editoriale

Editoriale novembre

La sindrome di Parigi ha una sintomatologia molto simile [stupori e svenimenti] alla sindrome di Stendhal, ma ha cause completamente opposte. È una sorta di delusione che colpisce i turisti, per lo più giapponesi, nel vedere la capitale francese. Pare che possa portare a una sorta di stato depressivo. 

La signora settantenne seduta accanto a me sull’aereo non smette di sciorinare i suoi saperi. Non so se, questo suo blaterare, sia dovuto a una sua consuetudine o sia un modo per alleviare la paura di volare. Vorrei solo smettesse.

Non ne avevi mai sentito parlare?

No.

È la prima volta a Parigi?

No. 

I miei monosillabi non la intimidiscono. Lei persevera. Io, invece, vorrei stare per conto mio. Che ne so: leggere un libro, guardare dal finestrino le nuvole per rassicurarmi che non mi sfracellerò di sotto da un momento all’altro. Niente. Nessuna tregua.

Bienvenue à Paris, dice poi finalmente l’hostess.

Speriamo, penso. E un attimo dopo mi ritrovo nella splendida, immensa e incasinata Parigi. No, solo nell’incasinata metro di Parigi. Gente ovunque. Troppa. Sto raggiungendo il mio alloggio che per qualche giorno sarà in un bed and breakfast nel III arrondissement. 

È a pochi passi dal Bataclan, a venti minuti dalla Bastille e circa settecentocinquanta metri da Place de la République, mi dice il receptionist quando gli chiedo cosa c’è vicino.

In strada mi rendo conto che tutti quei posti che mi ha elencato sono luoghi di violenza e sofferenza e che ora sono diventate mete turistiche. Sì certo, hanno fatto la storia, ma che angoscia, che ansia! Ma anche: che cazzo! Sono a Parigi! Maledetta vecchia: non vorrei che i suoi discorsi mi  traviassero i pensieri.

Decido di affrettarmi, Emidio mi aspetta. È lui che mi ha invitata qui. 

C’è un vernissage di Automated Photography il 9 novembre. Dai vieni, mi ha detto. 

Ed eccomi qua al 17 rue de Commine, dieci giorni prima dell’inaugurazione della mostra. Davanti a me un edificio bianco con tre portoni blu e il mio amico che parla in francese con qualcuno, sicuramente il gestore della struttura. Dopo baci e abbracci, il tipo, che ora mi pare san Pietro [o san Paolo], tira fuori un mazzo tintinnante di chiavi che aprono uno spazio ampio, vuoto, insonorizzato, illuminato e completamente bianco. Pure il pavimento è bianco. Se il paradiso esiste, ha a che fare con questo posto. 

D’un tratto lo stato di agitazione provato poco prima mi abbandona e avverto una piacevole sensazione di calma. È strano, penso, sono in una metropoli caotica, che non conosco, che non mi capisce, che a tratti mi fa sentire inadeguata, piccola e insignificante e questo spazio, questo candore, mi fa sentire bene. Come fossi a casa.

Allora ti piace?, mi chiede Emidio. L’installazione prenderà tutto questo lato e gli schermi per il mio artwork praticamente saranno posizionati qui, dice e le sue braccia gesticolano in tutte le direzioni. 

Il suo lavoro si chiama All watched over by machine of loving grace v 1.1B ed è un omaggio all’omonimo documentario condotto da Alan Curtis per denunciare un’umanità colonizzata dai computer. 

Io, invece, sono partito da un po’ più lontano, continua a spiegare. 

La repubblica cinese ha un complesso e fitto sistema di tool tecnologici per la sorveglianza e il controllo coercitivo degli spazi urbani. Sappiamo ancora ben poco del funzionamento di queste black box [a Emidio piace inserire parole o intere frasi in inglese, dice che è abituato così. Crede faccia più effetto o che il significato sia più immediato. A me sembra solo molto buffo]. 

Quello che sicuramente sappiamo è che tutto questo controllo è finalizzato al guadagno dei crediti sociali. In poche parole: se tu cittadino cinese fai bene, guadagni crediti e puoi accedere a gran parte dei servizi offerti dallo stato, viceversa, se fai male ti è precluso praticamente tutto, anche un semplice, for us, biglietto del treno. La domanda che dovresti pormi, mi dice quasi a valutare la mia attenzione, è: come si fa a sapere se i cittadini cinesi si stanno comportando bene o male? 

Bè, presumo con questo costante monitoraggio della popolazione, azzardo timidamente.

Presumi bene. È una sorta di Big Brother alla George Orwell.

Diabolico, vorrei dire, ma lascio che Emidio continui il suo monologo.

Io ho voluto sfidare il sistema realizzando un video di quasi tre ore mediante l’utilizzo di un contro modello del sistema tecnologico cinese, e l’ho usato per filtrare una registrazione della parata per il settantesimo anniversario dalla nascita della repubblica cinese. In pratica in questo video, ci sono solo gli occhi della macchina che non guardano le persone [chi sono, cosa provano, cosa pensano, mi verrebbe da aggiungere], ma captano solo parametri fisici come la temperatura. In questo video viene mostrata l’assenza dell’uomo. Il mio lavoro è una critica alla de-umanizzazione delle persone nel macchinoso sistema sfruttato dalla Cina.

Che bello, dico e mi sento subito stupida per aver detto questa frase.

Emidio nemmeno mi ha sentita. Qualcuno l’ha raggiunto e ora stanno avendo una conversazione in tedesco. Mi sento ancora più stupida: questa volta perché parlo una sola lingua. 

Poi mi guardo di nuovo intorno e quel biancore mi restituisce la calma di prima. Mi allontano. Imbocco una scala che mi porta al piano superiore. Di colpo, mi è chiaro quello che voglio: rimanere qui per il resto dell’eternità. Anche se la mia eternità durerà soltanto una manciata di minuti, voglio stare qui e assaporare tutte queste sensazioni contrastanti che mi assalgono: gratitudine, paura, gioia, rabbia, tristezza, serenità, eccitazione, sgomento. Tutte sensazioni esperite dall’uomo. Da me. Anche contemporaneamente. Sospiro, ficco una mano in borsa e ci razzolo dentro fino a quando non trovo la mia penna nera e il mio fidato taccuino. Clac e annoto: Novembre: potenza e fragilità della condizione umana.

Ok, ora sono pronta per avventurarmi nella splendida, immensa e caotica Parigi.