racconti

Cannella

Indice e pollice cercano invano la lametta, un contatto precluso dalla carta velina che struscia tra i polpastrelli con un fruscio simile al lamento delle foglie secche sotto le suole di scarpe. Il ricordo delle camminate al parco riemerge immediato dalla memoria: la mamma che vagava a elemosinare uno spicciolo, noi che la seguivamo qualche passo indietro quasi fossimo annodate ai suoi fianchi da una corda intessuta di fili invisibili. Agata stringeva la mia coscia nuda, lo sguardo rivolto alle cime degli abeti che si stagliavano su nubi mercurio, la consapevolezza di essere anche lei come una pianta nata nel sottobosco melmoso di una città senz’anima, un germoglio impaziente di crescere e che sgomita per ogni singolo riverbero di luce.

«Olivia?»

«Dimmi polpetta».

«Mi prometti che resteremo sempre insieme?»

Lo specchio puntinato di macchie catrame rifletteva l’immagine dei nostri volti di bambine, in sottofondo il parlottio confuso della televisione. Agata sgranocchiava biscotti alla cannella che nostra madre rubava al bar del quartiere, io pettinavo i suoi capelli indocili e arruffati. Fissavo il suo viso, gli zigomi, il mento, il taglio degli occhi smeraldo e notavo lineamenti somiglianti ai miei: pennellate simili su incarnati di porcellana a indicare che eravamo sorelle anche se di padri diversi. Poi lei si soffermava sul mio sorriso a labbra strette in attesa di un’affermazione accondiscendente alla sua domanda. Io però non rispondevo, stringevo quel corpo spigoloso, sterno contro schiena e distoglievo lo sguardo mentre i pensieri annegavano nelle gocce di temporale che picchiettavano sul vetro della camera.

Il giorno in cui ci hanno separato la neve era scesa senza sosta per tutto il pomeriggio, quasi a voler donare un briciolo di candore a quel momento. La mamma sedeva sul divano, immobile, le palpebre spalancate a mostrare gli occhi globosi e arrossati come quelli dei pesci sui banchi del mercato. Agata piangeva in silenzio, tremava, le spalle sussultavano a ogni singhiozzo, cercava un appiglio nelle mie mani, dita intrecciate, poi un abbraccio stretto, privo di parole, i nostri cuori che battevano all’unisono fino all’ultimo secondo, prima del freddo, del vuoto e di una porta che si chiudeva senza far rumore.

Quasi dieci anni dopo, la notte svanisce, le stelle opache sospese nel ritaglio di cielo intrappolato tra i montanti della finestra, baluginano un’ultima volta prima di nascondersi nella luce. Io sospiro, aspetto la mattina seduta sul pavimento, la schiena poggiata su di una carta da parati a fiori. Le rotule paiono fuoriuscire dalle mie gambe ossute, tendono la pelle delle ginocchia genuflesse al cospetto di una statuetta della Vergine Maria con le braccia aperte e un cuore porpora nel mezzo del petto. Era già lì quando sono arrivata all’Istituto. Mi attendeva silenziosa.

Questa notte non ho dormito, ho scarabocchiato su di un foglio una linea, poi un’altra, fino a ricoprire lo spazio vuoto di una pagina con visi paffuti di bimba, volti uguali al ricordo di Agata impresso nella mia mente. Ora respiro piano accartocciando il foglio, apro con disinvoltura la lametta stretta tra le dita con un movimento rapido, ormai abitudinario. Qualcuno accende la radio poggiata sul tavolo del corridoio comune, le casse gracchiano e diffondono nell’aria note che entrano nella mia stanza fluttuando come voraci leviatani. E mentre Rod Stewart in sottofondo domanda con voce roca se abbia mai visto la pioggia cadere in un giorno di sole, annuisco e incido ancora una volta l’avambraccio con la lametta alla ricerca di una goccia di sangue resinoso, di un attimo di vita. E, come se la mia pelle fosse un esoscheletro privo di recettori nervosi, disegno cicatrici sopra cicatrici. Chiudo gli occhi finché, d’improvviso, sento tutt’intorno un lieve profumo di cannella.

Davide Ceraso

In copertina @polpetta.jpg