
Mai visti prima
Anche con tutta la buona volontà, con mani così minute non sarei mai riuscita a strozzare il collo da toro di Randall. Ci ho pensato molto, ma non sarei stata capace nemmeno di piantargli un coltello in pancia. Mi mancava la forza. Mi mancava soprattutto la risolutezza, perché per quanto Randall mi ripugnasse, in fondo non era lui la causa della mia disperazione.
Sin dall’arrivo, cinque anni fa, nella città di Randall, la cosa che più mi turbava del nuovo mondo erano le dimensioni degli spazi, della gente, dei luoghi. Incommensurabili. A partire dall’aeroporto, un gigantesco labirinto di scale mobili e corsie luminose nel quale si perdevano persino interi sciami di persone. Mai visto un posto tanto grande prima. Così vasto da farmi sentire insignificante.
Randall mi aspettava all’uscita. Anche se era la prima volta che lo incontravo, riconobbi subito il viso gonfio e squadrato, nonostante di persona fosse molto più alto di quanto non sembrasse nelle fotografie che aveva mandato. Mai visto un uomo di quella statura prima. La sua ombra mi inghiottiva. Con uno schiaffo avrebbe potuto piegarmi in due, come uno stelo percosso dal vento.
– Ben arrivata Jennybeth –, disse allargando le braccia per accogliermi. Risucchiarmi.
Mi aveva affibbiato quel nome nella sua lingua prima che partissi, perché a suo dire sarebbe stato più semplice ottenere il visto d’ingresso e sbrigare i documenti per il matrimonio. Un nome che riuscivo a stento a pronunciare. Incomprensibile come le voci della folla all’aeroporto.
Mi limitavo a sorridere, un poco. Ad annuire, un poco.
Il parcheggio del terminal era pieno di macchine dalle ruote, ai miei occhi, alte quanto bambini. Dopotutto, gli unici mezzi di trasporto che avevo visto fino a quel momento erano le chiatte sui canali che finivano nel Mekong e i carretti che portavano riso e manioca dal villaggio fino alla città.
Me ne stetti raggomitolata sul sedile mentre sfrecciavamo sull’autostrada che si perdeva a vista d’occhio. Mai viste tante corsie prima. Come se l’asfalto avesse inondato interi tratti fra le case e le fabbriche.
– Guarda Jennybeth –, disse rivolto verso i grattacieli che si stagliavano fuori dal finestrino – Il più grande paese al mondo.
La parola che Randall ripeteva più spesso, fu la prima che imparai. The greatest.
Spesso andavamo fuori a mangiare. In parte perché non apprezzava troppo la mia cucina. Quei vostri intingoli agrodolci, li chiamava. In verità Randall era a suo agio a tavola solo quando intorno aveva gente che godesse quanto lui ad abbuffarsi. Amava quei posti dalle insegne abbaglianti. Piatti tracotanti, bicchieri ricolmi. Mai viste porzioni simili prima. Da sfamarci una famiglia intera con quello che ordinava. Mi sembravano tutte uguali le persone, dei giganti, non solo nei ristoranti. Ovunque quel grasso, quelle risate fragorose, quelle mascelle sporgenti.
Qualche volta mi aveva portato a fare delle gite. Gli dava un brivido sparare nel deserto. Si credeva padrone del cielo, della terra, e di quello che nemmeno vedevamo nella vastità dell’orizzonte.
– Dio ci ha dato il mondo in mano Jennybeth – disse una volta mentre premeva il grilletto del fucile, mirando alla polvere.
A ogni colpo io invece avrei voluto sbriciolarmi e scindermi in frammenti minuscoli come il pulviscolo che si alzava dalle gole del canyon. Non ero nulla in quell’oceano di pietra. Avevo smarrito il mio vero nome, e la voce giorno dopo giorno mi si affievoliva. Del resto a che serviva parlare, quando non ero che piccola merce di scambio, chincaglieria venduta al miglior offerente, che Randall aveva comprato con un bonifico su internet.
Quando il suo corpo immenso premeva su di me, mi sentivo soffocare. Così, per farmi ancora più sottile, avevo iniziato a digiunare. Sbocconcellavo appena il cibo, mettevo in bocca solo briciole, anche quando il dottore di Randall aveva detto che così impedivo al bambino di crescere. Per questo si erano messi a ingozzarmi a forza. Mattina, mezzogiorno e sera. Finché non solo la pancia, ma anche le gambe, le braccia e le guance si erano riempite così tanto da rendermi irriconoscibile. Prima di allora non avevo mai visto allo specchio il mio corpo con quelle forme.
Le ossa erano sparite sotto un ammasso di carne, rimasto anche dopo la nascita del bambino. In casa, sola con lui, non facevo che aprire e chiudere il frigo e scavare un solco nel divano davanti alla tv.
– Non sono forse i migliori programmi che tu abbia mai visto Jennybeth? –, diceva Randall porgendomi la busta di patatine fritte, compiaciuto di osservare quanto stavo diventando simile a lui.
Mai visti presentatori con denti tanto bianchi prima, pensavo invece io.
Solo le mani sono rimaste inspiegabilmente magre. Le stesse mani sottili di mia madre, quella contadina esile che non aveva saputo che farsene di una ragazzina come me. Con mani così minute, non ce l’avrei mai fatta a premere il cuscino sulla faccia grumosa di Randall. Ho potuto solo appendere un cappio al lampadario del salotto.
Eleonora Pinca


