
Febbraio, vecchia Minerva, nuovo giornale
Nel lontano marzo 1985 – quando non ero né morula, né blastula o embrione e neanche pensiero – Umberto Eco pubblicava su L’Espresso la sua prima Bustina di Minerva: una rubrica settimanale che intendeva [r]accogliere appunti occasionali che potevano essere annotati nella parte interna di bustine di fiammiferi [questa la dettagliata descrizione], all’epoca noti con il nome, per l’appunto, di Minerva.
Non so se questi fiammiferi oggi siano ancora in uso [e in vendita], non so perché gli abbiano chiamati proprio come una divinità [sarebbe curioso scoprirlo], so solo che il titolo del libro omonimo La bustina di Minerva, edito Bompiani, al costo di 16.000 lire trovato all’IBS, mi incuriosiva e parecchio.
Così acquistandolo per soli 8 euro e 50 centesimi, dai primi giorni di gennaio – con quasi trentasette anni di ritardo – ho cominciato a leggere questa raccolta che, come dice Eco stesso nella prefazione, pur subendo una selezione, contiene quasi tutte le sue bustine pubblicate fino al 2000.
Sto ancora cercando di comprendere il reale effetto che queste trecentoquarantacinque fitte pagine di tutto – dalla politica all’arte, dalla letteratura all’attualità e alla storia – hanno avuto su di me. Posso certamente dire che mi hanno spinta verso due azioni che mai avrei immaginato di intraprendere.
La prima è stata ritrovarmi a editare alcune bustine dello scrittore.
Non so se cominci a diventare una forma di deviazione professionale o si tratti di un esercizio – così incombente per me –, al quale non posso fare a meno di rinunciare. Spero solo che l’anima di Eco non mi maledica e non tormenti le mie notti, già tristemente corte e insonni.
La seconda è comprare un giornale.
Per la maggior parte delle persone può sembrare una cosa semplice, e molto probabilmente lo è. Ma non per me che non sono mai stata abituata a questa ripetitività. Non che non abbia mai sfogliato un giornale: in genere, sono solita farlo al bar quando qualche mattina, al mio risveglio, decido di meritarmi un latte macchiato e un cornetto al miele. Non che non sappia cosa sia l’occhiello, il titolo, il sottotitolo, il catenaccio, la spalla e l’articolo di fondo e non che dall’oggi al domani io mi sia messa in testa di comprare un quotidiano tutti i santi giorni che Cristo manda in terra, ma le bustine di Eco mi hanno portato a pensare quanto poco io sappia di quello che succede attorno a me.
Ma come – obietterebbe giustamente qualcuno – con tutte le notizie web così facilmente fruibili anche attraverso i social network, pensi di non conoscere la storia in cui vivi?
Sì, esatto, mi verrebbe da rispondere al mio contestatore fantasma, per adesso è così.
E per adesso intendo che una volta a settimana – per la precisione la domenica –, salgo in macchina, imbocco l’autostrada e dopo una ventina di chilometri mi fermo al primo autogrill e, insieme al caffè, acquisto una copia de La Stampa o de Il corriere della sera o de La Repubblica. Risalgo in auto, pago pedaggio, torno a casa e dedico un’ora a quelle pagine grigiastre. Poi le ripongo sulla mensola sopra la tv. Guardo quei giornali: non sono molti, non fanno ancora volume tanto da non saper dove conservarli [io non butto niente] e la soffitta non ce l’ho, ma da qualche parte potrò sicuramente sistemarli in questo monolocale.
Li guardo ancora una volta e mi sento a casa.
Non saprei spiegare le motivazioni: a casa mia i giornali ce li regalavano quando dovevamo fare qualche trasloco. In edicola, i miei ci accompagnavano soltanto per comprare le figurine Panini dei calciatori. No, i quotidiani, non sono un oggetto che mi fanno ricordare casa. Le discussioni, quelle sì. Pasta e veleno diceva mia madre, esausta per il fatto che regolarmente a pranzo si dovesse discutere. Loro. Le relazioni belle e poi brutte che finiscono a catafascio. Le colpe. Le contese tra sorelle e fratelli. Noi ragazzi. I vicini che sentono le urla. I pranzi infiniti durante le feste, lo stare bene, ma volersene allontanare subito, i parenti che vedi una volta l’anno. Le cose che in famiglia non mutano mai. Questo mi viene in mente quando penso a casa. E le sigarette: non ho mai visto mio padre per più di dieci minuti senza una marlboro tra le dita. Le odiavo. Come la tv che sintonizzava tutte le sere su canale 5 a un volume bassissimo per poi alzarlo solo quando cominciava Striscia la Notizia.
Un pessimo ritratto, lo so.
Non troppo diverso dalle migliaia di altre famiglie italiane, e perché no, mondiali.
E forse è proprio quest’idea che mi costringe a pensare di agire diversamente e trovare qualcosa che, lontana dalla casa paterna, possa farmi sentire a casa mia. Di certo piazzare ottocento chilometri tra me e la mia famiglia, mi è servito non tanto ad azzerare legami – anche se forse qualcuno si è spezzato senza che questo assumesse necessariamente un’accezione negativa –, né a obliare valori, modi d’essere che sono radicati, inizio a credere, da generazioni, ma quanto meno mi ha spronata a guardare oltre. A comprare un giornale. A editare Eco. E cominciare daccapo a costruire la mia casa.
Lancio un’ultima occhiata allo scaffale, poi prendo il mio taccuino e scrivo: febbraio, vecchia Minerva, nuovo giornale.

