racconti

La scacchiera

All’improvviso vidi scivolare una cosa dallo zaino del tizio che mi precedeva: cazzo! Ci mancava solo questa, io ero già in ritardo! L’uomo sembrava, a tutti gli effetti, divincolarsi in quello che mia madre diceva essere un vero e proprio porto di mare. L’aeroporto mi era sempre piaciuto, fiumi umani di partenze e di arrivi confluivano nello stesso spazio vitale e tutto diventava distrazione e confusione, puro dinamismo, rumore assordante che richiamava la vita. 

– Scusi le è caduto questo! – dissi con voce troppo bassa per farmi sentire dall’uomo di spalle che a passo spedito continuava per la sua strada.

– Le è caduta la scacchiera! –  gli dissi ancora una volta tirandolo per la t-shirt in modo da attirare la sua attenzione, pronta a continuare a vagabondare dietro valigie e itinerari su un cartello. L’uomo si voltò tirando su gli occhiali, aprì le braccia e assicurò l’oggetto in un sospiro sollevato. Poi mi ringraziò velocemente e continuò verso la direzione che aveva intrapreso prima della sosta. In quel momento, dall’altoparlante una voce robotica avvisava che la partenza del volo numero 3232 avrebbe subìto, presumibilmente, un’ora di ritardo per valutazioni meteorologiche.

L’uomo si passò una mano fra i capelli e sembrò sorridere mentre mi chiedeva se avessimo in comune il volo. 

– Io non vado e non ritorno – mentii. Una menzogna non troppo distante dalla realtà, in effetti era una delle cose che preferivo fare da qualche anno, ma non questa volta. Questa volta sarebbe stata l’ultima. Un saluto di commiato da questo posto che racchiudeva tutte le occasioni mancate. Mi piaceva sul serio stare qui, annusare l’adrenalina che precedeva la partenza, il rimpianto legato a un ritorno, quel misto di emozioni che caratterizzava ogni incontro al terminal. Un lampo attraversò i suoi occhi e all’improvviso iniziò a oscillare la scacchiera davanti a me.      

– Una partita? – mi chiese. Non sapevo giocare, gli dissi, omettendo di comunicargli che odiavo qualsiasi tipologia di gioco. Con ogni probabilità lo dovevo al fatto di non aver avuto una vera infanzia. Solo qualche bambola custodita come reliquia, da pettinare, svestire, collezionare. E così ho finito per detestare ciò che sognavo e puntualmente non ricevevo.

Lui imbracciò di nuovo la scacchiera e mi sembrò di poter annusare l’odore di legno antico. Prese a raccontarmi di una partita epica fra un ricco imprenditore che pagava sempre l’accesso alle fasi finali di alcuni campionati di altissimo livello e un grande maestro di scacchi. L’uomo d’affari commise un’irregolarità e il sapiente giocatore chiese all’arbitro la partita vinta senza concedere all’avversario la possibilità di ripetere una mossa fatta per distrazione, in modo irregolare nella forma. L’imprenditore, allora, in uno scatto d’ira, alzandosi, disse al maestro: “sa qual è la differenza tra me e lei? Io gioco per l’onore, mentre lei solo per i soldi”. Il mentore, con grande serenità, gli rispose che ognuno giocava semplicemente per ciò che non possedeva.

Io, a quel punto, non ero per niente convinta di aver afferrato la morale. 

– Credo di averla angosciata – mi disse rispettoso. Io sapevo di volermi allontanare e, ho creduto, di avergli mestamente sorriso solo per dileguarmi velocemente. Non riuscivo a capire se mi trovavo dinanzi a un santone o a un folle, ma poi quale sarebbe stata la differenza? 

– Si sente bene? – mi chiese. Non mi ero accorta che stavo barcollando. Nella mia mente figure, fino a pochi momenti prima sconosciute, iniziarono a prendere posizione.      

– Mi segua, le offro un caffè – disse. E io, mentre mi ripetevo come mantra che la curiosità avrebbe ucciso il gatto, accettai. Dopotutto, fanculo, avevo ancora tutte e sette le vite!     

Le tazze del caffè tintinnavano sui piattini e l’imbarazzo cominciò a imbucarsi come ospite non gradito. L’uomo si aggiustò gli occhiali e mi chiese nuovamente se fossi in partenza o di ritorno. 

Con questa sua domanda, la mia mente iniziò a vagare. Mi sentivo l’abusiva di me stessa: sapevo di essere ferma, vedevo la strada, ma anche la corda che mi tratteneva. L’aeroporto mi ricordava mia madre, era uno dei suoi più grandi rammarichi, non era mai stata qui. Mi ripeteva spesso: “figlia mia, non fare come me, non negarti la scoperta. Non credere di non meritare, non ti sottovalutare. Tuo padre, per il viaggio di nozze mi ha portato a Venezia, poi ho lasciato il lavoro, siete arrivati voi figli. Per comprare questa casa il mutuo ci è costato la vita, non abbiamo mai fatto una vacanza”.

Con la mente però viaggiava, me lo ricordo bene. Quando ero alle elementari, distesa sul divano chiudeva gli occhi e, per aiutarmi nel tema che mi era stato assegnato a scuola, inventava le cose più strane. Poi si era ammalata di un tumore. Sentivo comunque la sua voce, ma delirava. “Portami sempre con te, qui”, disse un mattino toccandomi sul cuore, “ovunque andrai”. Poi fu lei ad andarsene. E invece io sono rimasta lì, schiacciata dal timore, dal dolore, dal complesso di essere simile a lei: rassegnata allo stato delle cose. Mi vedevo come in un cerchio e non era il suo abbraccio, si era chiuso intorno a me, ma il centro non era il mio mondo.

Dopo questi pensieri, risposi all’uomo – Ritorno da un lungo viaggio  –, lui sorrise compiaciuto del fatto di avermi portato alla contraddizione. Sapeva che avevo mentito. E mi sembrò che volesse aggiungere altro, ma non ero pronta per quello, così per dirottare l’argomento dissi: – Voglio saperne di più del gioco degli scacchi.

– Le regole sono precise. I limiti della scacchiera sono rassicuranti per molte persone. Il re non gioca, o quasi, per l’intera durata della partita. I pedoni piccoli sono strutture e poco sacrificabili. La regina domina su tutto, ma la regina da sola non può fare scacco matto e il re neanche, può solo perdere o pattare. Sebbene il gioco degli scacchi sia assai complesso continua ad affascinare la mente umana, e sa perché?   

Feci no con la testa.

– Perché si basa sulla scienza, ma può intrecciarsi anche al ramo artistico. È capace di rivelare segreti, lanciare sfide, che se accettate possono condurci a un miglioramento e a una conoscenza più profonda di sé. Lo studio, l’osservazione, rappresenta solo una parte, poi, necessariamente bisogna fare una mossa. Vincente o perdente, non importa. Ciò che conta realmente non è solo desiderare, ma scoprire, cercare di migliorarsi, evolversi in maniera naturale tendendo comunque al massimo.

– Quale massimo? – chiesi ora incuriosita.

– Al massimo di noi stessi – disse. 

“Il volo 3232 è stato annullato per una bufera in arrivo” la voce al microfono mise fine ai giochi.

Il signore, di cui non conoscevo il nome, si alzò. Prese la scacchiera, facendomi un cenno con la mano, a mo’ di saluto. Gli sorrisi perché adesso sapevo cosa fare: i rimpianti non avrebbero caratterizzato la mia vita! Non mi sarei lasciata rassicurare da percorsi già ampiamente conosciuti. Era l’ora di imparare a giocare e magari a barare. Era il momento di varcare i confini, non solo quelli della mente. 

Mi recai alla biglietteria e prenotai il primo volo disponibile, senza nemmeno scegliere la destinazione. Feci un rapido calcolo del tempo a mia disposizione e poi uscii correndo dall’aeroporto per tornare a casa: dovevo prendere le ceneri di mia madre.

Francesca Coppola

Illustrazione di Mariapaola Principale

Editing di Greta Salvetti