racconti

Casa mia

Sì, sono sicura. Voglio entrare da sola. 

Non preoccuparti mamma, ce la faccio. Sono stanca, fammi entrare dai, così mi metto a letto, ancora non riesco a camminare bene. 

Va bene, dice mia madre, per niente convinta. Sa bene che ho la testa più dura del marmo e che difficilmente mi smuovo dalle mie posizioni.

Non è che volessi entrare da sola. Ma dovevo. 

Dovevo perché quella era casa nostra e adesso è casa mia. Perché io dovevo sentire il silenzio e abituarmi. Abituarmi al fatto che non ci saranno più due risate a rimbombare fra i muri di carton gesso, non ci sarà più il posto destro del divano occupato il sabato sera quando guarderò uno stupido film che non avrà scelto lui. Dovrò abituarmi all’inutilità dei set di bicchieri per due, quelli con decorazioni stravaganti che abbiamo comprato insieme. Dovrò buttare ogni fazzoletto lasciato in giro l’ultima sera, prima di uscire, perché lui aveva il raffreddore e non ha mai avuto l’accortezza di gettare i fazzoletti usati. Lasci germi ovunque, gli ripetevo sempre. E lui diceva: sì, sì, li butto, davvero, ma poi non li buttava mai. 

L’hanno vestito le sorelle. Io ero in coma. Nessuno pensava mi potessi risvegliare, io, invece, pensavo di essere già sveglia. Vedevo lui continuamente. Vedevo lui che mi dava dei baci lenti sul collo e mi accarezzava i capelli. Pensavo di essere in vita. Invece ero con lui nella morte. E quando mi sono svegliata, lui non c’era. 

Sapevo che la prassi per i pazienti molto gravi e instabili psicologicamente è quella di indorare la pillola e affrontare il tutto tranquillamente, ma per dirmi che lui non c’era più ce ne hanno messi sette di giorni. Sette giorni in cui io non avrei voluto mangiare, bere, e neanche respirare se avessi potuto, finché non avrebbero avuto il coraggio e la buona coscienza di dirmi qualcosa. Poi mi hanno detto: ci dispiace Giordana, Niccolò è morto

Già. Me l’ha insegnato mio fratello: i dottori devono dire è morto. Non possono usare sinonimi o sostituti di quella maledetta parola per darti la notizia, devono essere chiari, non lasciare niente in sospeso. Non c’è incertezza. È morto. È una delle cose che gli hanno detto il suo primo giorno di tirocinio in ospedale. 

E così dopo essere tornata in vita ho capito che in realtà ero tornata nella morte. Lui non c’era più e io anche. 

A stento ricordavo cosa fosse successo. Il giorno del mio risveglio hanno dovuto tenermi in tre perché non mi staccassi ogni tubo di dosso. Mi dissero: complimenti, ti sei svegliata in forze. Ma chi lo sa di quali forze parlavano, io volevo solo alzarmi e dare un bacio a Nik, come tutte le mattine. Mi sembrava una domenica mattina in cui avevo dormito un po’ più del solito e lui era già in cucina a preparare il caffè, e così volevo alzarmi. Invece era un mese che dormivo e lui ventinove giorni che non c’era più. Che era morto. Perché si dice morto e mi hanno detto che devo dirmelo anche io perché sennò non ci credo. E mi sa che hanno ragione: appena ho messo piede in questa casa, ho visto lui in ogni angolo. Lui che prende i sottobicchieri per non lasciare il segno delle tazze sul tavolino nuovo. Lui che si allaccia sempre le scarpe sul tappeto e io che lo ammonisco perché le scarpe sono sporche e non si poggiano sui tappeti. Lui che lava i denti passeggiando per il corridoio e mi parla di mille cose con la bocca piena di dentifricio. Lui e i suoi fazzoletti in giro. 

Le guance mi si rigano di lacrime, ma non mi si muove un singolo muscolo. Mi chiudo la porta alle spalle, raccolgo i fazzoletti e me li avvicino al naso. È passato un mese e sento ancora il suo odore.

Nessuno in un mese ha messo piede in casa nostra. Nonostante mia madre avesse una copia delle chiavi, non se l’è sentita di portarmi via l’ultimo pezzo di Nik entrando in casa per cancellare ogni sua singola traccia d’esistenza, e per questo la odio, ma la ringrazio anche. Forse sarà patetico ma non voglio buttare i fazzoletti, li metto sul suo comodino, anche se sento la sua voce rimproverarmi: dici sempre a me di buttarli e ora tu li lasci lì, mi direbbe se potesse. Scusami amore, avessi saputo non te ne avrei fatto buttare neanche uno, dico, con la voce rotta, come se potesse sentirmi. 

Il giorno dopo il mio risveglio mi hanno raccontato che la macchina era distrutta ma di non preoccuparmi: la colpa è stata al cento per cento del signore al volante dell’altra vettura, non devi pagare nulla. Non so se pensavano potesse fregarmene qualcosa, ma forse era un modo per cominciare a mettermi di nuovo in contatto con la realtà che mi circondava, o semplicemente per farmi affiorare qualche ricordo su quello che era successo. Del resto cosa potevo dire? Certo, volevo capire, sapere, mi agitavo ma non avevo la forza di articolare pensieri, così ascoltavo. Ogni cosa al momento giusto, mi dissero. Non mi rimaneva che aspettare. 

Mi sdraio sul suo lato del letto per la prima volta in nove anni: tutte le volte che mi stendevo dalla mia parte, lui mi tendeva la mano o si allungava per abbracciarmi. E invece si arrabbiava a morte se gli occupavo la sua parte di letto: non so perché, ci teneva tanto a queste piccolezze, a queste cose che, prima che se ne andasse, sì, giusto, che morisse, io chiamavo scemenze. Ma cosa ti importa se mi sdraio da quel lato finché non torni dal lavoro la sera tardi, gli chiedevo. Mi importa perché poi devo svegliarti e metterti al tuo posto e ti si spezza il sonno, diceva. Ricordo che cominciai a pensare che forse tutta la questione avesse a che fare con la comodità del materasso. Lo stuzzicai e finimmo per litigare. Ora questo letto mi sembra così gigante e io mi sento così ladra, sdraiata qui al suo posto.

Il terzo giorno mi hanno dato uno specchio per guardarmi, sempre per quel discorso che ogni cosa va fatta a suo tempo, e il tempo per ogni cosa lo decidevano loro. Non mi riconoscevo più. Avevo tre punti al sopracciglio destro e l’occhio nero, lividi un po’ sparsi ovunque. Eppure la quantità di pelle tumefatta e graffiata sul mio viso non c’entrava nulla. Mi guardavo e mi chiedevo cosa fosse rimasto di me, se qualcosa era rimasto, cosa mi aspettava una volta fuori da quella stanza d’ospedale, come sarebbe stato sentire di nuovo la terra sotto i miei piedi. Ancora non sapevo che non l’avrei più sentita la terra sotto i piedi.

Cammino per tutta casa: sono un corpo che si può vedere ma non toccare. Io non mi sento più. C’è una maglia accartocciata sul pouf nella cabina armadio, dicevo sempre a Nik di rimettere a posto ciò che provava ma non indossava prima di uscire, e lui mi rispondeva che tanto non faceva differenza prima o dopo, ma il dopo aveva il vantaggio di avere più tempo per tutto. Per gli amici, per la serata, le chiacchiere. Guardavo quella maglia e mi chiedevo: ma se lui avesse perso quel minuto a piegarla e posarla, qualcosa ora sarebbe diverso? Perché quella macchina invece di travolgere la nostra, non si è accartocciata su di un’altra? Me lo chiedevo, lo desideravo e poi mi sentivo un essere spregevole per averlo solo pensato. Ma cosa potevo farci se volevo che al cimitero ci fosse un altro al posto di Nik? Magari il fidanzato di qualcun’altra. E invece no, c’era il mio di fidanzato, vestito con lo smoking comprato due mesi prima per il matrimonio del cugino. C’era Nik al cimitero, chiuso in una scatola di legno chiaro sigillata, freddo e senza vita.

Il quarto e il quinto giorno sono stati occupati da un ematoma cerebrale che sembrava non stesse facendo il suo corso, cioè riassorbirsi da solo come avevano previsto i medici. Erano tutti intenti a somministrarmi qualcosa per accelerare questo meccanismo: una scusa in più per ritardare l’inevitabile notizia che ancora non volevano annunciarmi. Stavano prendendo tempo per dirmi che il mio fidanzato era morto

Il sesto giorno mi era stato consigliato, meglio, ordinato, riposo assoluto visto che tutto alla fine stava andando come previsto e che a giorni mi avrebbero potuta dimettere. 

Così il settimo, hanno dovuto dirmi la verità. La cosa, l’unica cosa, che da sette interminabili giorni mi ronzava in testa. Dov’era Nik? 

Quel giorno ho capito il motivo del loro silenzio, del loro aggirare e arginare il discorso su cose mediche di cui tanto tu non puoi capire niente o su cose che ti interessano il giusto. Cose come: com’era il budino domenica? E tu neanche lo hai mai toccato il budino, a stento ti ricordi se in stanza entrasse un filo di luce dalle finestre. Ma in fondo poi lo capisci. È non dicendotelo che te lo dicono. Se lui ci fosse stato mi avrebbero detto qualcosa come: il suo fidanzato è stabile e si rimetterà presto, o: il suo fidanzato ha riportato lesioni o fratture a questo o a quell’altro braccio. Invece niente. E in effetti quando non dicono niente è perché non c’è niente da dire. Lui non c’è. Quando me l’hanno detto non mi è scesa neanche una lacrima. Lo sapevo, è ciò che sono riuscita a dire. 

È lo shock, è normale, sentivo bisbigliare quando sono usciti dalla stanza. Ma io non ero sotto shock, non ero mai stata così lucida. Nik è stato con me nei ventinove giorni del mio coma e quando ho aperto gli occhi non c’era più. Lo sapevo, anche se non me l’avevano detto. Anche se facevo fatica io stessa ad ammetterlo, lo sapevo già. 

È da quarantacinque minuti almeno che piango sdraiata al centro del corridoio, dove Nik si fermava facendo cadere tutto il dentifricio dalla bocca quando gironzolava per dire cose stupide mentre si lavava i denti. 

Lui è così qui, è così ovunque, eppure non c’è. 

Guardo la copia delle chiavi della macchina nella vetrina al lato del muro del corridoio, faccio un respiro profondo. 

Mi alzo, entro nella cabina armadio, guardo la maglietta accartocciata. Fanculo, urlo. 

Apro la finestra, guardo giù, da una parte e dall’altra, mi assicuro che nessuno stia passando lì sotto. Mi alzo sulle punte dei piedi, metto le mani sul davanzale e mi sporgo un po’ in avanti. Faccio un altro respiro profondo.

Un tonfo. Poi non sento più nulla. 

Finalmente. Quel maledetto pouf con quella maledetta maglietta sopra. Ora sono spiaccicati sull’asfalto sotto casa nostra. 

Mia, casa mia.

Giulia Talarico