
Sirene
Carissima Eleonora,
sono io, Flavia Ferrari. Ci siamo incontrate per la prima volta l’altra sera, ma è da anni che ti seguo sui social. Non credo di esagerare se dico che sono la tua fan numero uno. Faccio il tifo per te dai tempi dei primi tutorial su Youtube – mi faccio ancora lo chignon con la tecnica che spieghi in “Acconciature easy per tutte le occasioni” – e non mi sono persa nemmeno un passo del tuo percorso di vita come blogger e come influencer.
Non puoi immaginare quanto mi addolori il malinteso che ci è capitato.
Prima di darti la mia versione dei fatti, lascia però che cerchi di farti capire quanto importante sei stata e continui a essere per me.
Io sono nata e cresciuta a C., a una ventina di chilometri dalla tua città d’origine. Come di certo saprai, non è un paese che offre molte prospettive a una giovane donna desiderosa di prendere in mano la propria vita e costruirsi una carriera. Non riesco a ripensare a quel posto senza che l’eco di qualche bestemmia micidiale o di una gara di rutti mi torni alle orecchie.
Non ho avuto un’adolescenza felice. Quando ho detto a mio padre che volevo iscrivermi all’Università di Milano, lui ha sbarrato gli occhi e mi ha risposto – Ghesbòro! – è rimasto pensieroso e vagamente allarmato per un po’, soppesando tutte le implicazioni della faccenda nel suo cervello, che ormai credo galleggi nel Merlot. Alla fine mi ha detto – Va ben, però te la paghi.
Così, dopo aver finito le superiori – ho fatto il liceo linguistico come te, ma chère – ho dovuto trovare un lavoro che mi permettesse di risparmiare i soldi necessari per pagare la retta universitaria. Io non sono bella come te, splendida Eleonora, non ho la tua pelle delicata, il tuo corpo slanciato e atletico e il tuo visino accattivante. Io ho le ossa grosse, la pelle bianchiccia e gli occhi troppo vicini l’uno all’altro. Nessuno dei locali di C. mi ha preso come cameriera, quindi ho dovuto ripiegare su un altro mestiere. Mio zio Dennis al tempo girava i mercati della provincia con il suo banco del pesce e aveva bisogno di un’aiutante che potesse pagare in nero. Era l’unica opzione. La mamma era contraria, ma se volevo raggiungere l’obiettivo che mi ero prefissata, quella era l’unica strada. Lo dici sempre anche tu: “O mangi quella minestra, o salti dalla finestra”.
Per due anni ho sopportato l’odore del pesce e le pacche sul culo che mi dava mio zio a fine giornata, che almeno, a differenza dell’odore, non mi restavano addosso. Per fortuna non si è mai spinto più in là. Una volta ho sentito qualcosa di puntuto premermi in mezzo alle natiche, mi sono girata e c’era lui che rideva di gusto con un merluzzo congelato in mano. Va bene che non avevo il fidanzato, ma certe attenzioni da lui non le avrei accettate. Ma scherziamo? La cosa che mi dispiaceva di più era vedere la mamma arricciare il naso per l’odore ogni volta che rientravo in casa. Cercava di nasconderlo, ma io me ne accorgevo lo stesso e ci rimanevo male.
Uscivo poco con le amiche e rinunciavo a ogni tipo di vacanza per non spendere i soldi che guadagnavo, ma nel tempo libero mi consolavo con i tuoi video. Sei sempre stata strepitosa e te l’ho scritto più di una volta nei commenti. Tutto quello che so sul make-up e sulla moda l’ho imparato da te. È grazie a te se allora ero la più in del mio gruppo di amiche. Non voglio essere cattiva, ma loro non erano certo delle aquile e avevano orizzonti piuttosto ristretti. La differenza di stile tra me e loro però la vedevano eccome. Infatti è a me che chiedevano consiglio quando dovevano vestirsi e truccarsi per un evento importante. Tutto per merito tuo, Eleonora. Sei un sole abbagliante e io, modesta luna, non faccio che riflettere i tuoi raggi. Ma il look è soltanto uno degli aspetti della mia vita che hai migliorato.
Ti ricordi quando nelle tue stories ci hai presentato la tua gattina Duchessa? Era qualche mese prima dell’inizio della tua frequentazione con Richard e non avevi ancora nessuno che ti accogliesse a casa la sera quando ritornavi dal lavoro. Ed era così tenero quel batuffolo di pelo dagli occhi azzurri, così coccoloso! Anche io in quel periodo mi sentivo molto sola e non sai quante volte mi sono ripetuta che, va bene il risparmio, ma ogni sera tornare a casa, fare una doccia, mangiare e stramazzare a letto senza nessuno che mi desse un minimo di attenzione, non era proprio più vita! Ne avevo piene le tasche. Così ho preso la mia Ofelia, come nella Tempesta di Shakespeare, my dear friend. Siamo andate subito d’amore e d’accordo e sospetto che, almeno in questo caso, l’odore del pescato mi abbia dato una mano. Sai, sono quasi identiche Duchessa e Ofelia, solo che, oltre a essere un po’ più scura, Ofelia quando ha fame miagola a terzine: miao-miao-miao, mentre ho notato che Duchessa miagola una volta, poi fa una pausa, poi miagola di nuovo, poi fa una pausa, e così via. Quanto mi ha reso felice quella gattina! Che bello era trovarla appostata dietro alla porta d’ingresso con gli occhi sgranati, a passarsi la lingua tra i dentini affilati – aveva questo tic, la mia Ofelia – pronta a mordicchiarmi le dita con affetto. Mi voleva troppo bene.
Un mercato rionale dopo l’altro ho messo via abbastanza denaro da raggiungere il mio obiettivo: iscrivermi e pagarmi l’università. Com’è stata felice mamma quando gliel’ho detto! Lei per me voleva qualcosa di più che vendere orate e branzini, e soprattutto le spezzava il cuore che avessi sempre addosso quell’odore ripugnante. Così presi una stanza in affitto poco fuori Milano – niente di paragonabile al tuo appartamento in centro, ma con il budget che avevo a disposizione non potevo ambire ad altro; una cosa alla volta – e ci andai ad abitare con Ofelia.
Non ho mai legato molto con le altre inquiline, soprattutto perché erano altoatesine e tra di loro parlavano sempre nel loro dialetto simil-tedesco. Lo trovavo molto antipatico, oltre che scorretto, ma anche se avessi avuto qualche interesse a farmele amiche, me ne sarebbe mancato il tempo. I corsi di economia aziendale infatti erano molto impegnativi e tra frequentare le lezioni e studiare per conto mio, le ore che mi rimanevano erano ben poche. Nei weekend poi lavoravo come commessa in un supermercato per pagarmi l’affitto. E nei momenti liberi seguivo te, naturalmente.
Era il periodo in cui hai dovuto mettere da parte il sogno di diventare una giornalista e sei quasi andata in depressione. Hai passato tre mesi nella casa di montagna della tua famiglia a riflettere sulla durezza della vita e a farti compagnia c’erano solo Duchessa e le poche amiche che venivano a trovarti. Quanto avrei voluto essere lì anch’io a confortarti di persona, oltre che per messaggio! Ma tu sei una tosta e hai saputo reinventarti. Proprio come dici tu: “Se uno vuole veramente darsi da fare, un lavoro lo trova”, e infatti così è stato. Con l’aiuto della tua famiglia, che è sempre importante, hai aperto la tua agenzia di comunicazione, la PinkEye. Hai rischiato e la sorte ti ha premiata. Io intanto superavo al primo colpo tutti gli esami che provavo a dare ed era una gioia immensa crescere in parallelo a te.
Anche quest’anno le cose stanno andando a gonfie vele per me, lo sai? Ho fatto amicizia con due studentesse del mio corso, Carla ed Enrica, e abbiamo iniziato a uscire insieme. Non spesso, è chiaro, ma di tanto in tanto andiamo a ballare nei club del centro. Mi sembra inutile specificare che anche in questo frangente la mia guida sono i tuoi consigli. E poi, sapendo che vivevi a Milano con Richard, beh sarebbe stato fantastico incontrarti in uno di questi locali. E alla fine è successo! Non potevo crederci. È stata una folgorazione per me vederti entrare al Fellini un attimo prima di mettermi in fila con le altre: credevo di svenire. Dopo tutti quegli anni, eri lì. Eri davanti a me in carne e ossa e finalmente avrei potuto dirti quanto sei speciale e fascinosa, quanto sei stata importante per me, che ti ammiro tantissimo e che ce la stavamo facendo entrambe, ognuna a modo suo, come due sorelle lontane, ma fatte della stessa pasta. Una volta entrata nel locale, appena i miei occhi si sono abituati alla luce soffusa, ti ho vista al tavolino con le tue due amiche che erano stupende anche loro, ma mai quanto te. Tutto a un tratto mi tremavano le gambe e mi mancava l’aria. Ci credi? Non riuscivo a decidermi a venire a salutarti. “Guai a te, guai a te” ricordo di essermi detta, “guai a te se ti fai scappare un’occasione del genere! Se non hai il coraggio, trovalo”. Il barman biondo dietro al bancone ha guardato verso di me e ho pensato che lui era lì proprio per vendere a noi, povere ragazze insicure, un po’ di coraggio liquido, quindi mi sono fiondata da lui a ordinare un vodka lemon. L’ho bevuto in tre sorsi perché non avevo idea di quanto saresti rimasta, ma non è stato sufficiente, quindi ne ho bevuto un altro. Carla ed Enrica mi guardavano come se avessi perso la testa, ma la paura era passata e tu eri ancora seduta lì. Mi sono avvicinata a te con il mio miglior sorriso e quando mi hai guardata sono rimasta senza parole, perché dal vivo sei ancora più bella che nelle stories. Stavo per dirtelo, ma tu mi hai preceduta.
– E questa lurida cosa vuole adesso? – hai detto alla tua amica bionda.
A questo avrei anche potuto resistere, perché alla fine non ci eravamo mai incontrate di persona. Tu non sapevi chi fossi io, e magari quello non era un buon momento per disturbarti. Però la tua smorfia di ribrezzo mi ha uccisa. Non riuscivo più ad articolare le parole. Quella smorfia era identica a quella che faceva mia mamma quando le arrivava al naso l’odore di una giornata passata a maneggiare pesci e significava “oddio, che schifo!”. Non ho sentito cos’altro hai detto mentre mi ritiravo, sconfitta e demolita. Non ricordo di aver sentito più altro quella sera, tanto ero traumatizzata. In automatico sono andata al bancone a ordinare un terzo vodka lemon. Avevo perso mie compagne di serata e da quel punto in poi ricordo solo una serie di flash.
Lacrime sul bancone…
Un bicchiere che cade…
Luci troppo veloci…
Tu che cammini verso il bagno…
Io con in mano qualcosa di piccolo e viscido…
Delle braccia che mi sollevano…
Sirene.
Mi sono svegliata in un ambulatorio con la testa che era sul punto di scoppiare e non sapevo come ci ero arrivata. Il dottore che mi teneva d’occhio aveva dei modi proprio da stronzo, ma mi è sembrato saggio non farglielo notare. Poi sono arrivati i due carabinieri e mi hanno detto che ero in arresto. Non ce l’ho fatta a resistere e sono scoppiata a ridere, ma quando mi hanno detto i capi d’accusa ho riso ancora più forte. Secondo questi signori io ti avrei aggredita, immobilizzata e cavato un occhio con un bicchiere rotto urlando, cito: “insulti e blasfemie irripetibili”. Ma riesci a crederci? Se c’è una persona al bene della quale tenga più che al mio, quella sei tu, ho tentato di spiegare loro. Il solo pensiero di poterti assalire e ferire per me era talmente assurdo che non riuscivo a smettere di ridere. E infatti ridevo, e loro continuavano a scambiarsi occhiate. Mi hanno detto che ci sono i video, ci sono dei testimoni, ma figuriamoci! Solo in quel momento ho realizzato che se eravamo lì a discuterne, qualcosa doveva esserti capitato. Cosa è successo Eleonora? Qualcuno ha osato toccarti, farti male? Bisogna essere dei mostri per prendersela con una creatura bella e delicata come te. La possibilità di venire associata a un atto così vile e orribile mi repelle e mi strazia il cuore. Mi sento sprofondare se penso a quali terribili menzogne potresti aver udito. Per questo sto scrivendo questa lettera. Non mi hanno ancora restituito lo smartphone, ma a forza di insistere sono riuscita a ottenere dei fogli di carta. Al momento è l’unico mezzo che ho per comunicare con te e dirti di non credere nemmeno per un secondo che io abbia potuto e potrei mai torcerti un capello e che al contrario in una situazione del genere ti avrei difesa con la vita.
È tutto un malinteso, Eleonora. Presto ci incontreremo e chiariremo tutto da buone amiche. Sono certa che è questo che la sorte ci riserva, che supereremo tutti gli ostacoli, noi due. Sai, dalla stanza in cui mi trovo, sento dei gatti miagolare dalla strada e ce ne sono due che sento più forte di tutti gli altri. Il primo fa tre miagolii alla volta, il secondo tra un miagolio e l’altro fa una pausa sempre uguale.
Miao-miao-miao, miao… miao… miao.
Direi che ricordano due frugoletti di nostra conoscenza, non pensi? In qualche modo Ofelia e Duchessa hanno già fatto pace e mi mandano un messaggio: va tutto bene, tutto si sistemerà. Come tu non ti stanchi mai di ripetere, cara Eleonora: “le prove che la vita ci mette davanti, alla fine ci fanno sempre crescere”. E crescere con te è fantastico! 🙂
Con immenso amore,
Flavia
Matteo Gozzi

