
Interruzione
Accarezzati, accudisci la bambina che è in te, perdonala.
Sono le cinque di sabato mattina, sono seduta sul divano della mia cucina e osservo.
I piatti della cena di ieri sera ancora sporchi nel lavandino, il computer in stand by, la mia giacca a vento lanciata d’istinto su una sedia, appena varcata la porta di ingresso.
Amo la mia casa. Ogni dettaglio è stato scelto con cura, ogni cosa è al suo posto, il posto che ho reputato giusto.
Quando ho deciso di prendere in affitto questo appartamento mio padre non era d’accordo perché l’affitto ha sempre rappresentato per lui uno spreco economico rispetto a un mutuo.
Mia madre non era d’accordo perché mi stavo spostando dal centro della città a una zona troppo pericolosa per una donna sola.
Mia sorella non era d’accordo perché stavo lasciando una casa grande per un ‘buco periferico’, come lo ha sempre definito lei.
Io, invece, ero d’accordo. Io avevo scelto, io volevo quella piccola casa fuori dalla confusione, in una zona più tranquilla, e l’avevo presa, da sola, senza curarmi di alcun giudizio.
Sei testarda, non ascolti mai nessuno.
Hai scelto presto la tua strada, sin da bambina sapevi quello che volevi e come lo volevi.
Hai raggiunto i tuoi obiettivi. Prima o poi, anche chi non credeva in te, si è dovuto ricredere.
Rileggo con fierezza, quasi ogni giorno nell’ultimo periodo, queste parole rivolte a me stessa.
Ho sempre fatto le mie scelte in totale autonomia, sapendo di non essere portatrice di verità assolute, che avrei fatto tanti errori e che ne avrei pagato tutte le conseguenze.
Eppure, oggi, in questa casa sento mancare il respiro. Mi guardo intorno e quasi non la riconosco, non mi riconosco.
Stanotte non ho chiuso occhio, ieri sera quando sono rientrata sono riuscita appena a scaldare qualcosa di insapore al microonde e fare una doccia. Avevo bisogno di sentir scorrere l’acqua sul mio corpo, di lavare via gli ultimi giorni, le ultime settimane. Un’esigenza di purificazione, prima ancora che di pulizia.
Ho lanciato in lavatrice i vestiti che indossavo, ma se avessi potuto li avrei bruciati, come si usava al tempo delle epidemie di peste.
So perché mi sento così, so perché non sono riuscita ad addormentarmi e sono settimane che va avanti. Non credevo sarebbe stato così difficile. Forse, se avessi avuto il privilegio di poter sbirciare il tempo a venire, avrei scoperto che non sarebbe stato facile, che Eva del futuro avrebbe pagato per la sua decisione, benché consapevole di non avere alternative.
Hai affrontato tante prime volte, alcune le cercavi, le desideravi con tutta te stessa. Altre ti spaventavano, ma sei andata avanti con coraggio. Questa nuova ‘prima volta’, però, è diversa.
Continuo a leggere cercando di farmi forza ma è troppo difficile. Tutto, oggi, rappresenta il nulla.
Ieri mattina quando il taxi è arrivato per accompagnarmi in stazione, ho seguito i miei rituali, validi a ogni partenza, azioni meccaniche che svolgo ogni volta che vado fuori per lavoro: controllo delle finestre, del gas, degli interruttori. Una routine che mi accompagna da sempre prima di ogni trasferta imposta dalla mia professione.
Solo mentre sedevo sul sedile posteriore del taxi, fissando il vetro sporco del finestrino, ho realizzato che non era un viaggio di lavoro, non stavo partendo per chiudere chissà quale trattativa. Questo viaggio lo avevo deciso io. Io ne avevo scelto la data tra le diverse opzioni proposte. Io avevo prenotato i biglietti. Io avevo scelto di andare.
Io me lo ero imposto.
Non guardarti indietro, la tua scelta è stata libera. Non lo hai chiesto a nessuno, non avevi nessuno a cui chiederlo.
A un certo punto ho anche sperato che il traffico mi facesse perdere quel treno ma non è accaduto.
Sono arrivata puntuale in stazione, sono salita e mi sono seduta al mio posto, in attesa che partisse.
Non ho avuto il coraggio di gridare a me stessa di scendere. Perché la parte di me più razionale sapeva bene che scendere avrebbe comportato enormi conseguenze, che rinunciare a quel viaggio non sarebbe stato opportuno.
Quando due settimane prima avevo confermato il mio appuntamento, al termine della telefonata la testa sembrava immersa in un vortice, non vedevo più i contorni nitidi delle cose che mi circondavano, sentivo solo rumori ovattati, non avevo più consapevolezza del mio corpo. Ricordo di essermi accasciata sul divano nella speranza che passasse in fretta.
Il mio corpo mi stava inviando un segnale e io rifiutavo di ascoltare. Mi stava implorando di riflettere, di aspettare ancora un po’, di non lasciarmi trascinare da quel turbinio di pensieri dettati dall’insicurezza.
Arrivata all’appuntamento, una signora sulla cinquantina mi ha fatto accomodare in una sala vuota e mi ha presentato dei moduli da leggere attentamente e compilare.
Ero convinta di non dover più sbrigare alcuna pratica burocratica, di non dover scrivere nuovamente cose già dette, ridette, elencate… e invece no, ancora campi da compilare, ancora gli stessi caratteri posti lì, nero su bianco, che mi guardavano, mi urlavano addosso, con forza, quello che stava accadendo.
Avevo paura? Tanta. Ma non potevo ammetterlo. La mia parte più forte, quella vincente e prevaricante non avrebbe capito e alla minima fragilità si sarebbe ribellata. Io mi sarei ribellata e vendicata contro me stessa nel peggiore dei modi.
Dopo un tempo che ormai consideravo eterno mi hanno chiamata, era il mio turno.
Mentre consegnavo le ennesime scartoffie, ho avuto una discussione con la ragazza addetta alla registrazione dei dati poiché nel campo ‘accompagnatore’ avevo scritto a chiare lettere maiuscole ‘NESSUNO’.
Perché in quel momento, in quel luogo grigio eravamo solo io e la mia testa che vagava, perché uscita da lì avrei preso un taxi per raggiungere l’albergo che avevo prenotato per precauzione.
Il mattino seguente avrei raccolto le mie cose e un nuovo treno mi avrebbe portata a casa. Lo schema era chiaro, come sempre, pianificato da settimane. Nessuno avrebbe potuto cambiarlo, tanto meno una persona che vedevo per la prima e ultima volta.
Era andata esattamente così, con lui. Lo avevo visto in una sola occasione. Mi ero lasciata andare, avevo abbassato le mie difese, avevo abbandonato me stessa a una persona sconosciuta che non avrei mai più incontrato. Ero stata stupida, ingenua, debole. Una me stessa che non esiste, una donna che non sono e per
la quale stavo pagando le conseguenze. Io che non avevo mai permesso a nessuno di fermare la mia corsa, mi ero concessa alla peggiore delle battute d’arresto.
Non l’ho più rivisto. Ho fatto in modo di sparire, di non farmi più trovare, come se il nulla mi avesse ingoiata. E so che mi ha cercata tante volte, decine di messaggi in segreteria, decine di telefonate in cui mi sono fatta negare dalla mia segretaria, una quantità indefinita di messaggi di posta elettronica cestinati senza che fossero stati nemmeno aperti.
Ero troppo arrabbiata, con me, con la mia leggerezza, con la mia perdita di controllo.
Mentre ero lì, fissavo il soffitto grigio dalla mia posizione semidistesa; accanto a me, separate solo da uno scorrevole, una ragazza dai capelli rossi, sembrava molto giovane. Stringeva spaventata la mano di sua madre che, china su di lei, piangeva in maniera silenziosa.
E io pensavo a mia madre, a cosa avrebbe detto se fosse stata lì; se avesse saputo forse mi avrebbe rassicurata, mi avrebbe guardata con i suoi occhi grandi, mi avrebbe fatto sentire il suo appoggio, la sua vicinanza, il calore che irradia ogni volta che entra in una stanza.
E probabilmente non mi avrebbe neanche permesso di essere lì in quel momento, mi avrebbe guidata verso una scelta diversa. Forse sarebbe riuscita a farmi cambiare idea, a farmi vedere tutto con i suoi occhi di madre. Forse, per la prima volta, saremmo state realmente vicine, con lo stesso punto di vista, la stessa visione del mondo. Uguali. Madri.
Ma era troppo tardi per interrogarsi sui ‘se’. Mia madre non avrebbe mai saputo nulla di questa vicenda, di questa giornata, delle giornate che sarebbero venute dopo.
Mi ripeto continuamente che non sono sola, perché, allora, sento tutta questa solitudine?
Nel frattempo, mi hanno avvisata che tutto era terminato ‘rapido e indolore’, così mi ripeteva una voce cinica. E io invece gli avrei gridato che non era stato affatto rapido perché questa ferita sanguinava da settimane e probabilmente lo avrebbe fatto ancora per mesi. E certo, non era indolore. Perché io questo dolore lo stavo sentendo scorrere nelle vene e invadere ogni cellula del mio corpo.
Forse non starai mai male o forse semplicemente lo nasconderai a te stessa.
Volevo solo abbandonarmi a un sonno profondo, nel silenzio, senza sogni. Volevo spegnere l’interruttore del mio cervello.
La notte trascorsa in hotel aveva fatto crescere la mia solitudine, il senso di colpa, la paura. Desideravo essere a casa, chiudere la porta alle mie spalle ed estraniarmi dal mondo per un tempo indefinito, ma sapevo perfettamente che il lunedì successivo mi sarei presentata in ufficio alla solita ora, con il mio solito caffè e la mia solita agenda piena di impegni.
Piango. Dentro, in silenzio, continuamente.
Ogni sera rientro a casa e rileggo la mia lettera.
La lettera che ho scritto a me stessa prima di partire.
Accarezzati, accudisci la bambina che è in te, perdonala, questo ho scritto alla mia anima.
Ho buttato giù quelle righe per darmi conforto, per provare a rassicurarmi e sentirmi un po’ meno mostruosa, un po’ meno in colpa.
L’ho portata con me, l’ho tenuta in tasca tutto il tempo, ne ho letto alcuni passaggi anche in quel momento sperando potesse consolarmi. Poche righe: fluide, cariche di dolore, da me stessa a me stessa per giustificare la mia scelta.
Amara, difficile, pentita, consapevole scelta di interruzione.
Michela Sgobbo
Editing di Elena Chiattelli

