editoriale

Editoriale settembre

Il nome deriva dal latino september, a sua volta da septem, sette, perché era il settimo mese del calendario romano, che iniziava con il mese di marzo. Nel 37, l’imperatore Caligola mutò il nome del mese in Germanico in onore dell’omonimo padre, ma alla morte dell’imperatore il nome tornò quello originale. Nell’89 il nome fu nuovamente cambiato in Germanico, questa volta per celebrare una vittoria dell’imperatore Domiziano sui Catti, ma quando anche Domiziano morì [assassinato], il nome del mese fu ripristinato. Destino breve ebbe anche la riforma del calendario operata da Commodo, nella quale il mese di settembre prendeva il nome di Amazonius.

Anche se in realtà muoio dalla curiosità di sapere chi siano questi Catti, la mia attenzione è focalizzata su settembre, il nono mese dell’anno gregoriano – il nostro – che ho sempre pensato fosse dedicato a nuovi inizi. La scuola per esempio [per la gioia di mamma e papà]. Le diete. La palestra. [Il lavoro no, non finisce mai.] I propositi e le promesse che faticheremo a mantenere, che dureranno fino a Natale o, per i più accaniti sostenitori della propria volontà, qualche anno in più. Poi di nuovo la fine. Poi di nuovo l’inizio. Poi di nuovo settembre. Un ciclo continuo. 

No. No. No. No. No. No. 

Non ce la faccio a parlare di inizi. Cosa me ne importa veramente di settembre? Nella testa ci sono mille e più frasi che mi ronzano da un po’. Sempre le stesse. Sempre dette da altri.

[Devi lasciarti scivolare tutto. Lascia perdere, non ne vale la pena. Non ci pensare. Poi passa.]

A tutte queste affermazioni avrei l’impulso di rispondere: 

Poi quando? Ho uno scivolo sulla mia pelle e non lo sapevo? Non riesco a non pensarci. Non riesco a lasciar stare perché per quanto minimo possa sembrare a te questo problema, a me sta a cuore.

Lo so, lo so che sono frasi che hanno un unico scopo: alleviare la sofferenza altrui. Beninteso, le avrò utilizzate anche io per consolare qualcuno ma quando poi, vedevo affacciarsi sul volto la stessa espressione che non ho mai visto sul mio, ma ho sentito tante volte provare, allora capivo di aver detto una cazzata. 

Scusa, ho provato sempre a giustificarmi, so che non basta.

Certo che non basta, siamo molto più complessi di una frase confezionata. Fossimo fatti di bei periodi che fanno un bel testo saremmo a cavallo. Ma che dico?! Anche un libro è difficile da costruire. Non sopporto le persone che continuano a ripetere dovrei scrivere un libro su questo o su quell’altro, come fosse la cosa più semplice e veloce del mondo. A tutti gli aspiranti autobiografi mi sento di dire: non ci si può improvvisare scrittori o muratori a piacimento. Non è semplice. È complesso. 

Tutto quello che ci riguarda è complesso. La nostra stessa natura è complessa: non siamo mica fatti di una sola cellula come i batteri, e non abbiamo – come pure tutti i microrganismi e le piante – un solo elemento chimico. Siamo molecole. Tessuti. Funzioniamo con meccanismi fisiologici articolati. Funzioniamo con meccanismi mentali diversi e complicati. Una persona può essere egoista e generosa allo stesso tempo. Può gioire per i successi di un suo caro e provare invidia per quello che reputa un suo rivale. Ogni giorno cerchiamo di sostenerci a vicenda nella sanguinosa lotta al massacro verso l’altro. Gli uni con gli altri contro altri ancora. Uni e altri che siamo sempre noi. Come se fossimo votati alla sopravvivenza e non realmente destinati alla vita. E poi la gente si scandalizza davanti alle guerre. 

Se c’è una domanda da porsi, non è cosa mi propongo di fare a settembre dopo l’estate o le poche ferie di alcuni o le lunghe vacanze di qualcun altro. La vera domanda che mi preme fare oggi è: come si fa a stare al mondo senza essere sopraffatti dalla mia complessità e da quella dell’altro?

Non so se esiste una risposta all’ennesimo dubbio amletico che mi viene scrivendo, so che adesso, perfino settembre mi sembra complesso. È sette, è nove ma anche Germanico e Amazonius. O almeno lo è stato in passato. 

Allora, se è vero che la nostra vita è un cerchio virtuoso e vizioso che si ripete inesorabile l’unica differenza che possiamo fare non è lasciar correre, ma osservare le nostre diversità, cercare di capire le nostre reazioni. Vedere come e se cambiano nel tempo. Motivarle, accettarle, modificarle. Provarci, quanto meno. L’unica differenza [forse la sola risposta] non è deviare la direzione, ma sceglierne una. O più.