
Ombre d’estate
Si fatica a camminare sulla terra molle del campo arato, meglio che mi sieda ad aspettare un po’ qui all’ombra. I due grandi alberi di fico si intrecciano nel cielo azzurro proiettando un grande ombrello nero nel bel mezzo di questa striscia d’argilla, che pare una crosta rappresa in mezzo ai campi di girasoli sfioriti. La scala è ancora appoggiata al ramo, la cesta piena di frutti è qui accanto a me. Non capisco questa tua fissazione di voler cogliere i fichi a mezzogiorno, quando il sole è tanto bollente: dici che sono più dolci, che, gonfi di zucchero, per il caldo si spaccano, ma io non ci credo. Quando li raccolgo da sola sono buoni lo stesso, che sia mattina oppure il tramonto.
Ti piace lasciar intendere a tutti che niente ti spaventa, che non saranno trentaquattro gradi all’ombra a farti desistere, che pure il vento in inverno non ti impedisce di star fuori a prendere le folate più forti. Che poi qui non ti vede nessuno, ci siamo solo io e te, eppure si vede come gongoli a immaginarti invincibile. Con quale soddisfazione fischiettavi poco fa mentre ti arrancavo dietro su questo terreno che pare galleggiare, una sabbia mobile secca che mi fa affondare i piedi e me li punge. Alla mamma hai detto che saremmo tornati per l’una. Hai fatto ciao con la mano, come se non fosse successo nulla, prima. Io però ho sentito e ho visto. È impossibile non sentire le tue urla rauche che arrivano fino all’imbocco della strada di casa. A volte quando torno da scuola mi basta svoltare nel vialetto per capire che è meglio aspettare che passi la buriana e così me ne sto sul muretto anche se piove e mi si infradicia lo zaino con i libri. Una volta mi sono infilata nella conigliera e mi sono addormentata nella paglia puzzolente: sembrava che avessi nei polmoni tutto il maestrale che stava spazzando le campagne e che tu fossi uno di quei disegni che stanno accanto alla rosa dei venti, volti di angeli rugosi dalle guance gonfie che soffiano via grandi nuvole.
Ho visto tante volte le spinte e le sberle e i capelli tirati e i pugni. Tante volte ho visto la mamma restare nel letto pesta e sentirti dire che dovevo lasciarla stare, che si stava solo riposando. Soprattutto ho visto come mi ha guardata poco fa, prima di uscire. I suoi occhi increspati mi hanno detto stai attenta, stai zitta, di’ sempre: hai ragione. Io dopo che l’hai menata lo faccio sempre, ormai so come vanno queste cose. È come se ci fosse un incantesimo malvagio che ti trasforma in una specie di bestia, una cosa che arriva dritta da sotto terra e che ti entra dentro facendoti perdere il controllo. Allora lì non capisci più niente e colpisci, picchi, urli con una voce che davvero non sembra poter uscire dalla gola di un essere umano. Non si sa quando arriva questa ombra nera, a volte basta che la pasta sia scotta o che il bordo del lenzuolo cada un po’ sbilenco sul letto; oppure che quel tale che aveva fatto una certa promessa non si presenti all’appuntamento e allora, inevitabilmente, la colpa è della mamma. Ecco un altro malocchio della nostra famiglia disgraziata: la mamma riesce a creare disastri senza muovere un dito, anche se si trova in paese a fare la spesa, addirittura anche se in quel momento sta dormendo. Azione e reazione: c’è correlazione tra le due cose, e pare che sia lei a evocare quel mare di rabbia che erutta enorme, senza che se ne accorga.
Secondo la mamma io ho un potere magico, me l’ha spiegato una volta quando ero più piccola: nell’ira più furiosa, ricordi di essere una persona che appartiene a questo mondo solo quando ti chiedo qualcosa. Una cosa qualunque che ti riporti quaggiù, nella realtà. Io ho il potere di farti quella domanda al momento giusto, quando tra le tue grida c’è una sorta di pausa da quattro quarti, la cui cadenza si ripete sempre con lo stesso schema: urla, due battute, pausa. Urla, una battuta. Pausa lunga. Hai visto che stasera c’è un bel film in tv? Mi aiuti con i compiti di matematica? Lo sai che la professoressa di italiano ha letto il mio tema in classe?
Io mi sforzo di svolgere bene questo compito, dipende anche da me quando la mamma smetterà di prenderle. E poi mi sforzo di essere la più brava di tutti, quella che va meglio a scuola e adesso che inizierò il liceo ho paura di non essere all’altezza di tutte le aspettative che hai. Magari picchierai anche me, oppure ancora la mamma, perché alla fine sarebbe colpa sua, come sempre, se qualcosa andasse storto.
A te piace che io sia sempre educata, che ti faccia fare bella figura recitando poesie, augurando a destra e a manca buongiorno e buonasera, però non sopporti che faccia troppo la brava bambina, che sia una bambola. Questa cosa non la capisco, temo che il malocchio di mamma toccherà presto anche me. Vuoi che io sia una donnina di casa, che non faccia il maschiaccio, che sia carina e accomodante con tutti, ma non vuoi che diventi una zoccola come tutte le altre, anche se non so bene cosa significhi. Vuoi che ti aiuti ad aggiustare la rete del pollaio, a raccogliere la verdura nei campi, ma poi mi spingi via dicendo che ho le mani di burro e che sarebbe stato meglio avere un figlio maschio, mica una femmina buona a nulla. Insisti perché io dispensi larghi sorrisi al figlio del direttore della banca, che è pure più grande di me e non mi piace per niente. Quando invece chiacchiero con Pietro mi strattoni via e mi rimproveri accusandomi di essere una gallina. Faccio fatica a capire che figlia vuoi, che donna vuoi che io diventi. Certamente non come la mamma, anche se poi davanti agli altri ti vanti di aver sposato la più bella di tutte, quella che cucina meglio e che sa stare al suo posto. A casa invece le dici sempre che non sa fare niente, che è scema come sua madre e tutta la sua famiglia. Questa cosa mi fa montare una rabbia che non riesco a spiegare nemmeno a me stessa: voglio bene alla mamma, secondo me è migliore di te che fai il gradasso con tutti, che ti metti in mostra cantando durante la fiera del patrono e fai il cascamorto con la panettiera. Anzi, sai che ti dico? Se non ci fosse stata lei, tu saresti ridotto a chiedere l’elemosina o abbandonato in qualche bar sempre sbronzo. Quando mi dici che sono una cretina come la mamma, dopo che l’hai picchiata, umiliata, lasciata nel letto un giorno intero con le ossa che sembrano sbriciolarsi a ogni movimento, non mi sento ribollire perché offendi me, ma perché te la prendi ancora con lei e io mi sento troppo debole per difenderla, molle, quasi come questa terra d’argilla su cui sto seduta adesso accanto a te, ad aspettare.
Sai perché mi sono arrabbiata poco fa? Perché urlavi dalla cima dell’albero di reggerti la scala per bene, che non volevi certo cadere per colpa di un’oca cretina, scema come la mamma.
Forse il mio potere magico non c’è più. Qualcos’altro ha preso il suo posto, qualcosa che ho sentito salirmi allo stomaco, qualcosa di acido che mi ha fatto vedere solo una grande ombra nera. Non ho più visto il mare azzurro oltre la collina gialla e marrone, la nostra brutta villetta di cemento, che ti piace tanto perché è senza fronzoli, proprio come te. Davanti ai miei occhi solo la notte nera.
Poi, uno strattone alla scala. Credo sia stata la sorpresa a farti cadere, non la mancanza di un appiglio. Forse sei stato anche orgoglioso di me per un lampo: hai per caso riconosciuto che non sono una pasta frolla come la mamma? Sì, sono proprio come te, papà. E ora farò come mi hai mostrato tante volte, quando lei non riusciva a muoversi per le troppe botte: resto qui accanto a te e aspetto che ti passi, anche se lo so che dovrei sbracciarmi, andare a chiedere aiuto.
Voglio essere coraggiosa oggi e correre questo rischio: se vivi, mi ammazzerai di botte, se muori, credo che inizieremo a vivere davvero. Magari piangeremo un po’, stai tranquillo, metteremo i manifesti con scritto padre adorato e marito fedele, così tutti potranno continuare a fingere di non aver sentito o di non aver visto.
Chiudi gli occhi, papà, aspettiamo che passi.
Maria Teresa Boghetich

