
Un silenzio condiviso – Silent Book Club di Pesaro
Ci sono angoli di città che non conosciamo finché non ci fermiamo, in silenzio, a viverli.
Mi è capitato molte volte di passare davanti a Casetta Vaccaj, nella mia Pesaro, senza fare, però, troppo caso a quello spigolo cinquecentesco signorile e discreto che si affaccia su un’oasi di pace ritagliata nella frenesia del centro. Decido di sedermi qui. Ho un libro blu in mano e quattro estranei lettori attorno a me. Sfilo dalle pagine un piccolo biglietto viola che uso come segnalibro: ha tre parole sopra: Silent Book Club.
L’ho trovato quest’estate, appoggiato sul bancone della Casetta: sembrava una specie di invito – e in un certo senso lo è stato – a scoprire dell’esistenza di un gruppo di lettura silenzioso. Un’idea americana, che si è poi diffusa anche a Torino, Palermo, Roma, Verona, Taranto e altre città che ora non ricordo. Mi ha stupito sapere che anche nella mia piccola città potesse esserci una sorpresa così originale.
È giovedì. Il buio è sceso, sono le 20:00 e siamo ancora immersi tra le pagine dei nostri libri, sparsi a popolare i tavolini di piazza Toschi-Mosca che è muta intorno a noi. Questo temporaneo salotto di lettura, sorvegliato da giganti di pietra bianchi che vigilano su di noi da circa un’ora, un tempo non era altro che un parcheggio: non posso non distrarmi per ammirarne la trasformazione, di tanto in tanto, così come mi ritrovo a osservare gli altri lettori. Io sto leggendo i primi capitoli de La notte delle farfalle, di Aimee Bender, e tengo il romanzo appoggiato sulle gambe. Qualcun altro usa ripiegare a metà il libro in una dolce curva, tenendo così, a vista, soltanto una pagina alla volta; qualcuno, invece, lo regge spalancato di fronte agli occhi, come se volesse entrarci in quelle parole. Noto, anche, che il signore alla mia destra vuole il suo romanzo sempre più vicino: se lo porta al viso con entrambe le mani, quasi come un calice prezioso dal quale bere a grandi sorsi. Intravedo il suo titolo: Fermare Pechino. Allo stesso modo vedo che c’è chi cambia spesso posizione, chi resta immobile con una mano sul libro e una sul petto, come ferito dalle parole stampate, e chi invece è tanto assorto da non accorgersi dell’arrivo di certi stuzzichini che, in sordina, ci compaiono davanti per un aperitivo, anche questo, silente.
In quel momento si siedono accanto a me due donne. Si presentano: Manuela Costigliolo e Valeria Agabiti sono le fondatrici del club e sorridenti cominciano a parlare del loro progetto. Grazie alla loro accoglienza sembra di essere in un piccolo circolo segreto e allo stesso tempo calorosamente aperto a chiunque desideri unirsi. Ogni tanto riemergiamo, ognuno da un mondo differente, e lanciando uno sguardo qua e uno in là, cerchiamo di ricordarci dove siamo. Tendiamo a dimenticarci di essere fianco a fianco, anche se siamo a un metro di distanza e beviamo tutti lo stesso vino. Così noto che tutti qui hanno libri diversi: l’intento di questo raduno, dopo l’ora di lettura in silenzio, è creare ogni settimana un dialogo sempre ricco di spunti e diverso dal precedente. Non esistono gusti univoci, né scadenza e ritmi da rispettare: tutte prerogative di un consueto gruppo di lettura.
– Dovete sapere che io sono genovese – dice Manuela –, anche se i miei figli ormai parlano in pesarese, purtroppo – scherza con noi, quando termina l’ora di lettura. – Il primo Silent Book Club che ho conosciuto è stato quello di Genova. Ho voluto portare qui l’idea, che si è rafforzata in modo particolare dopo la pandemia. Un modo per stare insieme e tornare a condividere, dopo tanta lontananza. Sentivo, sentivamo, il bisogno di riappropriarci dello spazio pubblico della piazza, per esempio, un desiderio che ci portavamo dentro da quando eravamo chiusi tutti in casa.
Iniziamo a chiacchierare senza accorgercene, riversandoci addosso pensieri scaturiti dai romanzi e dai saggi che abbiamo ancora tra le mani. Un lettore venuto da Milano mi racconta con sguardo estasiato che Wabi Sabi, di Tomas Navarro, insegna come accettarsi da ogni punto di vista, come accogliere tutte le imperfezioni che sono parte della vita e parte di noi. Mi rasserena questo atteggiamento costruttivo, non distruttivo, verso se stessi e il mondo. Dietro di lui si sta alzando Valeria, che chiude La stoffa del diavolo, di Pastoureau e si avvicina a noi. Le voci si intrecciano, si fanno animate, e la sua in particolare si insinua tra le altre stuzzicando una vivace curiosità: il libro che sta leggendo affonda le sue radici nella storia dei tessuti a righe e il loro significato simbolico, dal Medioevo e oltre. Pian piano, ci alziamo tutti.
Capisco che una volta finito il tempo per leggere, è arrivato il tempo di entrare, e lancio una rapida occhiata alle ultime parole del capitolo: “Nella mia mente di bambina, la sua esistenza era comunque tutta lì”.
Senza volerlo ho scelto una storia triste, che aggiunge una vena malinconica a quella serata fresca ma allegra. L’ho scelto in libreria appena poche ore prima di venire alla Casetta, accordandomi al tema della settimana: novità in uscita. Il tema non è altro che una suggestione, mi spiegano, per chi non sa quale testo portare per rompere il ghiaccio. Nulla di obbligatorio. Come scopro poco dopo, è soprattutto un suggerimento per il cocktail a tema e la degustazione che la proprietaria del locale si inventa per accoglierci dopo la lettura e intrattenerci fino a tarda sera.
Varchiamo la soglia sotto un balconcino che potrebbe essere quello di una Giulietta Capuleti pesarese. Luci calde e pareti invase da ricordi ci si stringono attorno. Mi chiedo quali ambienti accolgano i Bookclub delle altre città, ma Manuela sembra anticiparmi: mi spiega che chiunque può chiedere di aprire un Capitolo – è così che vengono chiamati i nuovi bookclub – in una città che ancora ne è sprovvista, in qualsiasi luogo disposto ad accoglierlo – una libreria, un parco, un piccolo bar – dove si possa avere la pace necessaria e nient’altro. Ci scaldiamo prendendo posto a un tavolo per la cena, e soltanto in quel momento mi accorgo che Manuela non ha ancora riposto il suo libro: c’è qualcosa che dobbiamo sapere.
– Questa parte sembra parlare di noi – dice, indicando Le vite nascoste dei colori, di Laura Imai Messina. È un “noi” che mi fa già sentire parte del gruppo. Inizia a leggere ad alta voce, per renderci partecipi: “Leggendo aveva avuto la sensazione che il mondo fosse più grande di come se lo era figurato, e quell’epifania – che ci si potesse cioè letteralmente allargare la vita leggendo – lo aveva investito di gioia. Non smetteva di stupirsi come, pur stando immobile in una stanzetta con pochi tatami, il suo corpo reagisse a immagini costruite anche molti secoli prima. Che fosse un libro di letteratura giapponese o straniera non cambiava poi molto. La felicità, per Aoi, era quella cosa in cui lui stava fermo, in silenzio, e la testa intanto si riempiva di cose”.
Sentendo queste parole non posso non sentirmi descritta con precisione. Sorrido. Alzando gli occhi, intravedo una fila di calici impettiti che guardano me e gli altri dal bancone, ritti come soldati di cristallo: una visione che ci incoraggia a rendere omaggio a Baudelaire e al suo Enivrez-Vous! Che sia di vino, di poesia o di virtù, come diceva il poeta, siamo pronti.
Decido di tornare un altro giovedì, uno speciale:
– È il compleanno del Bookclub, un anno esatto. Era proprio novembre – mi viene detto dalla proprietaria del locale, Silvia Ottani, con una nota di fierezza nella voce.
Per l’occasione leggiamo nei sotterranei duecenteschi della Casetta: ammiro l’arco ribassato sulle nostre teste, che ci disegna attorno una piccola galleria, mi presento a nuovi volti che non avevo ancora incontrato e prendo posto alla lunga tavolata. Se l’esterno e il piano superiore richiamano un salottino romantico e scanzonato, quaggiù sembra di fare un passo direttamente dentro la Storia. In passato hanno allestito in questi spazi una mostra di arte contemporanea, mi dicono: opere di diversi artisti esibite ciascuna in una nicchia, perché dialogassero con quella posta di fronte, in un tacito contrasto. Me le immagino senza troppa fatica.
Pietre, mattoni e ombre sanno creare un’atmosfera onirica e antica ideale per seguire quei voli pindarici che solo la letteratura e le arti visive sanno scatenare. Per un istante quasi mi pento di non essermi portata dietro uno dei miei romanzi surreali o gotici: ho tra le mani Altri libertini, di Tondelli, un libro che ha così tanti cazzo e droga da stridere con il luogo in cui siamo immersi. Ma ricordo che, dopotutto, è anche questo il bello della lettura: trovarsi in un certo ambiente e, con la fantasia, ritrovarsi in un mondo completamente opposto e distante. È così leggere: viaggiare senza muovere un passo.
Al termine del silenzio condiviso, si riversano e si scontrano fiumi di parole da una parte all’altra del tavolo. Ci vengono portati piatti, posate e buon vino, parliamo di adozioni, di cinema e di poeti, svelando, qua e là, piccoli spicchi di vita.
Un libricino giallo richiama il mio sguardo più degli altri: è Paese d’ombre, di Dessi. Un ritrovamento speciale dopo una ricerca di anni, avvenuto come spesso accade grazie alla biblioteca comunale. Ne riconosco l’involucro trasparente, perché anche la raccolta di racconti che ho portato oggi viene dalla stessa biblioteca. Scopro così che le abitudini di lettori possono essere davvero disparate: c’è chi non riesce a prendere libri in prestito per il bisogno di possederli; c’è invece chi lo fa e ne conserva nella propria memoria, le pagine, la storia, le parole; c’è ancora, chi ha bisogno di averli per una necessità impellente di rileggerli all’infinito; c’è poi chi ama farne una sola lettura, indelebile, e comunque sapere di avere l’oggetto-libro sempre a portata di mano come fosse un’amabile reliquia.
La serata è ormai al termine e, dopo datteri avvolti nella pancetta e ciotoline di bulgur, sono pronta a lasciare questo rifugio che, per qualche ora, mi ha offerto riparo dal gelido mondo esterno. Afferro con gli occhi i titoli che ora svaniscono, uno dopo l’altro, dentro le borse: Questo immenso non sapere di Candiani, Brevi scene di lupi di Margaret Atwood, il celebre Tenera è la notte e Mapocho, di Nona Fernandez. C’è un ultimo libro che non ho ancora citato, al quale penso continuamente tornando a casa. È l’unico titolo che non ricordo: un tomo bianco e voluminoso, che si diceva essere stato divorato con gioia e in poco tempo per via di una trama e un ritmo travolgenti. Forse, dopotutto, quella è stata la scelta più adatta al tema suggerito per questa serata: la golosità. Mi riprometto di cercarlo e di tornare presto a sbirciare tra le mani di questi lettori, perché di cultura non si può mai esser veramente sazi.
Valentina Gili

