolezza. So che a un certo punto, osservando tutti i miei fratelli e le mie sorelle entrare e uscire da qui, ho capito: Brugnato Est è un’amante gelosa, non ammette nessun altro legame. Qualcosa dentro mi ha suggerito di dire la verità a Elisabetta, la mia compagna, la madre delle mie bambine. Ma perché? La giornata scorre intorno a questa domanda. Se riuscirò a darmi una risposta e a trovare il coraggio, allora le telefonerò e le leggerò finalmente il copione che ho scritto sui tovaglioli del ristorante, per celebrare il nostro ultimo atto. 

Per adesso, le uniche risposte certe arrivano da Apollo, il panino con la cotoletta che mangio a merenda, fra il self service del pranzo e quello della cena. Ormai mi conoscono, e ne tengono sempre da parte uno per me, come le lattine di Coca, il caffè, l’acqua, come il deodorante al limone nel bagno degli uomini. Anche le pulizie nella toilette le fanno due volte al giorno perché sanno che a me piace andarci solo se è ben pulito. L’autogrill di Brugnato Est è stato pensato da Dio in questo punto e in questa forma solo per me, solo per permettermi di vivere il mio sogno di vita, mentre in casa, ormai, fingo di essere chi non sono.

Davanti a me c’è un padre con i suoi figli, anche lui ha ordinato un Apollo. Ridono, sono complici, condividono il panino. Ecco perché ho scritto questa lettera, io voglio essere come lui.

È già buio, è ora di tornare. Ho il cellulare nella mano destra, nella sinistra il copione. Mi alzo dal mio tavolino per l’ultima volta, esco. Tornerò nella realtà.

Fuori c’è lei, la barista in pausa sigaretta. Potrebbe essere la ragazza di stamani, o un’altra, non lo so: lei è tutte le bariste di tutti gli Autogrill d’Italia, chiunque sia. Mi guarda con un sorriso giallo di nicotina, ingrandito dalle occhiaie: – Buonasera signore. Torni a trovarci. 

La osservo in silenzio, per un secondo: è lei Elisabetta? È lei le mie figlie? È lei mia madre, mio padre, la mia coscienza? Accartoccio il tovagliolo e lo getto nel cestino di granito con il tappo rosso. Spengo il telefono e decido di rientrare, ritorno al mio tavolino, il mio posto: resto a casa.

Lorenzo Del Corso

Editing di Elena Chiattelli