racconti

Corpi

L’affanno che mi opprimeva il petto scendeva piano verso lo stomaco e, trasformandosi in pulsione, camminava a rilento nella mia intimità. 

– Mi trovi vecchia? –, le chiesi.

Mentre la luce fioca della stanza richiamava voglie soppresse e i rumori del traffico irrompevano nel silenzio della notte, provai vergogna per tutti gli orgasmi ascoltati da quella camera. 

Era quello stesso piacere che ora stavo cercando? 

Osservai il mobilio intorno a me. Aria consumata, odore umido, di polvere. Un capannone rivestito a dormitorio. Una finestra, un balcone, un tavolino in legno; un letto, che per quella notte sarebbe stato il nostro. 

Dana non rispondeva: come avrebbe potuto convincermi del contrario? Era lì, in quel motel, con me; e la mia età, ai suoi occhi, era solamente il ritratto di un segno.

La mia voce andava facendosi sempre più affannosa.

– Amami, – le dissi avvicinandomi a lei con esitazione.

– Spogliami, – le chiesi ancora.

I battiti accelerati alteravano il respiro, l’affanno sempre più gravoso mi incitava a quel desiderio inconsueto. 

Dana attese ancora un po’, in silenzio.

– Credevo volessi ancora…

La interruppi. – Ti prego, – feci afferrandole il braccio e portandolo alla mia camicia bianca, – fallo!

Era accaduto tutto così in fretta; ci eravamo incontrate in un luogo che neanche più ricordavo: un treno, una strada, un caffè. Che importava ormai? L’avevo riconosciuta, era persa, al solito, nei suoi pensieri. 

Non era stato difficile riassegnarle un volto. Era cresciuta: altezza media, lunghi capelli scuri, fin troppo magra, credetti, ed elegante nel suo tailleur giacca e tubino nero. Fu lei ad avvicinarsi per prima, a controllare il mio lento vagare tra gli scaffali di una libreria in centro, all’ingresso di un piccolo ristorante vicino Piazza dei Miracoli, seduta fuori a una caffetteria di Borgo a leggere in totale solitudine il giornale mattutino con spremuta e caffè. Mi aveva sempre affascinata quella sua spavalderia a tratti ingenua, a tratti maliziosa; in fondo, non era cambiata affatto, era rimasta identica.

Appagamento o angoscia? Mi arrendevo, finalmente, a quel bisogno? Ascoltavo i suoni silenziosi del mio corpo inerme, mentre Dana cominciava a prendere confidenza con l’ambiente circostante, con il suo desiderio di piacere; mi sfiorava le labbra, le guance, il collo. E mentre annusava la mia pelle, la percezione di quell’odore accresceva la mia eccitazione. 

Le sue mani erano come dei pesi sul mio corpo avvizzito. Come poteva il mio seno cadente eccitarla in quel modo? Quali sensazioni la attraversavano mentre lo esplorava e lo stringeva forte? 

Il pensiero, così intriso di sensi di colpa, si allontanava facilmente da lei: da quanto tempo non chiamavo mio figlio? Uno, due, tre giorni, forse. Da quando i nostri ruoli si erano invertiti? Ora, ero io a cercare la sua approvazione, ero io a dover giustificare un’uscita qualunque: un caffè, un cinema, la spesa. Immaginavo già i suoi “Mamma, ma che fai?”, “Mamma, ma non ti vergogni?”, “Mamma, sei vecchia.” 

Vecchia? A che età si è vecchi? Per supermercati, treni e  musei,  a sessantacinque anni, quando con tono benevolo ti chiedono se desideri lo sconto over, la vantaggiosa offerta per pensionati squattrinati. 

L’avevo tirato su io quell’uomo. Era uscita dal mio ventre caldo, quella testa quadra. 

Non mi avrebbe creduta affatto: quel mio azzardo, ai suoi occhi giudicanti, sarebbe stato liquidato come un banale bisogno di attenzioni; oppure, mi si sarebbe scagliato contro, mi avrebbe intimato di non scherzare su certe cose, di non dimenticarmi l’infarto di cinque mesi prima, che non era stato certo una cosa da niente. Avrebbe dubitato della mia testa, oltre che del mio cuore, e mandato una donna ad aiutarmi in casa; mi avrebbe sommersa di saggi e romanzi, come si fa con un bambino di dieci anni quando lo si vuole tenere a bada, parcheggiandolo per ore davanti alla tv. 

Avere settant’anni significava regredire allo stadio natale dei primi vagiti? No. Potevo scegliere per me sola, e così fu.

Il letto, la cui testiera toccava le pareti sporche e scure, era in legno tarlato, coperto da un piumone ruvido, consumato, pieno di pallini, a zig zag, viola e nero. Mentre con una mano tentavo di disfarlo, con l’altra, mi tenevo come meglio potevo a quel materasso a molle sfondato. Dana mi si sedette addosso, con le gambe divaricate e sentii il suo corpo vivo sul mio. Era un corpo caldo, era la morbidezza di un essere che mi faceva riaffiorare sensazioni passate, sensazioni umane.

Sfilati la giacca e il foulard, Dana cominciò a sbottonarsi la camicetta. Il primo, il secondo, il terzo bottone, oltre la trasparenza di quella seta bianca cominciai a intravedere un reggiseno in pizzo. Avevo l’acquolina in bocca, ma mi vergognavo, non volevo mostrarle la mia eccitazione. 

Cosa ci si aspetta da una persona matura? Voleva davvero vedermi in una versione inedita? Far perdere totalmente il controllo e la razionalità a una persona più grande? Io che le avevo insegnato le declinazioni, lo Sturm und Drang, la vita. Mi avrebbe giudicata, forse? 

In realtà, mi riusciva poco riflettere. La vedevo spogliarsi: com’era bello quel suo corpo. Luminoso, elastico, gonfio. Avevo voglia di toccarlo, di eccitarla, ancora e ancora.

Ma cosa potevo offrirle io? Non osavo guardarmi; non lo facevo più, ormai. Avevo imparato a evitarmi, a oltrepassare le vetrine, gli specchi, qualsiasi richiamo a quella decadenza in continua evoluzione. Io che mi ero sentita bella, sicura di me, certa della mia capacità di attrarre chiunque. Non avevo dimenticato l’effetto che scatenavo sugli uomini, un tempo. Certo, c’era chi si spaventava della mia capacità oratoria, della mia classe da persona istruita. Per alcuni, allora, ero semplicemente una donna frustrata con le gambe chiuse, per altri la professoressa di latino del liceo classico Manzoni. Un’autorità, una persona da rispettare senza obiezioni, quella che aveva sempre ragione. Ma non ci pensavo più ormai; avevo totalmente cancellato quel mio passato. 

Perché Dana poteva amare quel mio corpo trasformato e io no? La vecchiaia sembra un tumore silenzioso che, senza avvisare, avanza, attento a non farsi scoprire e d’un tratto, bussando alla porta ti dice: eccomi, sono qui. E io non l’avevo visto entrare, non ci avevo fatto caso; ma quel male aveva già fatto il suo ingresso, si era appropriato della mia carne, del mio corpo, della mia forza. Ripensai a quel giorno, una normalissima mattinata di sole, quando, dandomi un po’ di cipria, mi accorsi delle macchie sugli zigomi, delle rughe sulla fronte, intorno agli occhi e alle labbra. Vedevo la pelle del collo cascare, il doppio mento più accennato del solito. Era sempre stato tutto lì, ma io non me n’ero mai resa conto prima; i peli del mento induriti, le sopracciglia nere a tratti bianche; un improvviso dolore alle anche – ecco perché la ginecologa insisteva tanto sulla vitamina D dopo la menopausa –, l’incurvatura della colonna vertebrale, i piedi più piccoli, le orecchie giganti, le mani assottigliate in una impugnatura più debole e quasi tremante; la pelle, come una carta velina macchiata, dalla mappatura evidente: nervi, vene, articolazioni rachitiche.

Lo osservai di sottecchi, quel mio corpo ancora vestito: perché, ora, d’un tratto, ci riuscivo? Ma la risposta, in cuor mio, la conoscevo già: volevo farlo per Dana, affidarle quella diversità che a lei sembrava non far paura; i miei anni, la mia mollezza, la mia maturità.

Le sue dita cominciarono a sganciare l’impedimento che separava il mio corpo dal suo. Mi lasciavo toccare, o almeno ci provavo, mentre sentivo le spalle nude chiudersi in avanti, a protezione. Dana, allargando le mie braccia, mi sfilava il reggiseno, ammirando quel mio petto da me tanto detestato.

Ora toccava a lei: la vedevo sollevare il tubino nero, sfilarsi con furia l’intimo. Osservavo una Dana diversa, una ragazzina diventata donna, ondeggiare sulle mie ginocchia scricchiolanti. Linee curve, movimenti sontuosi, ampi e profondi, sulle mie gambe, sulla mia pancia, sul mio petto. Che stranezza quel calore di donna addosso. Sentivo la pelle bruciare, mentre provavo a toccarmi un po’ anche io, forse stranita o eccitata. Mi chiedevo se quell’eccitazione si sarebbe rivelata, prima o poi, anche nel mio sesso asciutto. 

Accadeva raramente che la mia mano varcasse la soglia e si inoltrasse oltre il basso ventre. Non avevo un conto preciso, ma erano forse quindici anni che non facevo l’amore. Tutto era cominciato con il divorzio, il lavoro, il bambino che stavo crescendo da sola. Quante volte avrei voluto scappare, lasciarlo a quel padre troppo occupato, assicurandomi l’etichetta di madre snaturata. Ma non lo feci mai, né compresi se per senso del dovere o per mancato coraggio. “Si vive tranquillamente senza sesso”, mi ero ripetuta, accorgendomi solo adesso di quanto contatto umano avessi perso. 

Riconoscevo sul muro le nostre ombre: corpi disinibiti muoversi a movimenti regolari. Distinguevo il disegno dei baci, li sentivo sul collo, sul petto. Ansimavo, potevo urlare, potevo esagerare finalmente, mentre quel corpo, disegnato dalla luce filtrata dalle persiane, sembrava prendere vita, ruotarmi attorno, posarsi su di me; muoversi vorticosamente, premendo sul mio sesso con concitati movimenti. Anche a settant’anni si poteva godere ed era così bello. Sentivo i piedi accaldarsi, i muscoli distendersi, la testa, nel buio della stanza, finalmente alleggerirsi. 

Più la guardavo, più pensavo a quanto la genetica giocasse bene le sue carte: Dana aveva lo stesso colore di occhi – un grigio a tratti azzurro –, gli stessi lineamenti delicati, lo stesso naso lungo e sottile della mia amica, sua madre. Pensai a quanto fossero tanto simili, figlia e madre, ma anche diverse. Mi ritornavano alla mente certe immagini sfocate: Dana adolescente, un vassoio con delle tazze da tè, Nicoletta seduta sulla poltrona del salotto. Più ci pensavo e più la voglia di amare Dana accresceva: stavo scopando con quella che un tempo era la figlia adolescente della mia migliore amica. Ora, volevo solo che venisse, che urlasse di piacere; che sua madre sentisse quelle urla che mai lei era stata in grado di emanare. Troppo bigotta, troppo frigida.

Mentre Dana apriva senza vergogna le sue gambe, priva di sensi di colpa, sentii di ritornare trentenne anch’io. “Dov’è finita l’insicurezza di poco fa?”, pensai. 

Dana pendeva dalle mie labbra e io, in fondo, lo sapevo da sempre. Me ne accorsi ai suoi diciotto anni: vedevo come mi guardava, con i suoi occhi grandi e le ciglia lunghe e scure; gli stessi di oggi. Sì, conducevo io il gioco e non potevo più vergognarmi. Era lei, la figlia di Nichi. La bambina che avevo visto nascere, crescere e sposarsi. 

Cominciavo a bagnarmi e a rinvigorirmi. 

Forse, pensai mentre vedevo Dana arrendersi completamente, c’è più consapevolezza nel fare l’amore da vecchi.

Carmen Chirico