storiviste

E il verbo è rimasto verbo e abita in mezzo a noi – La zattera di Kiefer

Martino mi aspetta al primo piano. 

Mi dà le spalle: sta guardando una tela appesa al muro. Lo raggiungo e mi metto accanto a lui. Mi fa un cenno di saluto e restiamo in silenzio.

– Si chiama Il grande carico – bisbiglia poco dopo. – È di Anselm Kiefer. È un dono della Fondazione della Cassa di Risparmio di Pistoia e Pescia. 

Prende due sedie da un tavolo vicino e mi invita a sedere di fronte al dipinto.

– Vieni, mettiamoci qua.

Non distinguo uno sfondo preciso in quest’opera, ma solo un’informe materia simile a rame e piombo con, al centro, una struttura su cui, in maniera disordinata, sono impilati due serie di libri. 

– Usiamo chiamarla La zattera di Kiefer – mi dice ancora in un bisbiglio – ma rappresenta una nave che trae in salvo un grande carico per l’umanità.

Dell’acqua del mare o di tratti di cielo, nemmeno l’ombra, ma i libri sì, riesco a vederli, a percepirne il peso. Davanti a quell’immagine così potente ed evocativa mi viene spontaneo domandare: 

– Esistono altri modi, che non siano scrittura, per poter narrare qualcosa?

– Ma sì, certo, infiniti. Tutto ha qualcosa da raccontare. Per me viene prima di tutto l’oralità. Mi piacciono da matti i racconti a tavola, magari proprio intorno a quello che c’è in tavola. Certi ingredienti, certe ricette, certi vini, certi distillati, ma soprattutto certi commensali: hanno tante di quelle storie da raccontare per cui non basterebbe una biblioteca.

Sorride e torna a fissare la tela.

Comincio a guardarmi intorno. Sento le voci nel cortile, i tintinnii delle tazzine di caffè che provengono dal bar al piano terra. Frugo nella borsa e tiro fuori, non volendo, un depliant trovato sui divanetti rossi a forma di lettere che compongono le parole San Giorgio nell’atrio al piano di sotto. Non è quello che cercavo. Ah sì, eccolo il registratore. Faccio rumore. Mi scuso. Martino mi fissa per un momento poi ritorna su Kiefer. Non capisco se il suo sguardo sia stato un rimprovero, un’attesa o una commiserazione nei miei confronti. Sì, deve aver capito che sono un po’ a disagio perché ora mi dà una pacca sulla spalla e mi dice: 

– Quando vuoi cominciamo, prenditi pure tutto il tempo.

Sospiro e torno a vagare con gli occhi: intorno a me, scaffali di libri. È normale: siamo in una biblioteca dopotutto. Sì, mi ripeto, sono alla biblioteca San Giorgio di Pistoia per intervistare Martino, il direttore del Festival L’anno che verrà – I libri che leggeremo. Eppure ho la sensazione di stare in un luogo di culto. Che poi, non vedo molta differenza tra una chiesa o una sinagoga o, ancora per par condicio, una moschea e una biblioteca. In uno c’è il silenzio e la parola di Dio e nell’altro c’è il silenzio e la parola degli uomini. E non mi dilungo sul fatto che l’uomo è stato generato a immagine e somiglianza di Dio e che forse, quindi, non ci sarebbe differenza alcuna. La cosa sicuramente fondamentale è che, in entrambe, l’oralità, di cui parlava poco fa Martino, è stata tramandata su carta ed è diventata memoria. Passato e presente convivendo lo stesso spazio, ne dilatano il tempo. Se non è divino questo. E sottovoce recito: e il verbo è rimasto verbo e abita in mezzo a noi, nei secoli dei secoli.

Martino si volta e tossisce. Se continuo così, penserà che sia pazza – che potrebbe essere vero ma, sempre meglio non dare adito a dubbi – così, accendo l’apparecchio e finalmente chiedo:

– Qual è il tuo rapporto con il mondo dei libri? 

– È una storia un po’ lunga – mi dice avvicinandosi al registratore. – Diciamo che comincia quando già in terza elementare uscivo di casa da solo e attraversavo il centro di Pistoia per andare a quella che allora si chiamava la Biblioteca dei Ragazzi. Non è stato un rapporto d’amore infinito e continuo ma fatto di alti e bassi. Coi libri ho fatto un po’ di tutto: dalla lettura per piacere allo studio, dalla correzione di bozze alla scrittura, dall’editing all’organizzazione di eventi. È diventato un lavoro nel 2008, quando ho vinto il concorso per entrare qui – e fa un grande gesto con la mano.  

Sono curiosa di conoscere la storia della Biblioteca San Giorgio, così glielo domando.

– È una delle nuove biblioteche nate sull’onda delle politiche culturali toscane dei primi anni Duemila. La nostra particolarità è che non è stato un semplice ampliamento o aggiornamento di quel che c’era già e non ha sostituito la vecchia biblioteca Forteguerriana ma l’ha affiancata, con un profilo tutto contemporaneo legato all’idea della biblioteca come fabbrica dei saperi sempre in attività e in espansione e come hub di comunità, in connessione con i cambiamenti. Siamo biblioteca, mediateca, artoteca, ludoteca, piazza, giardino, scuola, palestra, sala da concerti, cinema, luogo di studio, di lettura, di formazione, di svago, di informazione, di relazione, di aggiornamento, di approfondimento, di semplice incontro. Non finiamo mai di scoprire un volto nuovo, perché siamo pronti a incontrare chiunque e a cimentarci con qualunque sfida. 

– Sembra un bel modo per vivere la letteratura. Posso chiederti, a questo punto, cosa rappresenta per te la letteratura?

– Thomas Bernhard diceva, vado a mente, potrei leggermente sbagliare la citazione: il teatro è l’insieme di tutte le mancanze di via d’uscita. Penso che sia una definizione bellissima che si può adattare a tutte le arti, e anche di più, di tutto ciò che cerca di rappresentare la realtà, qualunque sia la materia o il linguaggio con cui lo si fa. Le mille e mille e mille soluzioni imperfette e tutte destinate al fallimento di cogliere e rappresentare il senso della realtà. Quella che non prova nemmeno a orientarsi nel labirinto e quella che ha l’illusione di aver trovato l’uscita, non è letteratura, al massimo è scrittura.

Devo ricordarmi di leggere qualcosa di Bernhard, mi dico, e poi domando ancora:

– Che contributo pensi possano dare le biblioteche alla letteratura?

– Le biblioteche, per la letteratura, come per tutte le altre discipline, sono una fonte disponibile di conoscenza libera e già questo penso che sia un bel ruolo, forse non tanto per la letteratura in sé, quanto per la crescita degli individui e della società. Noi, anche con L’anno che verrà – I libri che leggeremo, cerchiamo di portare nel mondo del libro, la nostra ottica inclusiva, chiarificatoria, di abbattere le barriere, creare luoghi di incontro e confronto. 

– Ho partecipato al Festival nell’edizione dell’ormai lontano 2019 – gli dico con un pizzico di nostalgia. – È stata una bella esperienza per me. Ho avuto modo di conoscere Luca Ricci, Fabio Genovesi e case editrici di cui non sapevo l’esistenza. Mi piacerebbe chiederti come e quando è nata l’idea de L’anno che verrà

– Nasce nel 2017 in occasione della nomina di Pistoia come Capitale Italiana della Cultura. Mancava un grande evento pubblico della nostra amministrazione legato al mondo dei libri e volevamo anche lanciare una sorta di testimone verso il futuro proprio nei mesi finali del nostro mandato. Così è nata l’idea di un festival che guardasse oltre il presente, come poi è stato con le idee centrali del festival: mettere il naso nel futuro, presentando in anteprima i cataloghi e alcuni titoli di alcuni dei più rilevanti editori italiani di narrativa. E ci abbiamo messo pure lo zampino, dando ad alcuni autori la possibilità di pubblicare con editori importanti, attraverso i nostri scouting.

– So che questa è stata un’edizione un po’ diversa dalle solite, come l’hai vissuta?

– Questa purtroppo è stata una edizione a metà, anzi anche meno, e sinceramente l’ho vissuta con un certo dolore perché stavamo davvero facendo un bel lavoro in continuità: per quest’anno abbiamo solo pensato a dare un segno di ripartenza, ma le condizioni non ci hanno permesso di fare molto di più. Basti pensare che fino a pochi giorni fa le biblioteche non potevano ancora ospitare eventi nei loro spazi e i posti di ingresso erano contingentati e vincolati alla prenotazione. Condizioni impossibili per un festival come quello de L’anno che verrà. Ne abbiamo però approfittato per prenderci un momento di riflessione con gli ospiti che abbiamo invitato. A loro abbiamo chiesto di condividere con noi le loro parole da salvare. È stato un momento di cui sentivamo il bisogno dopo il dramma che abbiamo attraversato.

– Quali sono stati i disagi che vi ha arrecato la pandemia? 

– Il problema principale delle biblioteche è che sono un mondo enorme, estesissimo per dimensioni di utenza, per varietà, per diffusione sul territorio nazionale, ma allo stesso tempo sono un mondo un po’ sconosciuto a chi non lo frequenta, e comunque nell’immaginario collettivo ancora oggi legato a molti stereotipi. Biblioteche come la San Giorgio, o come la Lazzerini di Prato, o Salaborsa di Bologna, per dirne due a noi vicine, con la loro offerta di servizi, relazioni, innovazione, eccetera e con tutta la loro complessità, non sono nemmeno immaginate dalla maggior parte di chi non le ha mai frequentate. La cosa più grave è che la specificità e complessità delle biblioteche sfuggono completamente al legislatore, che, per esempio, per tutta la pandemia le ha trattate come musei, secondo una dicitura che risale al Testo unico dei beni culturali – cita testualmente: musei e altri istituti culturali – normando così, in modo identico, due soggetti completamente e radicalmente diversi, sia in quello che offrono, sia nel modo in cui lo fanno. 

– Hai provato a reclamare? – intervengo senza nemmeno che finisca la frase.

– Le biblioteche ovviamente si sono fatte sentire, ma diciamo che probabilmente erano l’ultimo problema della lista. Anzi, forse nella lista non c’eravamo neppure. Qualche risultato lo abbiamo anche raccolto, ma troppo pochi. Basti pensare che a tuttora, mentre facciamo quest’intervista, i libri che rientrano dal prestito devono ancora scontare una quarantena di sette giorni. Il mondo sta ripartendo velocemente, o almeno ci prova, ma sembra che, far ripartire al meglio anche le biblioteche, non sia il primo ordine del giorno. Anche per chi, lo ribadisco, non le conosce. Un po’ per colpa sua, un po’ per colpa delle biblioteche stesse che non sempre hanno saputo far emergere la loro identità nel dibattito pubblico.

– Allontaniamoci per un momento dal mondo delle biblioteche, conosci quello delle riviste online?  

– Ma sì, certo, lo conosco benissimo anche se oggi sono un po’ meno aggiornato perché si modifica molto velocemente. Ma sono stato diciamo protagonista – e con l’indice e il medio di entrambe le mani, virgoletta questa parola – di alcuni dei primi episodi sia di blogging letterario, agli albori proprio con Marziller che era la mia pagina sulla Excite, una delle prime piattaforme italiane di blogging, sia di riviste letterarie che mi vedevano redattore in alcune delle prime esperienze come Nabanassar o Absolute Poetry.

– Cosa ne pensi dei racconti pubblicati da questo vasto mondo parallelo dell’editoria, rappresentato dalle riviste online? 

– Mi capita di leggere racconti, anche perché sono sempre con un occhio mirato sugli autori esordienti e sommersi, sia per le esigenze della rivista che dirigo con Alessandro Raveggi, si chiamava The Florentine Literary Review e che sta per rinascere con un altro nome, sia per una piccola collana di narrativa short a cui sto pensando con un piccolo editore e che potrebbe partire in primavera. Io credo che le riviste siano la palestra, il bosco, il giardino botanico, il ring della letteratura: sono imprescindibili. E, devo dirlo, la vostra è molto bella.

Ringrazio e sorrido soddisfatta. Prometto che riferirò all’intera redazione. Poi continuo con le domande:

– Da lettore, quale consiglio ti sentiresti di dare ai tanti, forse troppi, autori e autrici che si cimentano nel mondo della scrittura?

– C’è una cosa che mi disturba più di tutto nella grande quantità di scrittura che si produce: che molta di questa non fa altro che fare eco, si accorda a qualcos’altro, destinandosi così all’indistinguibilità. A volte se allontani lo sguardo dall’insieme, tutto, con poche eccezioni, sembra una notte in cui tutte le vacche sono grigie, quando non addirittura la melma in cui tutti i maiali sono marroni. Il mio consiglio è: non cercare di assomigliare, non cercare di distinguersi. Cercare la propria voce, la propria strada. O anche al plurale: le proprie voci, le proprie strade, perché no. 

– Hai mai pensato di scrivere un romanzo, un saggio o un racconto?

– Ho scritto, ho scritto. Non molto, ma abbastanza. Mai un romanzo perché non ci sono mai riuscito anche se ne ho cominciati a decine. Diversi racconti e alcuni saggi e saggetti, pubblicati e non, ma magari in tempi in cui non c’era Google e quindi sono persi nello spazio come lacrime nella pioggia. Anche se nel mio passato c’è soprattutto una riconoscibilità come poeta, nel senso che ho avuto qualche quarto d’ora buono da poeta e l’ho messo a frutto, rivestendo, credo, almeno un ruolo con un minimo di senso all’interno della mia generazione, quella degli anni Settanta, nel periodo in cui si è presentata al mondo. Poi l’ispirazione se n’è andata, e soprattutto la necessità, che ti spinge a cercare di scavarti un posto in un mondo tanto affollato di voci. La pessima qualità e la grande qualità, quando mi incontrano, per adesso, continuano a intimorirmi e a consigliarmi il silenzio. 

– Esiste un romanzo o un autore che preferisci? 

– Il mio romanzo preferito non esiste. Ti dico il primo grande romanzo che mi viene in mente. Vita e destino di Vasilij Grossman. Un romanzo dove c’è tutto: l’epica, la lirica, la storia, il romanzesco, lo stile, gli strumenti per comprendere l’eterno umano, il pensiero, la pietà, la lucidità, l’immaginazione, il sentimento. Cosa volere di più da un romanzo? Il primo autore che mi viene in mente a dire il vero sarebbe Roberto Bolaño ma, con il fatto che sarei indeciso se nominare 2066 o I detectivi selvaggi, resto fregato! Tra gli italiani provo trasporto, tenerezza e infinito amore per Il ragazzo morto e le comete di Goffredo Parise.

Credo di aver esaurito tutte le mie curiosità. Non è vero: vorrei che mi raccontasse la sua vita da poeta, del racconto più strambo che ha scritto e di quello che ha letto. Di come funziona il lavoro di catalogazione in una biblioteca, di quanti esemplari dispongono e ancora ottantamila altre domande. Ma passo, per stavolta.

– Ho un’ultima cosa da chiederti – e spengo il registratore.

– Prima di andare via vorrei prendere in prestito un libro. Ma vorrei restare qui davanti a La zattera di Kiefer ancora un paio di minuti.

– Ma certo – mi sorride e mette a posto la sedia – prenditi tutto il tempo di cui hai bisogno. Ti aspetto giù.

E resto in silenzio. Guardo ancora quei libri, quell’arca di Noè e resto in silenzio. Non posso fare diversamente: è una regola, è sacro qui dentro. Forse la più bella forma di rispetto verso una grande e potente arma, l’unica che deve essere sempre salvata e l’unica che può concedere salvezza all’umanità. La parola.

Francesca Gentile