storiviste

C’era una volta – Ada Brucia. Storia di un amore minuscolo

C’era una volta,
in un afoso pomeriggio di metà settembre, una donna che aveva tutta l’aria di essersi smarrita. Nonostante avesse seguito tutte le indicazioni: “dopo un piccolo boschetto di querce, si aprirà, davanti a te, una radura, io sarò lì ad attenderti”, lei era riuscita a sbagliare strada più e più volte.

Se i fratelli Grimm avessero voluto descrivere la scena di me che vago da un quarto d’ora alla ricerca di un parco giochi, in una città a me sconosciuta nel cuore dell’Italia e che sa tanto di fiaba, di sicuro questo sarebbe stato il loro incipit.
[E dopo tanto peregrinar…] Finalmente la vedo: una piccola area chiusa su tre lati da una staccionata. All’interno uno scivolo, due altalene e un castello di plastica in miniatura con un solo ingresso. Il corpo esile di una ragazza dondola sull’altalena e circoscrive nell’aria un angolo di centottanta gradi. Quando si spinge in avanti, getta la testa indietro e i suoi capelli, di un nero corvino, sfiorano il terreno. Quando torna indietro piega le ginocchia per darsi ancora più slancio, per volare ancora più in alto. Sembra felice: sorride e sorridono pure i suoi occhi azzurri.

Anja è scalza, ai suoi piedi calzini spaiati: colore diverso, diversa lunghezza. Ha lasciato le sue sneakers nel punto esatto dove finisce la ghiaia e comincia l’erba. Decido di imitarla anche io. Sembra una di quelle cose che si fanno, per rispetto o per igiene, quando si va a casa di qualcuno. So che con Anja non è niente di tutto questo. Ha a che fare con Ada. Mi fa ciao con la mano. Solo quando mi siedo sull’altalena accanto, lei rallenta.
– Ciao, – mi ripete sorridendo ancora – allora cosa volevi chiedermi?
Le ricambio il sorriso e il saluto e comincio a dondolare piano.
– Innanzitutto una curiosità personale: con questi occhi chiari e il tuo nome particolare, hai per caso origini dell’est oppure ho preso un abbaglio?
– Un abbaglio! Io e i miei genitori siamo tutti nati e cresciuti in Veneto, e da quel che so siamo qui da generazioni. Mia madre ha rubato il nome Anja da una sua vecchia conoscente, che io non ho mai incontrato, proveniente dalla Russia.
– E quei tatuaggi – chiedo indicando il suo braccio completamente tatuato – hanno un significato particolare?
– I tatuaggi mi hanno sempre affascinato ed è forse la forma di arte visiva che preferisco. A volte lascio molta libertà di azione al mio tatuatore, altre volte voglio cose più dettagliate. Non tutti i miei tatuaggi hanno un significato, ma ho un ragno sulla mano in onore di uno dei miei film preferiti, Stoker, e un bruco sul polso per ricordare Ada e Rino.
Già, Ada e Rino. È per questo che siamo qui.

C’era una volta Rino – maledetti fratelli Grimm. Rino è un ragazzo poco più che ventenne. È un falegname, come suo nonno morto qualche tempo prima. Un giorno vede Beatrice, la figlia di una donna che gli ha commissionato un orologio, e se ne innamora. Beatrice ha nove mesi. Rino è un pedofilo. Sa che l’amore è sempre giusto, come giusto è quello che prova per quella neonata, a tal punto da rapirla per vivere una vita insieme. Così Beatrice diventa Ada e Rino per Ada sarà tutto quello che esiste al mondo. Un padre, una madre. Un fratello, una sorella. Un amico. Un amante. Tutto in una persona: il suo Bapu. Ma Ada cresce, comincia a fare domande, comincia a chiedersi e a chiedergli perché lei non può uscire e deve restare sempre in casa. Rino le racconta che non esistono scarpe per lei e le scarpe nel mondo sono importanti perché se non indossa le scarpe e mette i piedi sull’erba, lei brucerà.
Poi un bel giorno un ragazzo si avvicina alla casa di Rino, finiscono con il diventare amici, lei decide di fidarsi di quello straniero. Ada è attratta dal mondo di questo ragazzo, da quel fuori che le è stato negato e quando capisce che Rino l’ha tradita si lascia mettere in salvo.

– Tutto bene? – chiede Anja.
– Sì, certo. Pensavo proprio al tuo romanzo. Come nasce Ada brucia? C’è qualcosa in particolare che ti ha ispirato?
– Il romanzo nasce dalla mia esigenza di indagare determinati argomenti. – Ora Anja è completamente ferma sull’altalena. – Non ho mai visto la realtà come bianca o nera, e ne ho sempre voluto capire le sfumature; per questo anche i personaggi nel tempo cambiano, i rapporti e i sentimenti mutano di continuo. Sicuramente la mia curiosità verso argomenti così pesanti nasce dalla lettura di numerose notizie di cronaca nera, perché sono impressionata in particolare dai rapimenti: scrivere il romanzo è stato anche un trucco per rassicurarmi da sola a proposito.
– E cosa hai provato scrivendo di un personaggio come Rino?
– Rino è arrivato per primo, e se non gli avessi voluto bene fin da subito non avrei mai continuato a scrivere; c’è anche da dire che inizialmente non pensavo di pubblicarlo, quindi ho lasciato viaggiare la mia immaginazione senza auto censurarmi, cosa che comunque tendo a non fare mai.
– Sei stata una scrittrice imparziale o hai finito per giudicare i tuoi personaggi?
– Sono felice di essere rimasta sempre fedele a Rino, anche se ho scritto cose che non approvo e che mi hanno disturbata mentre provavo a prendere sonno. Non l’ho mai giudicato, come non giudico mai nessuno dei miei personaggi, e a dire il vero è uno dei più dolci di cui abbia mai scritto. E tu l’hai giudicato Rino?
Non mi aspettavo questa domanda.
Sì, certo che l’ho giudicato, non le dico. Tutte le volte in cui nel romanzo si masturbava quando faceva il bagnetto ad Ada. Quando le ha fatto perdere la verginità ancora adolescente, lui che ormai aveva già superato i trenta. Quando Ada aveva le mestruazioni e non la degnava di uno sguardo, quasi la ripudiava. Come non giudicarlo? È schifoso, ricordo di aver pensato più volte. Eppure, a tratti, ho scorto nei pensieri di Rino un interrogativo, un tentativo di capire cosa succedeva in lui. Ricordo di essermi posta due domande: con quanta ansia deve aver vissuto tutto questo amore Rino? E ancora: come mai Ada non è riuscita a fare a meno del suo Bapu dopo? Di quell’amore minuscolo, come suggerisce bene il sottotitolo, che invece di sottrarre qualcosa – la sua intera infanzia e adolescenza –, a lei ha dato tutto?
E poi una risposta: in una storia come Ada brucia che ha tutti gli elementi per essere una fiaba alla Walt Disney – una donna in pericolo, la salvezza che arriva da un uomo, più buono e giusto, il ricongiungimento familiare, il cattivo che viene giustamente punito –, Anja sembra essersi posta la domanda: ma com’è la vita dopo il vissero per sempre felici e contenti? Se queste fiabe sono un’astrazione della realtà e devono dire – insegnare? – qualcosa, cosa succede realmente durante e dopo a tutti i personaggi delle fiabe?
– A cosa pensi? – chiede Anja.
– Alle fiabe, – mento un po’–. Pensavo che la storia di Ada e Rino ricorda quella di Raperonzolo.
Annuisce. Restiamo in silenzio ancora per qualche minuto e poi mi decido a chiedere:
– Anja qual è la tua favola preferita?
– Da bambina avevo una raccolta di fiabe illustrata e, neanche a dirlo, la mia preferita era la più cupa: Barbablù. Ogni volta attendevo con trepidazione il momento in cui Anna infila la chiave nella serratura, apre la porta e illumina la stanza piena dei cadaveri delle mogli precedenti. Anche oggi, se rivedo quelle immagini, sento la stessa sensazione di impazienza. Mi piaceva anche la fiaba Raperonzolo, ma quella, penso, originale, in cui alla fine il principe diventa cieco.

Non parliamo più: in sottofondo il frinire dei grilli e il cigolio delle altalene che ora abbiamo ripreso a muovere.
Ada brucia. Storia di un amore minuscolo ha vinto il Premio Pop Opera prima, – interrompo – come hai reagito?
– Sono andata a festeggiare col mio editore, Francesco, e con i ragazzi del Master in Editoria che avevano deciso chi premiare. È stata un’emozione intensa, perché per mesi mi era stato consigliato di scrivere altro, che in pochi avrebbero voluto leggere una storia del genere. Sono felice che Rino e Ada siano stati accolti bene, anche al di fuori della mia testa. Non nutrivo molte speranze a riguardo, è stata una vera sorpresa.
– A quanti hai proposto la storia di Ada e Rino? – incalzo ora, curiosa.
– Solo a effequ che ho conosciuto quando ero alla scuola Holden.
– Ah, non lo sapevo! Com’è stata la tua esperienza alla Holden?
– Ci sono andata subito dopo il liceo, ed è stato sicuramente un ambiente in cui ho potuto andare tre volte più veloce di quanto avrei fatto al di fuori. Soprattutto il secondo anno mi è servito a togliermi un sacco di paure. Avere degli scrittori sempre a disposizione e a cui chiedere consigli mi ha aiutata a non farmi intimidire, a dirmi che potevo farcela. Non so se ora come ora è una scelta che rifarei, so solo che alla fine dei due anni ero contenta di cominciare qualcos’altro, sapevo che la Holden non avrebbe più potuto darmi nulla.

Ora di nuovo in silenzio, ci concediamo di ascoltare i nostri pensieri. Di assecondarli o di liberarcene.
– Ho un’ultima domanda.
– Dimmi pure.
– Se proclamassero uno stato di emergenza e per ognuno di noi fosse concesso di portare un cibo, un libro e un film, quale sceglieresti?
– Un cibo a cui non rinuncerei mai sono le patatine fritte perché da quando sono vegana sono la mia àncora di salvezza ogni volta che esco di casa. Tra me e loro si è instaurato un rapporto di fiducia. – Ride. – Invece, il mio libro preferito è Cime Tempestose, ma penso che una storia così lineare mi annoierebbe a lungo andare, quindi opterei per qualcosa che racchiuda più storie insieme, come Infinite Jest o la Bibbia. Sul film non ho dubbi, perché è l’unico finora che ha parlato direttamente alla mia anima, che mi ha paralizzata sulla poltrona del cinema e a cui penso ogni giorno da quando l’ho visto: Il portiere di notte, di Liliana Cavani.
– Posso farti una domanda? – mi sorprende Anja.
– Certo, – balbetto.
– Qual è invece, la tua favola preferita?
– Mmh. Così su due piedi proprio non saprei. Però è da quando l’hai pronunciata che non riesco a non pensarci. – Quasi vergognandomi abbasso lo sguardo e con un filo di voce dico: – Non conosco Barbablù.
– Davvero?! – si blocca e si alza di scatto dall’altalena. – Non è possibile! – E scuote la testa, – vedi di rimediare.
Le sorrido e le chiedo:
– Ti va di raccontarmela?
Mi guarda, fa un respiro e mi dice:
– Ok.
C’era una volta un uomo molto ricco di nome Barbablù…

Francesca Gentile