accenti in avvento

Corpo del testo

Eccomi qui, ancora una volta, a domandarmi come iniziare questo taccuino. La mano trema e la penna probabilmente non scriverà. Ho appena finito di piangere, gli occhi bruciano e la gola anche. Ho vomitato la pizza surgelata che avevo cotto nel forno, dieci minuti prima, per cena.

Apro la prima pagina. Vedere il taccuino precedente terminato è stato un colpo. Forse speravo in un cambiamento, in un passo avanti; ma, evidentemente, anche un quaderno può scorrere e voltare pagina, mentre io sono ancora qui, con il solito boccone amaro, piena di disillusioni.

Si è soliti iniziare un foglio nuovo con un normale Caro diario, ma non è questo il caso, perché a scrivere non è una ragazzina. Le pagine sono nuove e immacolate, certo, ma i suoi contenuti non avranno nulla di inedito. Mentre loro scorrono, io resto ai blocchi di partenza. 

Il foglio è così bianco, bello, che temo di rovinarlo con la mia scrittura astrusa, con tante altre sciocche e vacue parole. Si dice che il modo migliore per sfogare i propri pensieri sia scrivere; almeno questo è ciò che dice la gente. Ma chi ha detto che io voglia farlo? Che bisogno c’è di lasciare righe testamentarie ai posteri, a quella che sarà, tra quindici anni, la me cinquantenne. Magari sarò morta nel frattempo. Non si sa mai di questi tempi. Chissà, forse non sarà cambiato nulla e sarò ancora lì a lamentarmi, a vivere la mia vita nell’inettitudine, nell’anonimato, chiusa nel migliore nascondiglio che possa esserci: il quotidiano.

Vorrei cancellare tutto questo pensiero ma non posso. La mia testa mi impone di non farlo. Ne morirei altrimenti. 

Siamo vicini a Natale e io non riesco a smettere di pensare a tutto il cibo che ingurgiterò e poi vomiterò di nascosto il ventiquattro, il venticinque e il ventisei. Diciamo che quest’anno mia madre non potrà più star lì a ricordarmi quanto faccia schifo il mio corpo, a dirmi di smetterla di abbuffarmi come se arrivassi da un paese del terzo mondo. Il fatto è che, anche se sono dimagrita, continuo ancora a sentire il peso del mio corpo. 

– Mamma –, le confidai una sera al telefono, – mi sento così brutta e grassa, così… – Avrei desiderato una risposta affettuosa; una di quelle che solitamente una madre direbbe alla propria figlia, invece mi sentii dire solo un: – impegnati e dimagrisci. 

Mia mamma è fatta così e forse, pensandoci su, anche io sono come lei. Sono uscita dalla sua vagina, in fondo; sono gli insegnamenti di una madre che un figlio acquisisce per primi. Io le assomiglio tanto: ho i suoi stessi occhi azzurri, il suo sorriso, lo stesso colore di capelli castano chiaro; e la mia famiglia, inconsapevole del danno che mi reca ogni volta, mi ripete spesso e volentieri quanto sembri lei da giovane. Vorrei strapparmi questa faccia; cancellarla, distruggerla, non vederla affatto. È per questo che ho deciso di non volere dei figli: per non vedere un’altra piccola me. Che colpa ne avrebbe quel poveraccio, mi dico.

Anche se cambiassi idea, non saprei come mettere al mondo una creatura. Mio marito è scappato dopo un anno e mezzo di matrimonio. Non lo biasimo, anzi, credo abbia preso la decisione più giusta..

L’altra notte, mi è capitato di svegliarmi nuovamente a causa delle coperte leggermente scomposte dal movimento del mio corpo. In effetti, non possono pendere troppo né dal lato destro né da quello sinistro perché devono restare in equilibrio. 

È domenica mattina e non ho assolutamente voglia di uscire fuori al freddo. Anche se provo a distrarmi con questa stupida farsa, la mia testa ha già progettato il suo quotidiano piano d’attacco: bucato, tapparelle, tende, mobili, pavimenti. Sento la testa esplodere e il corpo perdere totalmente il controllo. Mi guardo intorno e i vestiti appallottolati sulla poltrona, uniti alla pipì del cane, mi rendono sempre meno lucida. Penso alla polvere sulla cassettiera e sui comodini, alla tavoletta del wc sporca, alla doccia intasata dai capelli, alle macchie nere vicino al piano cottura. Avverto i nervi in tensione e ho paura per gli attacchi di panico e i tremori che, ancora una volta, non saprò gestire.

Respiro. 

Il mio corpo è incatenato a pensieri costanti e ossessivi, che irrompono nella testa, mi logorano e cancellano tutte le priorità.

Ci sono persone che si impongono nel mondo e vivono la loro vita cogliendo tutti gli stimoli, in funzione di un qualcosa, di un motivo superiore; è come se il loro ego arrivasse a destinazione prima dei loro corpi. Li vedo, li riconosco: hanno la testa dritta, fiera, sono super organizzati; hanno puntualmente le spalle sostenute, aperte, pronti a dispensare consigli dall’alto della loro esperienza. 

Io, più che una protagonista, mi sento una comparsa, pagata per svolgere quelle due o tre mansioni necessarie alla mia sussistenza: più che vivere, tento di sopravvivere evitando tutto e tutti, evitando i miei disturbi, i miei problemi. Questo è ciò che so fare, questo è ciò che mi è stato insegnato, l’unico rimedio per affrontare le mie mancanze.

La mia vita è una continua giostra fatta di tante salite e poche discese. Caro diario, io sono finzione. La mia vita lo è. Il mio corpo lo è. Il mio volto, le mie espressioni, i miei gesti lo sono. Quando sorrido è solo perché è necessario farlo. Perché il contesto lo richiede. L’altra sera, ad esempio, ero con i miei amici a cena e si sa come vanno queste cose; la birra fa il suo corso e tutti cominciano a ridere dinanzi a una qualche battuta sconcia che quello più ubriaco ha sparato a caso. Io, sinceramente, non ci trovo nulla di divertente. Se solo avessi potuto, avrei passato la serata al buio, a guardare lo schermo nero della televisione, seduta sul mio divano. 

Forse, anche questo zibaldone, questo misero codice degli abbozzi, mente. Chi sono davvero io non lo so, e non credo nemmeno di volerlo sapere. 

Scrivere è un po’ come guardarsi allo specchio e, a dire la verità, io lo schivo sempre. È così difficile guardarsi realmente, mettersi completamente a nudo. Quando mi è possibile, evito di osservare la mia immagine riflessa; mi fa paura, soprattutto la notte, quando, entrando in bagno, vedo un volto sgraziato, abbruttito, scuro, non lineare; così faccio piano, abbasso la testa e cammino a luci spente. Anche ora, con la nuova taglia quarantadue, osservo un’immagine distorta e irreale di me. È così logorante osservare tutti questi difetti. Non so dare delle risposte; non so cosa ci sia davvero che non vada. Il mio viso è brutto, spento, cadente. E poi ci sono le cosce, le caviglie, le braccia, il seno, la pancia. La solita merda, insomma. 

Razionalmente parlando, lo so che il mio corpo non è che la mappatura di una strada che ha come punto d’arrivo la mia testa; è solo che ho perso i punti di riferimento, la strada più giusta, l’est e l’ovest. Caro diario, per oggi va bene così perché è molto più facile cedere alla confusione mentale che affrontare le situazioni di petto.

Carmen Chirico