accenti in avvento

15 ore e 11 minuti – Stiamo abbastanza bene, una storivista a Francesco Spiedo

Ieri sera, martedì 21 dicembre, sono arrivata a Napoli alle 23:01 con il regionale 5895, precisamente 9 minuti dopo l’orario previsto: buono, considerando che solitamente c’è un ritardo previsto di minimo 20 minuti. Faceva freddo ed ero abbastanza stanca, quindi appena sono arrivata in stanza sono crollata a letto in uno stato comatoso. 

Però stamani mi sono svegliata energica e felice, dopotutto sono a Napoli per la prima volta e c’è pure il sole. Napoli è una tappa improvvisata all’ultimo secondo: fino a poche ore fa ero a Benevento in vacanza da un’amica e per tornare in Toscana avrei dovuto affrontare una giornata intera di treni, con annessi 4 cambi. Poi ho pensato che fermarmi per mezza giornata da qualche parte fosse un buon espediente per alleggerire il lungo viaggio e sgranchirmi le gambe. A quel punto Napoli mi è sembrata un’ottima idea. C’erano 3 validissimi motivi: 

  1. era di strada; 
  2. non c’ero mai stata e avrei sempre voluto andarci;
  3. è la città natale di Francesco Spiedo che, più volte mi ha ripetuto che se fossi passata da quelle parti, mi avrebbe fatto provare un caffè buonissimo.

Impossibile dire di no. 

Faccio una bella passeggiata e mi perdo tra le vie del centro. Vedo chiese, palazzi e continuo a scattare foto, mi piace quando vado in un posto, trovare degli scorci da immortalare e qui a Napoli vorrei fotografare tutto. L’appuntamento con Francesco è per le 10:30 davanti alla Libreria Colonnese, arrivo con qualche minuto di ritardo e lo vedo da lontano che mi saluta. 

Ho conosciuto Francesco grazie al suo libro d’esordio Stiamo abbastanza bene che è uscito 1 anno e 2 mesi fa per Fandango. Poi a settembre l’ho incontrato a Firenze RiVista, abbiamo scambiato 4 chiacchiere e così mi sono decisa ad acquistare il suo libro che racconta le vicissitudini di Andrea che scappa da Napoli dopo la fine della sua relazione e va a vivere in un appartamento minuscolo a Milano. Mentre i suoi genitori lo implorano di tornare a Napoli, lui inizia a fare diversi lavoretti, ma le sue incertezze lo porteranno ad affrontare incontri e situazioni poco piacevoli. Il ritorno a Napoli per le vacanze di Natale sarà il pretesto per fare chiarezza nella sua vita e diventare finalmente adulto. 

Non ci ho pensato due volte a scrivere a Francesco per comunicargli la mia tappa intermedia. Ho letto il tuo libro, gli ho scritto su instagram, mi è piaciuto moltissimo e ho versato anche qualche lacrimuccia. Mi ci rivedo molto in Andrea. Se sei a Napoli mercoledì ti va se ci vediamo e ti faccio qualche domanda?

Lui ha risposto che sì, c’era e ora eccoci qua. Ci incamminiamo verso via Port’Alba, così mi dice il mio cicerone, una zona piena di librerie. E mentre sono intenta a guardare i libri in una vetrina, mi chiede: 

– Ma allora queste domande? – e io quasi prendo paura, ma poi mi ricompongo e dico: 

– Ok! Ho una curiosità: so che sei laureato in ingegneria, e quindi mi chiedo: da dove arriva la tua passione per la scrittura? È una cosa che c’è sempre stata o un bel giorno hai deciso di cambiare vita?

Ci pensa giusto un secondo e poi attacca: 

– Fino ai diciannove anni non ho mai letto un libro, ero pronto insomma per la carriera politica. Purtroppo alle elezioni comunali non mi hanno eletto e lo sanno tutti che un insuccesso alla prima candidatura ti segna per la vita. Quindi ho dovuto cercare una strada alternativa. L’ingegneria serviva per farmi prendere sul serio. La scrittura era un modo per apparire sensibile, con una certa profondità d’animo. Sono tutte qualità che spero mi possano aiutare nel mio secondo tentativo in politica. Anzi, se qualcuno volesse votarmi. Pubblicare è stato un incidente, non era programmato: in realtà doveva essere tutta una farsa, non so come sia stato possibile che Fandango mi abbia preso sul serio. A un certo punto mi è sembrato brutto dire a tutti che stavo scherzando, quindi adesso recito la parte del letterato. Ma mi viene male, si vede che non sono adatto al personaggio, mi manca il physique du rôle. Non mi prendo mai abbastanza sul serio. Si vede? Ho sempre inventato storie, come adesso. 

Sorrido a questo suo bizzarro racconto, chissà cosa ci sia di vero. Sono tentata di chiederglielo: in un certo senso la verità mi ossessiona, voglio sempre ricercare il vero in ciò che mi dicono le persone o forse spero sempre che le persone dicano la verità. Ad ogni modo la storia delle ossessioni mi fa tornare in mente la fissa di Andrea per i numeri.

 – Anche tu, come il tuo protagonista – gli chiedo – sei ossessionato dai numeri? 

– Dalle materie scientifiche rubo forse una certa ossessione per quelle che potremmo chiamare sincronicità, correlazioni spurie, collegamenti causa-effetto, la ricerca nella scrittura di una struttura che giustifichi e/o spieghi tutto, che tenga in piedi il mondo narrativo appena creato. Credo che mi abbia aiutato a costruire storie credibili, questo vale anche per i racconti. O forse ancora di più per i racconti. Andrea usa i numeri per spiegare la realtà, per trovare delle motivazioni, delle coincidenze, per far tornare i conti. Io non posso nascondere una certa passione per OuLiPo e certi esercizi di stile: è la mia idea poter rubare, giocare, scrivere, inventare. Sì, la frase precedente è costruita aumentando sempre di una lettera a ogni parola. Che senso ha? Nessuno, però mi piace. Mi produce un certo piacere. 

Mi segno mentalmente che una volta in treno devo informarmi sul gruppo di scrittori e matematici OuLiPo: non ne so molto, se non niente. 

Passate un paio di librerie, continuiamo a camminare, le vie sono piene di gente che cerca i regali di Natale dell’ultimo minuto. A Napoli si respira proprio una bella aria, perchè spostarsi a Milano? Così glielo chiedo: 

– Ti sei trasferito in una città molto diversa da Napoli, e anche il tuo protagonista l’ha fatto. Sappiamo le sue ragioni, ma le tue? 

– Tra me e Andrea c’è un riflesso, siamo nello specchio della stessa storia ma causa ed effetto si ribaltano: lui scappa perché è finito un amore, il mio amore è finito perché sono andato a Milano. O almeno così me la sono raccontata, così come se l’è raccontata anche Andrea. La verità ha bisogno sempre dell’altra parte.

– E a Milano ci sei andato per frequentare la Belleville? 

– La Belleville è stata per me una scelta necessaria: volevo dedicare alla scrittura tempo, denaro. Volevo che mi costasse sudore. Restare un anno e passa a Milano, da neolaureato alla triennale, frequentare una scuola, scrivere tutti i giorni, lavorare la notte per poter restare lì, significava prendere sul serio l’idea di scrivere. Ce la fai? Ti piace veramente? Sei pronto a confrontarti? A farti sbattere la porta in faccia? Insomma, mi sono messo in gioco. Troppo facile dire voglio scrivere e non staccarsi dal proprio computer. Sono fatto così. Nelle cose mi ci devo immergere. Per quindici anni ho praticato arti marziali, ma sul serio: due o tre ore al giorno tutti i giorni. Per certe cose deve essere così. O tutto o niente. O almeno lo è per me. L’esperienza è stata utilissima: ho compreso i miei limiti, ho messo alla prova la mia scrittura, ho imparato qualche trucco, ho costruito qualche contatto. Ho pubblicato anche i primi racconti. Ho letto in pubblico. Una scuola di scrittura non serve per imparare a scrivere, ma forse può dirti se ci tieni davvero. La Belleville la consiglierei, per me è stato come un erasmus. Un anno di college. 

– Che bellezza! – quasi grido. Vedere nei suoi occhi la felicità nel raccontarmi quei suoi momenti a Milano, mi fa venire voglia di trasferirmi in una nuova città e provare a cambiare vita anche io. Proprio quando mi perdo in questi pensieri, lui mi chiede: 

– Ma quindi il mio libro ti è piaciuto davvero? Devi essere sincera, me lo puoi dire se ti ha fatto schifo – rido, perché lo dice con una spontaneità che mi sorprende, non molti scrittori saprebbero apprezzare la sincerità, ma lui sì, ne sono sicura.

– Certo che mi è piaciuto, descrivi molto bene la generazione di Andrea che poi è la nostra, sempre con l’esigenza di scappare dalla propria città e andare altrove per provare a cambiare qualcosa, per crescere. E invece tu, quando hai sentito l’esigenza di scrivere Stiamo abbastanza bene, dopo aver frequentato la scuola o era una storia che avevi già in testa?

– La storia editoriale è lunga e complessa, quella di scrittura anche. Il primo scheletro di SAB – chiama il suo libro usando l’acronimo – è nato alla Belleville, dopo qualche riflessione con Walter Siti: s’insisteva sull’idea di raccontare qualcosa che conoscessimo in prima persona. Cosa raccontare se non la storia di un napoletano che arriva a Milano? Milano non l’avevo mai vista, mi interessava parecchio. L’idea di ribaltare gli schemi del romanzo di formazione, anche. La prima stesura, intitolata La dissolvenza poi Il corpo estraneo, è stata scritta a partire dal 29 ottobre 2016, e per questo ho voluto che uscisse il 29 ottobre 2021, ed è anche per questo che il romanzo inizia il 29 ottobre 2016.

– Allora anche tu sei un po’ fissato con i numeri – lo interrompo –, o almeno con le date. Direi che il 29 ottobre è una data fortunata. 

Ride e annuisce, poi riprende. 

– Insomma il testo è passato di mano a due agenzie diverse, entrambe molto contente, però non siamo riusciti a trovare un editore. Diciamo così. Poi dopo qualche rifiuto ottenuto in modo individuale, ho tentato la sorte con una mail alla redazione Fandango Libri. Avevo notato alcuni libri in catalogo che potevano collegarsi al tono e allo stile del mio lavoro, così ci ho provato.

– Fandango è una casa editrice che apprezzo molto – intervengo ancora –, come si è svolto il lavoro di editing sul testo?

– Dopo la mail è iniziata la storia editoriale vera e propria. Il libro era, tutto sommato, molto simile a quello che poi è arrivato in libreria, almeno nel mood e negli eventi principali. Mancavano dei collegamenti, delle scene che spiegassero alcuni passaggi che, a furia di editarlo e riscriverlo da solo, alla fine avevo nella testa ma avevo rimosso dal testo. Alcuni personaggi sono stati definiti meglio. Alcune motivazioni sono state ricalibrate. Il testo è stato tagliato perché sono logorroico, chi l’avrebbe detto? Con Lavinia Azzone abbiamo lavorato per mesi e mesi, persino a Luglio e Agosto, con l’idea di trasformare l’idea che avevo in testa nell’idea che stava anche sulla carta. I suoi interventi sono sempre stati precisi e misurati, non ha mai cambiato una frase, ma ha sollevato dubbi e lasciato che facessi tutto da solo. L’editing, se dovessi trovare un’immagine, è stato un viaggio in una terra sconosciuta, che avevo soltanto sognato, insieme con qualcuno che a ogni passo mi chiedeva sei sicuro? è la strada giusta? è quello che hai sognato? Quello che accade tra Soletti e Zio Toni – personaggi che intralceranno il percorso di crescita di Andrea – è frutto della sua insistenza, del suo chiedermi ancora e ancora se davvero era questo quello che volevo raccontare. Abbiamo sposato l’idea della coerenza a 360° e tutto doveva essere messo in dubbio, per vedere se effettivamente reggeva. Da ingegnere non posso che essere d’accordo con i test sotto sforzo per valutare la resistenza di una struttura, o di una storia. Si tratta della stessa cosa.

– Mi sembra giusto – ribadisco –, penso che un lavoro di editing fatto in questo modo sia molto efficace, perché lascia tempo allo scrittore di riflettere sulle proprie scelte. Ma immagino che tu sia abituato ad avere un confronto con degli editor, avendo anche pubblicato su un bel po’ di riviste. A tal proposito, ti volevo chiedere se pensi davvero che siano, come dicono in molti, delle ottime palestre per iniziare a scrivere.

Sorride e mi risponde: 

– Davvero qualcuno ancora le chiama palestre? Siamo onesti: è molto, ma molto raro, che un editore venga a cercarti su una rivista, forse può capitare qualche agente che sta facendo scouting, ma anche questo è difficile. Vale lo stesso ragionamento delle scuole di scrittura, le riviste sono importanti ma non tanto per farsi notare o costruirsi un pubblico. Ci si legge tutti, ci si conosce tutti, ma è un giro abbastanza ristretto. Per me è stato molto utile come esercizio professionale e l’occasione di conoscere tante persone, prendere dimestichezza con l’editing, sperimentare delle idee. Ogni rivista ha delle sue preferenze stilistiche e/o contenutistiche, allora può essere divertente provare ad accontentare ogni redazione. Allo stesso tempo accettare che qualcuno metta mano a un tuo testo è importante, ti abitua a ridimensionarti, a metterti in discussione, a riflettere su quel che scrivi e su come lo fai. Sulle riviste puoi cambiare faccia a ogni racconto, puoi seguire una linea e perfezionarti nella tua ossessione, puoi rielaborare sempre la stessa storia, puoi fare davvero quello che ti pare. E spesso ti ritrovi a lavorare con dei professionisti che non hanno niente da invidiare agli editor delle Case editrici. I migliori stimoli mi sono arrivati dall’esperienza su riviste come Crapula, Verde o Malgrado le mosche. Ho conosciuto decine e decine di autori che poi ho ritrovato in libreria: Mattei, Gala, Petrucci, i primi tre che mi vengono in mente. Si è creata una rete di scambio, di discussione. Già solo aver conosciuto Alfredo Zucchi o il Guru De Vivo grazie alle riviste, vale il prezzo del racconto.

Mentre parlavamo abbiamo camminato lungo via Toledo e siamo arrivati in Piazza del Plebiscito. Quando arrivo lì, mi torna in mente un passaggio del libro che avevo sottolineato: Se attraversi tutta via Toledo, con le stradine che la tagliano e che portano ai Quartieri […]ci sta la piazza più bella del mondo, con il Palazzo Reale transennato e ricoperto di impalcature e la Basilica Reale Pontificia, con tutti i santi dentro e gli apostoli e l’odore dell’incenso. 

Dando le spalle alle statue e guardando oltre il Palazzo si vede il mare. Mi meraviglio davanti a tutta questa bellezza e ne approfitto per scattare qualche altra foto dal cellulare, prima 3, poi 4, poi 5 e alla fine non le conto nemmeno più. Francesco mi dice che è arrivato il momento del caffè, così andiamo a sederci a Il Vero Bar del Professore. Che nome strano, penso. Ci sono caffè per tutti i gusti, al sapore di cioccolato o nocciola. Mentre aspettiamo il cameriere chiedo ancora: 

– Tornando al libro, penso che molte persone tra i 25 e i 30 anni si possano riconoscere nelle sensazioni che prova Andrea. Quella paura nei confronti di un futuro incerto credo che accomuni molti giovani. Come mai, secondo te, Andrea è così spaventato dalla vita adulta? E tu come ti poni di fronte al futuro? 

– Questa è una domanda esistenziale – mi dice Francesco che si guarda intorno come se volesse fuggire davanti a questo mio quesito e intanto ride –, e anche un poco cattiva, prima dovremmo prenderci almeno un paio di birre. L’idea era quella di tirare fuori una storia intima, che partisse dalla mia esperienza, ma poi riuscisse ad abbracciare le sensazioni di una generazione. Il perché stiamo così e ci sentiamo così è una domanda che se ora trovassimo insieme la risposta potremmo fare i milioni. Non lo so, posso dirlo? Ci sono tanti elementi e ho provato a tirarli fuori nel romanzo, sotto forma di dubbi, di domande, non di risposte. Il mondo è diventato una grande performance, viviamo con la certezza che quello che ha funzionato per i nostri genitori con noi non funzionerà, non ci è stato dato tempo e occasione di formarci, però ci viene chiesto di essere operativi, di rispettare le stesse regole e aspirare agli stessi irraggiungibili obiettivi, senza lamentarci. In molti non ce la fanno. E non è colpa nostra. Andrea scappa. Qualcuno per aver deluso le aspettative, per non riuscire a lavorare a nero nonostante una laurea, si ammazza. Non giriamoci attorno. Ci hanno venduto e continuano a venderci un mondo che non c’è. Ne parlavo con Andrea Donaera un po’ di tempo fa e la chiamavamo sindrome di Babbo Natale: sappiamo che non esiste, ma i genitori continuano a dirci di crederci. Se non lo fai ti devi scontrare. Se lo fai vivi un dissidio interiore, ti prendi in giro due volte. Non è per niente facile. Io come mi pongo? Non ci penso. Faccio come faceva mio nonno, penso al presente. Faccio come ha fatto l’uomo per secoli: penso a domani mattina. Tanto comunque non ci sarà nessuna casa di proprietà, nessuna pensione, nessun piano a lungo termine. Almeno non per tutti. Quindi non ci penso e basta. Ma sicuramente non è la soluzione giusta.

Mentre mi racconta queste cose, penso che invece, sia proprio questa la soluzione: guardare al presente. E a questo punto mi viene in mente un’altra mia ossessione, quella per il passato e per il futuro, ma questo non glielo dico perché aprirei il vaso di Pandora e dovremmo stare qui a parlarne altre 3 ore, come minimo. Così, preferisco passare a una domanda più leggera: 

– Nascere e crescere a Napoli invece com’è? 

– Napoli è sicuramente uno stimolo, ma non credo di risentirne tanto. O almeno vale quasi esclusivamente per il romanzo, mentre per i racconti sperimento altre direzioni e influenze. Per dire, la vena comica la tengo soltanto nelle narrazioni lunghe perché mi sembra un elemento utile per tenere con sé il lettore. Ma vale anche per quando racconto una storia a voce: se devo parlare più di cinque minuti cerco di inserirci qualcosa che alleggerisca. L’ho fatto anche ora, mi sembra di parlare troppo, così ogni tanto ci ho messo una battuta. Mi viene naturale. Non so se perché napoletano, credo venga tanto da come sono cresciuto, dall’ambiente anche domestico. Donaera, sì lo cito di nuovo, dice sempre che la famiglia è il backstage, il luogo dove la smettiamo di stare in scena, siamo noi stessi. Tranne a casa mia, parole sue, perché siamo sempre in scena. Siamo in tanti, siamo abituati a prenderci in giro, a parlare sempre, a fare confusione, stiamo sempre a stimolare la risposta pronta, se sei lento ti ammazzano. Quindi sì, quello che ha influito maggiormente sulla mia scrittura è casa mia. 

– Che poi sei di San Giorgio a Cremano a volerla dire bene – interrompo –, dov’è nato Massimo Troisi. So che tu, come il tuo protagonista, lo ami molto. Quanto questo personaggio ha influito sulla tua scrittura?

– Che Massimo, ma anche Nanni Moretti per dire, o Adams o Moore, siano i miei eroi personalissimi non è un segreto. Ma lo sono proprio nella vita. Nella scrittura è concentrato il meglio e il peggio di me, gli estremi che meritano di essere raccontati o di raccontare storie.

– A proposito di questo, quali sono i tuoi punti di riferimento come scrittore? Sia guardando al panorama letterario, ma anche a quello cinematografico. 

– In SAB – di nuovo l’acronimo –, ho cercato di disseminare indizi: l’esordio è sempre così, finisci per citare tutti i tuoi punti di riferimento. Ho preferito farlo in modo esplicito perché sapevo che sarebbero spuntati anche in modo involontario, quindi li ritrovate pari pari nelle pagine. C’è tanta musica: Pino Daniele, Senese e Napoli Centrale per dire; c’è cinema: Troisi, Jules et Jim, Moretti, Tarantino, i film di Miyazaki, Totò; e c’è anche l’arte figurativa: Escher e Basquiat per dire. Trovo molto difficile individuare qualcosa di specifico: tutto quello che mi piace finisce per influenzare quello che scrivo. Anche le preferenze culinarie. Però se dovessi citare dei libri, potrei tirare fuori quelli che mi hanno maggiormente aiutato a scrivere SAB: Hanno tutti ragione, La coscienza di Zeno, Così parlò Bellavista, Lunar Park e Un amore. Ma se dovessi citare tre libri che mi hanno fatto dire voglio scrivere, sicuramente sarebbero: Don Quixote, Guida galattica per gli autostoppisti e Come un romanzo. Tre che invece mi hanno fatto pensare che forse nella forma breve potevo inserire la commedia e le mie ossessioni numeriche sono: Il Vangelo secondo Biff, L’uomo dei Dadi e Rayuela. Se penso che Cortázar lo odiavo e ora ho letto qualsiasi cosa e sono immerso fin al collo nella letteratura sudamericana. Capita anche così. Le sorprese sono una scoperta.

E qui mi viene in mente che tempo fa Francesco mi aveva detto di leggere Cortázar e io non l’ho ancora fatto e quando la mia espressione mi tradisce, gli prometto che il prossimo anno lo leggerò. Mi accorgo che è tardi, sono quasi le 13:00 e alle 14:10 ho il treno da Napoli centrale. Ci salutiamo e lui mi dice di non stare troppo a pensare al passato o al futuro, ma di fare come faceva suo nonno, pensare al presente. Sorrido: aveva intuito i miei pensieri! Tra un “auguri di buon Natale”, un “ci vediamo” e un “grazie per la mattinata”, gli faccio un’ultima domanda: 

– Ma il libro nuovo come sta andando? 

Mi risponde breve e conciso: 

– Bene, grazie. 

Stazione di Napoli centrale, Frecciarossa 9426. Sono le 14:12 e il treno parte con soli 2 minuti di ritardo. Ho scelto il posto finestrino, quando viaggio mi piace guardare fuori. Dopo le mie solite corse, ora posso rilassarmi. Ripenso alla mattinata passata con Francesco, prendo il quaderno e inizio a scrivere: non voglio dimenticare niente di tutto quello che mi ha raccontato. Ho ben 5 ore, 13 minuti e un cambio a Firenze che mi dividono da casa: tutto il tempo del mondo per scrivere una bella storia.

Greta Salvetti