
Diecimila passi
Hanno detto alla televisione che per restare in forma bisognerebbe fare almeno diecimila passi al giorno. Forse dovrei cominciare a contarli, penso, e butto giù l’ultimo sorso di caffè. Il rumore ferroso del chiavistello mi fa scattare in piedi. Non è un’idea malvagia, mi dico ancora, basterà segnare una tacca sulle scarpe ogni cento passi.
Un saluto frettoloso e la porta viene richiusa alle nostre spalle.
Seguo questo ragazzotto che potrebbe essere mio nipote. Sbadiglia e si stropiccia gli occhi. Beata gioventù, mi ritrovo a pensare.
È lunedì: è il giorno dell’acqua, esclama quando finalmente arriviamo in magazzino. Il mio compito, insieme ad altre due persone, fino a pomeriggio inoltrato, sarà quello di scaricare dai camion casse di acqua da dodici litri, sistemarle sulle pedane e quindi sul montacarichi. Primo piano, sezione A: quattrocento passi. Sezione B e C: dodici tacche sulla scarpa sinistra. Secondo piano: sezione A, B e C e mangiamo al volo qualcosa per pranzo. Terzo piano, sezione B, C e A e, anche cambiando l’ordine degli addendi, il risultato non cambia: conto duemilaquattrocento passi, trentasei tacche totali sulla scarpa sinistra.
Ora d’aria, richiama a un certo punto il ragazzo di stamattina, m’ raccumann uagliò: tenete la destra!
Il sole è già basso nel cielo e il tepore della giornata, ben presto, lascerà il posto a un freddo pungente. Che poeta, mi prendo in giro mentre alzo la mano per salutare un ex compagno di cella. Qualcun altro mi offre una sigaretta. Qualcuno gioca a calcio. Io cammino. Conto i miei passi.
Alle sei, siamo tutti di ritorno alle nostre camere blindate. Un sottofondo ci accompagna insistente e tutte le volte penso che sia questa la nostra vera condanna: rumori di chiavi, porte che vengono sprangate e televisori che gracchiano e non smetteranno di farlo per tutta la notte.
Tolgo finalmente le scarpe e, su un foglio, segno: primo giorno, cinquanta tacche sulla scarpa sinistra e trenta su quella destra, ottomila passi. Posso fare meglio.
Puntuale arriva un’altra alba. Martedì è il giorno di consegna dei beni di prima necessità. Al solito magazzino ci aspettano le altre due solite persone, ciascuno con i propri segugi. Il mio secondino tiene in mano una pacchettata di fogli con nomi e cognomi e relativa lista delle cose che spettano ai detenuti: abbiamo fatto la spesa, ora dobbiamo distribuirla. Anche oggi sarà: primo piano, sezione A: bombole di propano, caffè, pasta e carta igienica. Sezione B e C: biscotti, latte e ventuno tacche sulla scarpa sinistra. Secondo piano, sezione A, B e C: pelati e farina. Terzo piano, sezione A, B e C: quattromila e cento passi.
Ora d’aria, dice il solito secondino. Tenete la destra uagliò, m’ raccumann!
C’è gente nuova, giovanissimi per lo più. Non mi avvicino, non conosco i loro nomi ma posso intuire le loro storie: spaccio, associazione mafiosa, furto, truffa, associazione a delinquere e a volte – li riconosci, hanno il volto stravolto dalla notte che non rende loro pace – omicidio. È così. Da quanto? Ho perso il conto e ne perderò ancora. Come si fa a contare un ergastolo? Come si fa a quantificare una vita? Questa la durata della mia permanenza qua dentro, la mia pena.
Una volta in cella, dopo cena, osservo le mie scarpe: ho un quarantacinque, di spazio ce n’è e le tacche di oggi marcano, sulla sinistra, quelle di ieri, mentre sulla destra ne ho aggiunte undici nuove: secondo giorno, novemila e cento passi. Ottimo lavoro, posso fare ancora meglio.
E così un altro sole, nuovamente, sorge. Mercoledì è il giorno della biblioteca. Il mio secondino mi consegna le richieste. In questo locale di un metro quadro, a voler essere generosi, catalogo libri, rovisto tra scaffali, controllo titoli, ne ripongo qualcuno su un carrello e segno su un registro quello che esce e quanto tempo potrà stare fuori da questo buco. Poi di nuovo il mio ballo preferito: primo, secondo e terzo piano. Sezione A, B e C: cinquemila passi.
Regà, c’è l’ora d’aria. Me raccomanno, a destra.
I secondini hanno cambiato turno. Questo è laziale e mi guarda sempre con aria di spocchia. È normale, lo giustifico. Ha a che fare con la rettitudine: loro ce l’hanno, noi non più. L’abbiamo persa per nostra volontà, siamo rei di peccati enormi, mortali. Loro che colpe hanno? Peccati veniali, di quelli che si perdonano con un padrenostro e dieci avemarie. Le preghiere qui non servono.
Alle otto e mezza, mentre blob su raitre fa da sottofondo, segno sul mio foglio: terzo giorno, settemila e novecento passi. Troppo poco, devo recuperare.
Arriva il giovedì: è tempo delle visite. Mi faccio una doccia, raso la barba e mi rendo presentabile: oggi c’è mio figlio. Cambio scarpe. Ne ho solo due paia per tutto l’anno. Né infradito, né ciabatte. In cella zampetto con le sole calze e quando sono fuori uso delle comunissime scarpe da ginnastica bianche. Mi hanno arrestato sette anni fa con quelle: avevo appena finito di fare jogging e non ho mai voluto privarmene. Mi ricordano luoghi diversi, più ariosi, e tempi meno dilatati di quello in cui ora vivo. L’altro paio, quello che indosso stamani, me l’ha regalato mio figlio qualche mese fa. Non posso imbrattarle, sono le uniche scarpe decenti che mi restano: dovrò affidarmi alla mia memoria per contare i miei passi, oggi.
Papà mangi?, mi chiede dopo il solito abbraccio affettuoso. Tutte le volte mi ripete che sono sciupato.
Mangio, mangio. Non ti preoccupare. È che lavoro molto.
Meno male, dice lui, così non pensi.
Se solo conoscessi i miei pensieri, sapresti davvero quanto mi tormentano. Anche loro sono una condanna. Ma questo lo ometto e sorrido.
Che c’è papà? Sembri da un’altra parte oggi.
Ma no, ma no. È che devo ricordarmi delle cose per il lavoro che devo fare più tardi, mento. Dai raccontami di te, che di sicuro avrai più novità.
A fine giornata conto cinquanta tacche sulla scarpa sinistra e solo due su quella destra: cinquemila e duecento passi. Dovrò impegnarmi se voglio raggiungere i risultati sperati.
E così capitombolo al venerdì: il giorno della consegna della posta. Spingo un carrello pieno di buste rettangolari, quadrate, bianche e colorate. Ci sono indirizzi di strade e vie disparate ma anche omonime. E anche oggi parto: primo piano, sezione A, B e C. Secondo e terzo piano: sezione A, B e C e di nuovo A, B e C. Settemila e trecento passi.
Ora d’aria, mantenere la destra, per favore.
Di nuovo il secondino è cambiato. Nessuna inflessione dialettale, una pancia spropositata e l’età che avanza e che si vede tutta. È più distaccato, più professionale. Sono i peggiori: ti giudicano senza il beneficio del dubbio. Si atteggiano a dèi che voltano lo sguardo dall’altra parte e si turano le orecchie: è una questione di dignità la loro, di rispetto di gerarchie, chi è buono e chi non lo è, chi è degno di stare a questo mondo e chi deve essere condannato al castigo eterno.
Poi arriva la cena e, con lei, il momento di fare i conti: quinto giorno, cinquanta tacche rimarcate sulla scarpa sinistra e quarantotto su quella destra: novemila e ottocento passi. Ci sono quasi.
E con queste buone intenzioni giungo al sabato, il giorno dei beni di seconda necessità: è così che chiamo io i quaderni, le penne, i francobolli, i settimanali, il bagnoschiuma e il detersivo per i piatti. Ancora una volta, l’ennesimo, e non so mai se sarà l’ultimo, giro. Primo, secondo, terzo piano. Sezione A, B e ancora C, per tre volte.
Ora d’aria, tenere la destra, prego.
Chiavi e chiavistelli. Tv accesa sul tg di raiuno. Qualche strage. Qualche bimbo scomparso nel nulla. La finanziaria che non procede come deve. Guerre che continuano ad anni luce da qui. Io scrivo instancabile i miei progressi: sesto giorno, cinquanta tacche sulla scarpa sinistra e cinquanta a destra. Ce l’ho fatta! Diecimila passi. Diecimila: mi sembravano pochi. Poi tanti, poi irraggiungibili e, infine, eccomi qua, con i miei diecimila passi camminati che mi sono sembrati una vita intera. Forse è così che sarà quando sconterò la mia pena, quando morirò.
Giunge il giorno del riposo. È finalmente domenica. Oggi non conterò i miei passi, non camminerò, me ne starò sul letto a guardare le mie scarpe logore sul pavimento sporco di questa cella e cercherò di inventare una storia, di scrivere un racconto sui miei diecimila passi.
Francesca Gentile

