
Editoriale ottobre
Qualche settimana fa mi sono imbattuta in una frase che non sono riuscita a scrollarmi di dosso.
Certo, capita spesso di leggere frasi belle che restano nella mente e che magari faccio lo sforzo di appuntare su un taccuino o su fogliacci volanti che finiranno nel chissà dov’è del mio personale disordine.
L’universo è scritto in lingua matematica.
È una frase semplice. Ha l’unica pretesa di essere stata scritta da Galileo Galilei.
[Forse anche di asserire quella che per i matematici è una verità. Anzi no, la Verità.]
Lì per lì non ci ho fatto molto caso, ma poi ha preso a ronzarmi in testa come una fastidiosa zanzara. Voleva le prestassi attenzione.
Guarda che poi ti uccido, ho detto a quel pensiero.
Sei sicura? Mi è sembrato di rispondermi.
Ho fatto finta di niente. Ma l’universo non mi ha dato tregua:
Zia, il prof. di matematica mi ha già dato delle espressioni da risolvere, non è che mi aiuteresti?
Ok, ho risposto [a mia nipote e all’universo].
D’un tratto mi sono ritrovata catapultata nel passato e ho rivisto me adolescente piegata sulla scrivania con tanto di quaderno quadrettato, penna, dita che contavano altre dita, segni e numeri.
Che gioia quando il risultato [quasi sempre un numero e solo a volte un impossibile] dei miei infiniti calcoli corrispondeva a quello del libro. Poi, crescendo, sono arrivate le equazioni: un’uguaglianza matematica tra due espressioni contenenti una o più variabili, dette incognite. L’incognita, un altro numero che si nascondeva sempre dietro la lettera x, andava stanata. Che poi perché proprio la x? Non poteva essere usato che so, un punto interrogativo? In effetti le cose sarebbero state più complicate nei sistemi di equazioni in cui le variabili sono due, o anche di più, se avessimo optato per lo stratagemma dei punti interrogativi, mi sono detta. E allora, quei gran geniacci dei matematici, ai quali non sfugge proprio nulla o quasi, hanno pensato bene di ricorrere ad altre lettere: y e z, per dirne alcune. In altri casi sono andati a scomodare pure l’alfabeto greco.
E che dire dell’espressione condizione necessaria e sufficiente se e solo se?! Tutte le volte che la pronunciavo mi sembrava di stare nell’aula di un tribunale a discutere un’arringa. E come dimenticare tutti quei postulati, i teoremi e le formule geometriche che dovevo memorizzare neanche fossero poesie. E poi, non si trattava solo di applicare baseperaltezzadivisodue, no! Ci dovevi ragionare sui problemi. Quelle che invece proprio non soffrivo erano le disequazioni: mi hanno sempre fatto pensare a un disequilibrio, qualcosa che pendeva a favore del più e metteva da parte le minoranze. Una sorta di discriminazione che ecco, non mi sembrava giusto ci fosse – pure – tra i numeri.
All’università sono arrivati, invece, i veri problemi: funzioni, limiti, derivate e integrali. Altra lingua. Arabo per me [ma i numeri come noi li conosciamo oggi non sono forse proprio quelli arabi?]. E, nonostante tutto, sono riuscita a sfangare l’esame e a dire finalmente e ufficialmente addio a tutte quelle strambe congetture che mi sembravano così lontane dalla realtà.
Fino a quando non è arrivato Galileo.
Così ho deciso di chiamare il mio amico moldavo Florin che studia matematica a Pisa e gli ho chiesto di concedermi due passi e quattro chiacchiere sul suo, a me incomprensibile, linguaggio numerico.
Gli ho spiegato che da quando avevo letto quella dannata frase ero andata in tilt, non riuscivo a scuotermi via la sensazione di aver messo in discussione quella che era la mia verità: il numero è correlato a una quantità, la parola a una qualità e questa, nel mondo in cui viviamo, è, senza alcun dubbio, più importante di ogni cosa. E invece adesso Galileo con quella sua bella frase, che aveva scritto secoli prima ma che io avevo scoperto solo di recente, stava dicendo:
Guarda bella che ti sbagli! I numeri, i segni non sono solo forieri di quantità e qualità ma anche – e addirittura, avrei aggiunto io – di Verità assoluta.
Questo era davvero troppo. Un oltraggio, per me.
Sei la solita tragica, ha riso Florin. Poi si è fermato, ha tirato fuori dal suo zaino carta e penna e ha detto:
Facciamo un gioco. Devi disegnare gli oggetti che vedi qui, senza mai staccare la penna dal foglio.

La casetta con la x non è stata poi un’impresa così ardua, mentre il secondo, un cuore con delle linee, e il terzo, un altro cuore più vicino a un cono, mi hanno dato filo da torcere per poi scoprire che, l’ultimo, era proprio impossibile da fare.
Ecco, ha ripreso Florin quando gli ho consegnato – rassegnata – il foglio, questo è il modo in cui i matematici dividono i problemi che poi andranno a teorizzare: il primo è banale, il secondo è difficile e il terzo è impossibile. Perché nemmeno i matematici hanno la risposta a tutto.
Sono rimasta a fissarlo ammutolita per non so quanto.
Lui sorrideva. Io pensavo ai matematici come ai soli veri saggi, filosofi e grandi pensatori della vita.
Abbiamo linguaggi diversi, ma lo stesso modo di approcciarci ai problemi. Che credevi?! E poi non dimenticarti che anche le parole hanno un peso.
Con queste massime, ho salutato il mio amico Florin e ho ripreso a camminare pensando che in fondo è vero: i linguaggi sono diversi, per molti restano un mistero che nemmeno si sforzano di comprendere. D’un tratto, mi sono sorpresa a pensare che non mi stavo più riferendo a segni, ideogrammi, note, suoni o visioni, ma alle persone. Alla poliedrica proprietà di linguaggio che ci contraddistingue.
Sul foglio, che mi aveva restituito Florin, sotto quelle linee sghembe ho segnato: ottobre, diversità di linguaggi.

