racconti

La soffitta

Camminavo sulla riva della Senna.

Eri distratta – mi disse poi -, toccavi il dorso dei libri impolverati sui banchi dei robivecchi, sistemavi una ciocca di capelli sfuggita al cappellino e ti fermavi a guardare dal parapetto cosa ci fosse giù. Non c’eri per nessuno, solo per te. 

Lui seguiva il mio profilo con le dita sporche di viola e di blu, la pelle che odorava di acquaragia mentre lo baciavo. Eravamo già nella soffitta. Eravamo già Anne e Lucienne. Cacciata dalla casa del padre, dalle preghiere, dal collegio e dalle ragazze per bene. Era accaduto in fretta: la lite furibonda, lo schiaffo, la maledizione di mia madre. Rimaneva una stretta dentro per le cose perdute: l’affetto lasciato a essiccare da qualche parte, la stanza dove sono stata bambina, la carta da parati a fiori, il letto a baldacchino. Addio bambola, armadio dei segreti e addio anche alla cagnolina Lulù. Addio a me stessa ingenua e adolescente. Addio.      

E nulla importava: l’amore mi ha liberata, dicevo a lui quando i sensi di colpa e della fame bussavano alle costole. 

Del resto, anch’io l’avevo notato lì, sulla riva della Senna. Sotto il cielo terso, dipingeva una borghese intabarrata che lo guardava speranzosa, in attesa di vedere una sé stessa migliore sulla tela. Lui le sorrideva ogni tanto di rimando e il sorriso gli illuminava il viso, sembrava gli si allargasse lo spirito. Quando mi si era avvicinato avevo sussultato di stupore. 

– Signorina, il suo stivaletto è slacciato, permette? 

La scusa più banale per parlarmi, per costringermi a guardare gli occhi di mogano, i lunghi capelli neri, ribelli nel vento, l’altezza magra delle membra, il cappotto liso, la sciarpa fuori misura. Non sapevo ci si potesse innamorare su due piedi, entrare così tanto dentro l’altro da far fatica a risalire da quella profondità. Dopo, anche io mi ero seduta e avevamo giocato al mio ritratto, ma ridevo troppo spesso, aveva detto, avremmo dovuto finire un’altra volta.

 – Intanto, posso offrirle un caffè? 

Il caffè si era prolungato in un tè del pomeriggio e in una bottiglia di vino rosso la sera. L’aria era calda e ridendo c’eravamo baciati dentro le ombre dei portoni. 

– Vieni con me – aveva detto lui, intendendo la soffitta dove viveva dipingendo, e io l’avevo seguito. Di corsa avevamo salito le scale, i baci attaccati alla parete. Il pavimento di legno con le tavole sconnesse, il caminetto in penombra, i quadri a terra, l’arcobaleno della tavolozza, i bicchieri abbandonati sul lavabo. Occhi negli occhi. Le sue mani sul seno, i vestiti per terra, l’odore di pittura misto al fumo delle sigarette e una gioia elettrica. Dalle finestre aperte echeggiavano i rumori attutiti delle sere di primavera: la gente che si radunava sui balconi a fumare, parlare o passeggiare per strada. Da lontano si avvertivano scrosci di piatti nell’acquaio, voci sommesse dalle case, stridii di bambini dai cortili, odori di fiori annaffiati, di terra smossa. Comitive ubriache che lasciavano gridolini sull’acciottolato.

Era il 1920. Era marzo. 

La città era un fermento di cose nuove che permeavano discorsi, tele, carte dei poeti, tovaglie dei caffè. Le notti rotolavano velocemente al mattino. Montparnasse era un tripudio di caviglie scoperte e risate brille. Tra i tavolini della Closerie des Lilas, del Dome e della Rotonde si esibivano balli disinibiti, baci tra le flappers e champagne sgorgava tra la musica sfrenata che si alimentava di  libertà ed eccesso. 

Anche noi volteggiavamo rapiti dall’esuberanza di Parigi. Ci rincorrevamo tra le piccole pareti della soffitta che si riempiva dei nostri giochi, dei solletichi e degli atterraggi tra barattoli di colore ribaltati, tra le bottiglie vuote a rotolare sul legno e i mozziconi spenti a lato del camino. 

– Guardaciiiii mondoooooo – gridava Lucienne quando la mattina ci affacciavamo dal lucernaio a salutare i tetti di Parigi con quella fresca gioia di ventenni innamorati. Io gli tappavo la bocca ridendo.

– Che ci sentano, amore mio. Che sentano quanto siamo felici. Che tutti sappiano che io amo Anne – e quelle “o” sembravano infinite. Poi mi baciava e quasi soffocavo, allora mi prendeva in braccio e mi faceva volteggiare nella stanza e poi puff, atterravo sul letto duro, sconnesso.

– Facciamo l’amore – mi diceva e nei miei occhi lui si specchiava: un sé che non aveva mai conosciuto, mi ripeteva. E la pelle nuda di Lucienne, aderente alla mia: veniva da piangere per quanto era bello tutto quanto. E l’emozione prima dell’amore, lo spicchio di cielo e le nuvole che sopra Lucienne scorgevo dal lucernaio. Com’era strano quel batticuore che entrava nella gola insieme ai ricci incrostati di colore.

Intanto, le stagioni cambiavano vestito. L’inverno freddo era arrivato troppo presto e un sole scialbo illuminava la città. Il soffitto era un pois di calce e muffa e i nostri aliti creavano nuvole d’argento mischiandosi alle staffilate di luce impolverata che penetravano dal vetro appannato. La sera, insieme agli amici, nella soffitta entravano l’odore della neve, dei cetrioli sotto sale e delle scatole di aringhe. Paul, tra le dita il collo di una bottiglia e Françoise a mani vuote, il suo cuore generoso e l’onestà delle sue poesie. 

– Che freddo devastante – Paul si avvicinava al camino e consegnava al tavolo sbeccato la bottiglia. Io li salutavo baciandoli e versavo il cognac nei bicchieri. Si parlava d’arte, del senso delle cose e della finzione, si litigava appassionati e poi ci si abbracciava ballando.

– Realtà – urlavamo.

– Inconscio. Istinto. Altro giro! –  i bicchieri capovolti in aria. 

– Libertà. Brindiamo alla velocità, al mondo nuovo, al vino, all’arte, all’amicizia.

– Destrutturiamo – gridava Lucienne.

– Bellezza – seguiva Françoise.

– Beviamo – facevo eco io.

– Scendeteeee – e da sotto gli altri ci chiamavano vedendo le nostre teste incastonate nell’abbaino, e noi li salutavamo.

– Andiamo al Dome – dicevano.

– Arriviamo – e spingevo Lucienne sbadato verso la porta scardinata. Scendevamo rapidi, i tacchi sulle scale, la gonna che saltava sulle ginocchia veloci. Insieme, abbracciati, vivi.

L’assenzio, le luci della notte, accalorati dalle discussioni. L’orchestra che suonava, gira Lucienne dentro i miei occhi, gira sulla musica, gira fuori, sui tavolini del caffè, sulla poesia di Françoise che alzava la voce e io intonavo un canto.

I lampioni stampavano cerchi gialli nella neve, perdevo le scarpe, ridevamo cadendo accasciati nel freddo.

– Vieni, vieni – ripeteva Lucienne.

– Arrivo – ripetevo io.

Nella soffitta fredda a far l’amore avvinghiati e così accalappiati perdevamo l’equilibrio. Ecco il letto finalmente. Lui che mi chiedeva dove vai, io che gli rispondevo da te. Poi dormire. Ho bevuto troppo, il fuoco sta morendo e tu sei bella, mi diceva, anche se i capelli mi nascondevano il viso sfatto, il naso aquilino. No, non dormire, non ancora, le palpebre chiuse gli sottraevano i torrenti verdi dei miei occhi. Un quadro ecco, una tela, per te. E ci riaddormentavamo. 

L’estate era tornata, poi di nuovo era andata via e noi ci amavamo a sud, nei campi di lavanda assolati. Ottobre era nato col sole e la vendemmia per poi annullarsi in una giornata grigia, velata da una nebbia fine. A febbraio era venuta la neve e un vento che tagliava anche i pori della pelle.

Nella soffitta ardevano le candele e in strada, nonostante il gelo, si sentivano schiamazzi e fischi e musiche passare e andare via. Le voci degli ubriachi cantavano ritornelli strascicati. Affacciati alla finestra, guardavamo le maschere camminare a gruppetti sul selciato, dirette a qualche festa. 

La soffitta era piena di amici e fumo di sigarette. Françoise litigava con Gaston sull’ultima commedia in scena, Agathe aveva appena letto Bakunin e discuteva di anarchia con Guido, il suo amante futurista. I bicchieri erano pieni. Pieni come la mia pancia che Lucienne accarezzava mentre scherzava con gli amici.

C’era allegria e il calore dell’alcol e dei corpi riscaldava lo spazio ristretto. Qualcuno disperse coriandoli dal suo paltò, qualcun’altro aprì una bottiglia di vino e Paul tirò fuori il fumo che aveva portato dal Marocco. Agathe prese il violino e suonò una musica nuova, veloce, sincopata. I piedi a tempo, sonori, pestavano il legno, i fianchi ondeggiavano, in giravolta ballavamo tenendoci per i gomiti.

– Andrà tutto bene – aveva detto lui prendendomi per mano, invitandomi a danzare. Non sapevamo che un male l’aveva già abitato.

Di nuovo soli, sotto le lenzuola, aveva intonato la canzone composta per me, che mi cantava sempre: 

La ragazza dai capelli rossi, 

il miele della sua pelle, 

gli occhi pieni di mare

Così dolce melodiava nel mio orecchio, sulla pelle del collo, stringendomi i fianchi. Sorridevo. Gli occhi di lui erano febbre. Io pazza. Nella soffitta scomposta, con la brace che diventava cenere dentro un cono d’ombra e l’odore di acquaragia e di tabacco. 

Dentro i negozi luccicanti c’erano alberi di natale e festoni sui lampioni. Dalla finestra vedevo Lucienne guardare le vetrine. Sapevo gli sarebbe piaciuto portare alla piccola almeno una leccornia, un bastoncino di zucchero, un giocattolino. Ma la tosse lo divideva tra il desiderio e l’impossibilità. Sentivo che non lo abbandonava mai: si avvolgeva alla sua magrezza e così insieme, salivano le scale spezzando il rumore dei suoi passi.

– Piccola, Diane, arriva papà! – e la vezzeggiavo con vocine carezzandole le manine sottili, così simili a quelle di Lucienne, come del resto il viso, gli occhi mobili e grandi, contornati dai miei ricci rossi.

– Dove sono le mie bellissime donne? Si sono nascoste? 

– Ma papà, sono qui.

– Ma dov’è Diane? – fingeva. 

– Ma papà sono qui.

– Ah, ecco dove sei amore mio! – e ci abbracciava entrambe strette, come se il domani per lui non potesse sorgere.

La pioggia e il freddo erano andati via. Il sole stava liquido sulle cose. Ma dietro il carro funebre vedevo il mondo offuscato, grigio. Era così triste morire ad aprile mentre la natura, con i suoi fiori, svegliava le strade, i tavoli dei caffè tintinnavano di bicchieri e le sedie si riempivano di voci e scialli calati sulle spalle nude.

Era così triste morire innamorati.

– Mami mi fai male. Dov’è andato papà?

– Non piangere – le sussurravo.

– Neanche tu – rispondeva.

– No.

– Ma invece piangi – insisteva.

– No. È il sole negli occhi.

– Dov’è andato papà? – domandava ancora.

– In un posto bello, amore, dove vanno le persone buone.

– E noi pure ci andiamo? 

– Sì, ci andiamo anche noi. Ma non ora. Quando sarà il momento.

E anche se continuava a chiedere dov’era il suo papà, pensavo alla promessa che avevo fatto a Lucienne: sarei tornata dai miei. Per Diane, per me. Dentro, un dolore spezzava qualcosa, un bolo angoscioso rotolava pesante dentro il ventre, giù in fondo, oltre l’anima. Ingoiavo. Sospiravo. Accettavo. Guardai dritto. Mai più avrei amato.

La spuma rotolava sotto lo scafo. La bambina giocava. Il foulard galleggiava nell’aria. Era stato tutto molto veloce. La vergogna di mio padre, le urla di mia madre, acconsentire di sposare uno sconosciuto, poi la partenza imminente verso l’Indocina. 

– È un uomo dabbene, ringrazia che ti vuole – mi avevano detto col dito puntato. Che importava. Io ero ancora in quella soffitta, ad annusare l’odore di acquaragia stringendo le spalle di Lucienne mentre dipingeva. Ero ancora lì a respirare i suoi capelli, il sudore che sapeva di ringhiera. 

Eccolo: si gira, sorride ubriaco d’amore, si alza, mi spinge ridendo, vortichiamo ancora per la stanza, atterriamo sul letto sotto la finestra, i baci sul collo, liberata la pelle dai vestiti, le labbra bollenti sull’epidermide fredda, le mani delicate e forti sul corpo che lui sa a memoria, i corpi uniti. 

L’uomo voleva una moglie, la voleva ricca, la voleva con un nome. Voleva una moglie da mostrare laggiù alla colonia. Una moglie che avrebbe fatto amicizia con altre mogli. 

Quell’uomo pensava di cancellare i miei ricordi: mi ha spinto sul letto e ho sentito la mano tra i seni, con l’altra ha alzato il vestito. Non ha detto niente. Una cosa indolore, ho emesso appena un soffio d’aria più forte restando ferma così, sotto i colpi, sotto il suo fiato, sotto il suo peso. Percepivo la pancia prominente frustare le mie reni e i suoi ringhi soddisfatti suonavano nelle orecchie. Un rivolo di saliva colava sulla schiena mentre infine mi caracollava addosso. Il mondo non meritava neppure una lacrima  e io ero in una soffitta, e Lucienne cantava: 

La ragazza dai capelli rossi, 

il miele della sua pelle, 

gli occhi pieni di mare.

Silvia Penso

In copertina “Disarmonie” di Stefania Onidi

Editing di Francesca Gentile