
Ro’eh

Non ero morto, almeno così credevo.
Ero sdraiato – il mio corpo lo era – nella solitudine di quei giorni, fatta di medici, infermieri e pochi familiari. Una solitudine che poteva essere tale solo in quel luogo e in nessun altro.
Sentivo le parole provenire da lontano, come latrati di cani che si chiamano da un capo all’altro della città. I suoni arrivavano alle mie orecchie dopo aver attraversato più strati d’acqua: vivevo immerso in profondità marine; non ero in apnea però, riuscivo a respirare benissimo. I miei sensi continuavano a funzionare, ma non nel loro elemento naturale. Era, quello, uno stato privo di tempo, o meglio, senza presente. Durante il giorno – o la notte, non sapevo stabilirlo – una voce chiedeva:
– Apri gli occhi; chiudili. – Quando riuscivo a eseguire quei semplici ordini non vedevo il volto di chi parlava o la realtà che mi stava intorno, ma continuavo a vivere dentro i miei sogni. – Stringi il pugno, – o ancora, – prova ad alzare una gamba. – La voce, a volte, proveniva da troppo lontano e non riuscivo nemmeno a distinguere le parole.
Quando la distanza con l’esterno cresceva e la spinta verso il basso si faceva più forte, al termine di quella discesa raggiungevo luoghi inaspettati, sconosciuti, o che pensavo di non conoscere: forse li avevo visti in un film, o immaginati leggendo un libro, in ogni caso erano lì. Lì dentro. Luoghi che facevano a meno della materia, eppure reali, dai contorni tangibili, definiti in ogni particolare: se passavo una mano sul mio mento, potevo sentire la consistenza e la lunghezza della barba; un taglio provocava dolore, così come l’impegno che seguiva per curare la ferita. Forse un giorno la matematica, che spesso anticipa le evidenze della fisica, sarebbe riuscita a spiegare la natura di quei luoghi.
Giunto sul fondo, tutto mutava e così anch’io prendevo le sembianze di altri: le caratteristiche fisiche, i movimenti involontari del corpo, ma anche i difetti morali, i ricordi e quella che in maniera grossolana viene chiamata personalità. Queste circostanze non mi turbavano, non venivo colto dall’angoscia che assale un uomo sul punto di precipitare nell’ignoto, anzi sentivo quel passaggio come necessario, e non vi opponevo alcuna resistenza. Era l’unica strada per raggiungere una realtà diversa, allontanarmi da quella solitudine, alzarmi dal letto e sprofondare nella memoria altrui: vivere come se fossi un altro uomo, di una qualunque altra epoca, o di un tempo mai esistito.
*
Quando giunsi in una di quelle realtà sapevo quanto necessario: ero figlio di Zaccaria, un famoso calzolaio che, caduto in disgrazia, era scappato facendo perdere le proprie tracce alla famiglia e ai creditori; io non lo avevo mai conosciuto. Mia madre, vendendo i mobili di casa, aveva ripagato in parte i debiti e da allora vestiva di nero, come se fosse vedova. Tutti mi chiamavano Ro’eh, pecoraio, per il mestiere che avevo svolto fin da bambino, sebbene non avessi mai posseduto un gregge e, a dire il vero, neanche una pecora: ero un servo pastore.
Non ero vecchio, ma la giovinezza aveva abbandonato il mio volto ormai da tempo; non avevo mai trovato moglie e indossavo una tunica impregnata dell’odore degli animali, una decina di capi, che conducevo da Gerusalemme verso la campagna. Un bastone d’ulivo reggeva i miei passi e indicava il cammino alle pecore. Il sole era prossimo all’orizzonte, avrei dovuto affrettarmi, per impedire che l’oscurità scendesse su una giornata di lavoro iniziata prima dell’alba.
Mi ero lasciato alle spalle le ultime case del centro abitato, quando lo vidi: adagiato a un lato della strada, avvolto in abiti cenciosi, i capelli radi e arruffati si univano alla barba ormai del tutto bianca, se non fosse stata tanto lercia. Un mendicante, come tanti altri ne accoglieva il margine della città santa. Seppure quel viso scavato e bruciato dal sole mi parve familiare, riuscii a pensare soltanto: “meglio a lui, che a me”.
Quando anche l’ultima pecora lo aveva superato, dall’esile corpo uscì un filo di voce.
– Zaccaria.
Nessuno mi chiamava più in quel modo, anzi nessuno lo aveva mai fatto. Mi bloccai, e con me le dieci pecore, tornai indietro e mi avvicinai. Chi era quell’uomo e come faceva a sapere il mio vero nome?
– Ci conosciamo, vecchio?
Tossì, e parve che i suoi polmoni parlassero una lingua antica un tempo comune agli uomini di ogni luogo, ma ormai dimenticata.
– Sono Lazzaro, – disse.
– Lazzaro?
– Lazzaro di Betania, ricordi?
Quel vecchio mendicante voleva prendersi gioco di me, di Ro’eh, il pecoraio. Aveva pronunciato prima il nome di mio padre e dopo quell’altro: il nome di un uomo che tutti avevano cercato di dimenticare. Perché mai?
– Certo che mi ricordo di te, – dissi sorridendo, per stare al suo gioco.
Quando avevo meno di vent’anni mi ero trovato davanti al sepolcro, il quarto giorno dopo la sua morte. Stavo accanto a un albero di ulivo rinsecchito, che pareva un fossile coperto di polvere. Un corvo nero, lucido come se fosse unto d’olio, girava la testa a scatti; nessuno lo vide, tranne me.
Ricordavo bene sia la folla all’arrivo di Gesù – tutti sapevano che sarebbe venuto –, sia Maria che in lacrime si gettava ai suoi piedi. Il motivo principale della mia presenza lì era la profonda simpatia che nutrivo nei confronti della sorella minore, al tempo ancora nubile. Simpatia che la ragazza non ricambiò mai.
Quando Gesù ordinò di spostare la roccia che chiudeva l’ingresso della tomba, la mia visuale era coperta dalla gente accorsa. Vidi soltanto il suo braccio alzarsi, le dita della mano sottili e lunghe, diafane, diverse da tutte le altre: piccole, tozze e scure. Quell’uomo avrebbe potuto ammaliare le masse solo mostrando le sue bianchissime dita: se le avesse mosse velocemente in aria, come un musicista che suoni uno strumento invisibile, tutti avrebbero creduto in lui. In quel marasma, non riuscii neanche a sentire le parole che pronunciò, che però mi furono riferite più volte, sempre diverse.
Ricordavo anche ciò che avevo pensato quando, al tramonto, senza che nessun prodigio avesse avuto luogo, il sepolcro venne richiuso. Era quello che già così giovane mi dicevo a ogni funerale: “meglio a lui, che a me”.
– Non credi alle mie parole, come potresti? Nessuno lo ha mai fatto, – disse il mendicante.
Il sole toccava la linea che separa la terra dal cielo.
– Sono io, il miracolato.
– Io ero lì, non c’è stato nessun miracolo.
La sua tosse, vecchia come il mondo, fu la prima risposta.
– Venni fuori diversi anni dopo. Non fui accolto dallo stupore né dalle feste dei parenti e degli amici, nessuno mi aspettava ormai. Marta e Maria, le mie sorelle, si erano sposate, la vita doveva pur continuare, avevano venduto casa e terreno e seguito i rispettivi mariti. Non potei essere il segno della grandezza del Figlio di Dio. Il fallito miracolo, anzi, rischiò di mandare a monte quanto previsto dalle Scritture: la crocifissione di Gesù. Caifa e gli altri sacerdoti iniziarono a dubitare del reale pericolo che il Nazareno potesse rappresentare: ignoravano che mantenere intatto il corpo di un uomo per anni, dopo la sua morte, fosse in realtà un prodigio ben più arduo da compiere. Nemmeno Giovanni, nel suo vangelo, poté scrivere di quell’ultimo miracolo compiuto dal Maestro.
– Dai! – fece all’improvviso una voce che arrivava da molto lontano.
– Chi ascoltava la mia storia mi allontanava come un impostore, e quando anche io stesso iniziai a dubitare della verità, ero ormai un vagabondo che viveva di elemosina. Avevo vissuto per anni dall’altra parte, ma non portavo con me ricordi convincenti da raccontare, ero un uomo come i tanti che avevano avuto un’occasione e l’avevano sciupata.
Il sole era scomparso da tempo, il buio sceso su ogni cosa, sugli uomini e sugli animali.
– Tu non sei Lazzaro, vero?
Il vecchio tossì ancora.
– E tu non sei Ro’eh.
– Dai papà! – di nuovo quella voce, sempre più vicina.
*
Alcune volte il fruscio delle lenzuola dovuto ai lievi movimenti del mio corpo, il sibilo delle macchine, il ticchettio dell’orologio, tutto diventava un frastuono insopportabile, faceva vibrare i timpani, le altre membrane, le viscere. Percuoteva ogni cellula del mio corpo.
– Dai!
In quell’istante, fu come se fossi stato preso all’amo, una lenza a strattoni mi tirava con forza dalle profondità in cui mi trovavo, verso l’alto. Anche il liquido in cui ero immerso mi spingeva a galla.
– Dai! – la voce si faceva sempre più nitida.
Ora sì, mi mancava il respiro e sentivo il bisogno, l’urgenza, di raggiungere la superficie.
La voce mi stava accanto.
– Dai! Papà, stringimi la mano.
E la strinsi, almeno quella volta.
Gioacchino Lonobile


